Relazione introduttiva - Domenico Chiesa

«Non sono un uomo di parte, dicevo, però sono un uomo di pace e tutto quanto si fa per promuoverne e assecondarne il processo e la durata lo considero sacrosanto (…)» Mario Luzi nel suo saluto al Senato.
La pace non è di parte. Gli insegnanti sono dei costruttori di pace sapendo che la cultura di pace è un percorso lungo e il tempo e il luogo della scuola sono essenziali per percorrerlo.
Chi opera per la cultura della pace, sia nell’informazione che nell’educazione porta una responsabilità forte: quella di Giuliana Sgrena, Florence Aubenas, Hussein Hanuon.

Questo convegno
Il nostro 34° convegno nazionale è particolarmente ambizioso, forse anche presuntuoso.
Dichiarandolo in apertura mettiamo le mani avanti per contenere i rimproveri ma la presunzione rimane.
Vuole assumersi una non marginale responsabilità: alzare il tiro nel discutere e pensare al futuro della scuola, al ruolo che può assumere per la cultura, il lavoro, la democrazia.
Ma è una scelta obbligata:
“L’utopia oggi pare un’eresia perché nel mondo regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che sembra rendere obsoleti sia le lezioni del passato sia il desiderio di immaginare l’avvenire. (…)” (Marc Augè in un recente intervento pubblico)
Anche Tullio De Mauro ci spinge verso questa direzione anche recentemente: il richiamo nel suo libro la cultura degli italiani a reagire all’involuzione in atto, ad opporsi allo smantellamento dell’apparato pubblico dell’istruzione e della ricerca, alla riduzione dell’istruzione da obbligo garantito dalle leggi, ad un fatto privato regolato da scelte delle famiglie, a continuare a pensare alla scuola come agente dell’uguaglianza sostanziale dell’art. 3 della Costituzione.
Certo la nostra presunzione non sta nel pensare di aver trovato risposte compiute, bensì nel cercare di definire e ridefinire i problemi che la scuola dovrà affrontare
La nostra presunzione è resa meno pesante grazie gli illustri intellettuali e politici che hanno accettato l’invito di contribuire allo sviluppo di queste tre giornate.
Parlare di scuola, per una associazione di insegnanti (anche se si chiama centro di iniziativa democratica) rischia l’autoreferenzialità: parlare dall’interno, sull’interno, compiacersi del parlarsi addosso.
Ne siamo consapevoli e ogni aspetto dell’impianto di questo convegno, grazie anche all’apporto degli interlocutori che lo hanno reso possibile (il Comune e la Provincia di Roma, l’Università Roma tre, la Fondazione Sigma-tau e le case editrici Zanichelli, Loescher e D’Anna), ma anche tutte le iniziative che hanno preceduto queste tre giornate, realizzate nelle tante città in cui opera il Cidi, cercano di fargli assumere una sostanza di ricerca e di reale confronto per rendere più allargati e aperti i confini della scuola
“Una scuola grande come il mondo” e “Quale scuola per l’Europa” erano i temi dei convegni nazionali degli ultimi anni, perché parlare di scuola è parlare del mondo, è parlare dell’Europa.
Parlare di scuola è parlare di cultura, lavoro, democrazia.

Ci sono parole importanti di una enciclopedia in continua riscrittura, che rappresentano mondi di significati che parlano alla scuola.
Il convegno è costruito nel far incontrare la scuola con alcune di questa parole chiave che da un lato permettano di ricostruire l’orizzonte di significati e dall’altro di dare spessore a tale orizzonte proprio nella dimensione del fare scuola.
Nel pomeriggio ne incontreremo alcune.
Anche questa relazione di apertura cercherà percorrere alcune parole che possono confrontarsi nella costruzione di una nuova prospettiva dell’educazione.

Identità
Identità è la prima parola su cui mi voglio soffermare. È una parola dell’emergenza.
L’approfondirsi di forme di integralismo religioso ha come risposta la riscoperta di forme di altri integralismi religiosi: il significato e le forme dell’identità e della sua costruzione è veramente emergenza.
«Le condizioni dell’esistenza umana vita - natalità, mortalità, mondanità, pluralità e terra – anche se non potranno mai rispondere alla domanda “chi siamo noi?” » (Hannah Arendt)
rimangono comunque i riferimenti più significativi per ragionare sulla costruzione della, delle identità.
L’approdo alla condizione umana significa spostarsi dal campo della ricerca della natura umana, dell’idea di uomo da disvelare, ma non è uscire dalla prospettiva kantiana secondo la quale gli uomini possono puntare a costruire una società politica universale, possono pensare ad una “storia universale da un punto di vista cosmopolitico”.
Non si va alla ricerca del piano naturale della storia umana semplicemente da assecondare, si cerca la costruzione di una prospettiva che ogni società deve continuare a porsi con la convinzione della consapevolezza.
Ragionare sui dati della condizione umana storicamente determinata e sfaccettata, in cui si confrontano diversità-unità biologico/culturali e uguaglianza umana (Dobzhansky), in una “modernità liquida”, è alla base del ragionare sull’identità e sulla sua costruzione.
«L’identità ci si rivela come qualche cosa che va inventato piuttosto che scoperto; come un traguardo di uno sforzo, un obiettivo, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero selezionare fra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto con altre lotte ancora». (Barman 13)
1784, Kant annota: il nostro pianeta è di forma sferica, finirà per essere totalmente occupato dagli uomini in ogni suo spazio (globalizzato) e la tendenza alla felicità sostenuta dalla ragione renderà conseguente il destino dell’umanità a costruirsi in una identità universale, forse l’unica forma di identità da porre come base per la convivenza civile.
Il destino della comunità universale tutta umana e il destino della libertà di ciascun cittadino, risultano inscindibili in questa visione e rappresentano la base necessaria per costruire un’identità in cui si ricompongono la sicurezza sostenuta dall’appartenenza con il diritto inalienabile della libertà individuale.
Ma la prospettiva di Kant non poteva essere compresa e praticata in un tempo interamente occupato a definire le identità nazionali necessarie per promuovere a stato i territori.
La prigionia nella trinità territorio/nazione/stato, (come ci viene raffigurata da Bauman) ha allontanato la prospettiva della comunità umana cosmopolita, che, non assistita dall’approccio di classe all’identità, non ha guadagnato terreno rispetto ai tempi dell’inizio dell’avventura della modernità.
Eppure rimane l’unica alternativa sensata e secondo ragione alle conseguenze dell’identità per nascita. Continua a corrispondere al desiderio di ottenere l’unità senza offendere le differenze e preservare le differenze mantenendo l’unità.
In questi due secoli la piccola sfera su cui viviamo è diventata sempre più piccola e l’identità nazionale non ha retto: si è indebolita in conseguenza delI’incrinatura del tradizionale accordo di convenienza tra nazione e Stato; ne è emersa un’umanità più frammentata e divisa che ha allentato i legami di solidarietà (nazionale) potenziando forme di esasperato individualismo (peraltro non liberato da dinamiche di omologazione) e parallelamente ha sollecitato forme di appartenenza e di identità che solo apparentemente sembrano richiamare ad una ritorno del nazionalismo e che invece rappresentano una «ricerca di soluzioni alternative locali a problemi globali», «cercare protezione dagli ora gelidi, ora brucianti venti della globalizzazione, che le mura sgretolate degli Stati-nazione non sono più in grado di dare». «Ma, a metà strada tra lo Stato-Nazione e la comunità locale, vi sono le regioni, che forniscono tentazioni per demagoghi e leader senza scrupoli. Nel nome dell’autogoverno, vogliono disegnare confini. Spesso, sono pronti a usare la violenza per farlo» (Dahrendorf )
Le tragedie che si sono già succedute negli ultimi decenni sono spaventose.
Su un altro piano lo sforzo che gli Stati hanno profuso per duecento anni nel controllare il movimento delle persone e di arginare gli spostamenti non sotto controllo ha reso una moltitudine di persone inapplicabili quei diritti universali dichiarati inalienabili, riaprendo la separazione tra l’essere uomo e l’essere cittadino di una stato sovrano (H. Arendt).
È un processo che ha prodotto identità prive di cittadinanza o l’assenza di identità: underclass, sans papiers, profughi, uomini e donne non territoriali in un mondo in cui l’identità è vincolata al territorio. Il processo dell’esclusione si è aggiunto a quello dello sfruttamento diventando la base più forte e sempre più estesa di disuguaglianza, povertà e perdita di dignità umana
Ora che il nostro piccolo mondo sferico sta veramente per giungere a saturazione, solo quel modello di comunità, che oggi sta fortunatamente tornando al centro del dibattito politico, non esistente in alcun luogo, ossia la comunità globale –cioè una comunità inclusiva concordate con la visione di Kant una società politica universale-, può rappresentare una vera alternativa alla barbarie.
Però l’identità che si potrebbe assumere come “costituzionale” presuppone una profonda consapevolezza culturale.
Alla scuola fischiano le orecchie.

Lavoro
C’è una seconda parola su cui vorrei ragionare. È una parola di cui la scuola ha soggezione, rispetto e timore.
All’inizio del mio lavoro, primi anni ’70, facevo parte del consiglio di amministrazione della scuola in cui insegnavo, un importante I.T.I.S.; con me il preside e altri colleghi. Ma del consiglio erano membri anche i rappresentati degli artigiani e industriali del territorio.
Noi insegnanti ma anche il preside, autorevole nel collegio e con gli studenti, diventavamo piccoli piccoli di fronte a quegli artigiani e imprenditori che erano gli stessi che offrivano il lavoro ai nostri diplomati. Quell’immagine mi rimane come simbolo della soggezione che la scuola prova verso il lavoro.
Ecco il lavoro, il lavoro e la scuola. La scuola è un elemento fondamentale dell’esperienza dei bambini e dei ragazzi dai tre ai 19 anni, Ma la scuola sa che consegnando i propri studenti al mondo adulto li consegnerà anche al mondo del lavoro. Cosa deve fare? come si deve rapportare? Che ruolo deve svolgere? E più in generale in quale rapporto sta la sua cultura con quella del lavoro?
Quanti di noi, forse anche tra i presenti sono stati segnati dalle tesi sulla scuola di Rossana Rossanda, Marcello Cini e Luigi Berlinguer apparse all’inizio del 1970. Al centro di quello scritto si poneva proprio la valenza formativa del lavoro e della sua cultura. Si può pensare come risposta al problema? Come si evoluto il problema prima ancora delle possibili soluzioni.
Tante domande, necessariamente partire da tante domande anche per contrastare la semplificazione con è stato riproposto negli ultimi anni… = bisogno di approfondire….
Il riferimento di sfondo rimane la ricerca mai esaustiva del significato che il lavoro assume come motore dell’economia e del suo sviluppo e come cardine della vita che possiamo vivere.
Un quadro particolarmente efficace si può rintracciabile in una riflessione di Giovanni Mari.
La riflessione si avvia da quello che Mari assume come il paradosso di Amartya Sen per una nuova cultura del lavoro; paradossale è che Sen impieghi il punto di vista di Aristotele, che ricerca il tipo eticamente più elevato di vita mediante l’esclusione di tutte le forme appartenenti alla sfera delle attività produttive, al fine di proporre una idea di sviluppo di tale sfera come incremento per ciascuno della libertà e possibilità di scelta di vita preferibile
Sen prefigura una cultura del diritto alla libertà “del” lavoro a partire da una cultura dell’esclusione, del rifiuto e del disprezzo del lavoro.
Molto schematicamente si può dire che lo sviluppo del pensiero, da Aristotele alla nostra contemporaneità, è costantemente attraversato dal bisogno di cercare, scoprire o costruire nuove forme di rapporto tra lavoro e libertà, tra lavoro e realizzazione umana: dalla libertà “dal” lavoro (che rimane il primo gradino spesso non oltrepassato) alla libertà “nel” lavoro (che ha corrisposto alle incredibili battaglie e conquiste per il miglioramento della qualità del lavoro che aprono però sempre nuove frontiere di sfruttamento) alla libertà “del” lavoro che ha retto utopie e prodotto tante disillusioni. Proprio il rapporto sviluppo e libertà prefigurato da Sen potrebbe proporre una nuova possibile prospettiva di una cultura e pratiche del lavoro come base della realizzazione umana.
Tant’è però che negli ultimi decenni le trasformazioni che il lavoro ha subito, sotto i processi di globalizzazione, delle nuove dislocazioni della produzione, delle modifiche dei mercati internazionali, della finanziarizzazione dell’economia, dell’innovazione delle nuove e delle vecchie tecnologie, sono state tali da moltiplicare le analisi e le tesi sul suo futuro;analisi e tesi a volte più vicine alle suggestioni che all’approccio d vere teorie.
Il lavoro è esploso, il lavoro si è spezzato e penso che immediatamente il pensiero corra su “la fine del lavoro” di Jeremy Rifkin e nel contempo alle accuse di improvvisazione, superficialità e miopia con le quali da più parti si è cercato di contraddirla.
Il fatto è che accanto alle interpretazioni non convergenti sul senso delle trasformazioni del lavoro, alcuni effetti di tali trasformazioni hanno cominciato a gravare sulla nostra vita. Il fenomeno più macroscopico è senz’altro quello che viene definito come flessibilizzazione del lavoro ma che nella realtà si configura come una forma preoccupante di precarizzazione.
Alcuni mesi fa apparvero sui miri di una grande città manifesti giganteschi attraverso i quali l’Ente regionale pubblicizzava il lavoro flessibile: un ragazzo e una ragazza, mano nella mano guardavano insieme al futuro. Il manifesto è presto scomparso e non mi risulta che sia stato riproposto.
In realtà la conseguenza della flessibilità-precarietà sta producendo un terremoto nella vita di ciascuno, si incide sulla qualità del tempo della vita e l’assenza di educazione permanente, della reale possibilità di ampliamento delle competenza del singolo ne aggrava la percezione. Il lavoro flessibile trasformatosi in lavoro precario si presenta come «una ferita dell’esistenza, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione di diritti di cittadinanza che si davano per scontati. In secondo luogo il lavoro che si fa oggi è capace di presentare i conti anche tra dieci o vent’anni. Quando la giovinezza sarà passata, e le lacune di formazione, i progetti di vita rinviati e mai realizzati, le esperienze professionali frammentarie che caratterizzano i lavoro flessibili protratti per lungo tempo comporranno un curriculum dinnanzi al quale un responsabile delle risorse umane dopo l’altro scuoterà mestamente il capo». (Luciano Gallino,
Viene forse ad infrangersi la prospettiva che il lavoro flessibile non operi nel sostenere la società flessibile, della conoscenza in cui tutti proseguono lo loro formazione intellettuale e professionale per l’intero arco della vita perché appunto conoscenza e competenza rappresentano di tale società le risorse più pregiate e disponibili. La forma che il lavoro flessibile sta assumendo non è quella della libertà del lavoro. Il rischio che sta emergendo è quello della polarizzazione crescente verso l’alto e verso il basso delle conoscenze come della distribuzione delle risorse. «La stratificazione delle forze di lavoro assume in complesso una forma a clessidra. Per coloro che ne occupano la parte alta i salari sono elevati, la formazione è realmente continua, l’occupazione è stabile. (…) nella parte bassa della clessidra stanno gli altri lavoratori. (…) Lavoratori, uomini e donne sui quali ogni impresa che li occupa non ha alcun interesse ad investire in termini di formazione. La società della conoscenza, per loro, è un’espressione pressoché priva di significato». Ma è una massa che rappresenta «i due terzi del totale delle forze di lavoro utilizzate da un’impresa, che fluttua dentro e fuori dell’impresa motrice, da un subappaltatore all’altro, da uno spezzone di lavoro ad un altro».
Come sarà possibile promuovere maggiore libertà, maggiore democrazia proprio dallo sviluppo, passare dall’obiettivo della libertà dal lavoro a quello della libertà del lavoro?
Una lettura certo disincantata, ma forse proprio in quanto disincantata, meno incline a semplificazioni consolatorie, può essere utilizzata per ritornare al rapporto tra scuola e lavoro.
Se la scuola vuole essere utile ad una cultura del lavoro in cui lavoro, sviluppo e libertà possano essere pensati in modo che l’incremento dei primi possa prevedere la crescita dell’altra, non può, non deve, pensarsi come strumentale; deve riconoscersi, pensarsi, progettarsi per quello che è: una grande e fondamentale Istituzione pubblica, tempo e luogo dell’infanzia e dell’adolescenza. Nella propria autonomia istituzionale può garantire quella formazione e consapevolezza culturali profonde e persistenti in grado, un quanto non dosate sui bisogni contingenti delle professioni, di offrire a ciascuno maggiore potere ne costruire la propria vita anche lavorativa.
Purtroppo sul rapporto scuola-lavoro si giocano una serie di fraintendimenti e si costruiscono tanti luoghi comuni. Quale rapporto deve avere la scuola con il lavoro? L’idea che siccome la scuola è teoria, porta a pensare che sia sufficiente aggiungervi, ogni tanto, pezzettini di pratica, scampoli di operatività.
Questa è la semplificazione/banalizzazione del rapporto che ci può essere a scuola tra scuola e lavoro. Si devono invece percorrere strade molto diverse e non far coincidere in modo riduttivo e approssimativo la cultura tecnologica (una componente dell’istruzione senza aggettivi) con il percorso di costruzione delle professioni.
Fino ad una certa età il rapporto tra scuola e lavoro per definizione è solo nel percorso interno al curricolo, nell’esperienza conoscitiva, la scuola non può incontrare il lavoro reale, il lavoro non è sinonimo di operare o di costruire degli oggetti, il lavoro non è separabile dall’essere interno ad un rapporto di lavoro. È fondamentale che la scuola impari a incontrare la cultura del lavoro ma lo può fare con i mezzi e gli strumenti che le sono propri, cioè quelli della cultura.
Il lavoro è storicamente luogo di produzione di cultura. La tecnologia (nell’accezione di cultura tecnologica) potrebbe essere una modalità per intercettarla, ma la tecnologia per farlo deve essere assunta nella scuola come vero sapere, come approccio originale alla conoscenza, come linguaggio, fattore di cultura o di formazione generale e non come elemento professionalizzante (in senso specialistico) da scongiurare nei licei e da confinare negli istituti tecnici e professionali.
L’insufficienza della ricerca epistemologica relativamente alle scienze tecnologiche, la trasformazione dei processi produttivi e l’incredibile impatto delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione rendono problematica la stessa sistemazione statutaria ma la sua traduzione in curricolo.
L’accezione di scienza dei sistemi artificiali, ancorati nella loro dimensione storica, è quella maggiormente significativa per ripensare la valenza formativa che la tecnologia potrà assumere nel curricolo verticale del secondo ciclo, in modo da poter configurare percorsi di istruzione non di serie B.
È ancora un concetto caro a De Mauro il riconoscere nella cultura accanto alla componente “letterario-filosofica”, quella scientifica ma anche con determinazione quella “dimensione tecnica, tecnologica, operativa delle culture intellettuali”.
Scienze dell'artificiale è il nome con cui Herbert Simon definisce quell’insieme di conoscenze che hanno come oggetto l’ampio ventaglio di attività volte alla progettazione, alla costruzione e trasformazione di qualcosa in vista di determinati obiettivi e di un migliore rapporto tra uomo e natura.
Emancipazione
Solo nella pienezza di Istituzione costituzionale, è riposto il significativo apporto che la scuola pubblica può offrire alla costruzione delle identità, di identità in grado di offrire sicurezza ma anche capaci di promuovere la convivenza democratica e a garantire al lavoro di tutti la necessaria competitività ma soprattutto di garantire a ciascuno la possibilità di vivere una vita realmente umana.
La libertà nel e del lavoro.
Non certo nella separatezza né nell’estraneità ma nell’autonomia di funzione e di progetto, secondo il mandato costituzionale.
Eppure da alcuni anni si parla, anzi si auspica, la morte di Socrate o meglio della scuola moderna nata alla fine del ‘700.
Così i tediosi insegnanti, ridotti drasticamente di numero, verranno riconvertiti in “agevolatori dell’interazione dello studente con il computer e la realtà simulata nel computer”; saranno quindi i brillanti strumenti elettronici, che avranno immagazzinato il sapere, a restituire ai bambini e ai ragazzi l’esperienza umana, senza errori: «collegatevi alla rete, non è in classe che si impara» è lo slogan forgiato addirittura da Seymour Papert.
Può destare sospetto che a porsi in modo critico verso questa prospettiva siano degli insegnanti, peraltro appassionati per il loro mestiere, ma ci sono buone e obiettive ragioni per sostenere questa critica: la costruzione di categorie fondanti come quelle di tempo, spazio, relazione prevedono una lunga immersione nella realtà sulla quale diventa possibile attivare i processi di astrazione e non l’operare su simulacri della realtà quali sono quelli della simulazione elettronica.
Il ruolo del linguaggio non può essere pensato come marginale e strumentale; è piuttosto strutturante della conoscenza come è centrale la relazione umana singolarissima maestro-allievo nel processo di umanizzazione culturale che è in fondo tutta la nostra vita dal momento in cui abbiamo raggiunto, con la nascita, il massimo della nostra natura umana biologica. In questa dimensione l’apporto delle reti telematiche sarà pur necessario ma comunque strumentale.
Ritengo, però, che in fondo questa rimanga una discussione marginale: il vero problema è il rilancio della scuola e il suo rapporto con quello della società; si potrebbe forzare: la rinascita della scuola come elemento di rinascita della società (in una forma più civile).
La scuola non muore, anzi assume un ruolo propulsivo, se ha il coraggio di innovarsi senza perdere il suo valore di istituzione pubblica, se si innova profondamente proprio attorno al valore di istituzione pubblica. Tempo e luogo in cui il sapere si coniuga con i bisogni, le emozioni, gli affetti della vita di chi sta diventando un cittadino adulto.
“Lo sforzo educativo è sempre ribellione contro il destino, rivolta contro il fatum: l’educazione è l’antifatalità, non l’adattamento programmato a essa… per mangiarti meglio, come disse il lupo pedagogicamente travestito da nonnina”. (Hannah Arendt aiutato a trovarla da Luciana Scarcia)
La scuola, dunque, come luogo e tempo di emancipazione.
Emancipazione è forse la parola chiave, in questi tempi, per la scuola e non solo per la scuola.
Troppo dimenticata, archiviata nella cassetta dei ferri “vetero”.
È una parola da riconquistare perché segna i confini tra innovazione e ritorno al passato: dà la dimensione della scommessa e della prospettiva che si deve costruire per progettare il processo di innovazione.
Ma l’emancipazione è soprattutto un fatto culturale: «Don Milani, critico della società consumistica e borghese, (era) convinto che ci fosse un problema di cultura per orientare l’uscita dalla miseria, verso condizioni più civili di uguaglianza (…)» [Tullio de Mauro, 99]
Scuola di emancipazione personale di ciascuno di noi: c’è uno strumento più adatto della cultura per liberarci dall’oppressione degli adulti che sanno tutto che conoscono il mondo, che occupano lo spazio che sempre di più compete a noi? Quando abbiamo usato la cultura per emanciparsi i conflitti con la generazione che ci ha preceduto sono stati conflitti salutari, utili a noi e agli stessi adulti con cui ci siamo scontrati.
Scuola di emancipazione dalle condizioni socio-culturali di partenza
[cosa può fare un maestro se scopre che nella vita sociale familiare di un proprio allievo di otto anni c’è sofferenza e oppressione: certo la disponibilità di una relazione ma soprattutto lo sforzo di garantirgli, non ciò che la famiglia ha scelto per lui ma il massimo della qualità della formazione culturale. È il solo aiuto che gli può dare ma è fondamentale affinché possa poi da cittadino adulti costruirsi consapevolmente le proprie scelte].
Il diritto all’istruzione è basilare per fare sì che le condizioni socio-culturali iniziali di ciascuno risultino sempre meno determinanti per la qualità e le prospettive di vita.
Ma affinché la scuola riesca a rappresentare realmente un agente consapevole di decondizionamento sociale il diritto allo studio deve essere garantito dall’obbligo scolastico e dal suo estendersi pienamente nell’età dell’adolescenza.
Le pari opportunità contemplate nella Costituzione vanno garantite a 18 anni e non a tre.
Ma per arrivare a garantirle alla fine dell’adolescenza la scuola deve essere investita di una grande scommessa.
La scuola dell’emancipazione si basa su tre capisaldi:
-la sua dimensione pubblica,
qui non è tanto la pubblicità del gestore che interessa quanto la dimensione pubblica della scuola nella sua realizzazione (Lorenzo Dilani, Barbina…)
La scuola è la prima e determinante Istituzione pubblica con cui costruiamo il nostro imprinting con l’essere cittadini tra cittadini, l’inizio della nostra vita pubblica
Non può essere ricondotta ad una protesi della famiglia
-la valorizzazione delle differenze come risorsa e non come strumento di separazione,

L’attenzione alla individualizzazione, a considerare ogni bambino una persona (è una parola che ci appartiene) significa realizzarlo nella dimensione dell’insegnamento/apprendimento in situazione sociale, nella classe non nella costruzione di percorsi separati
-la qualità del processo di insegnamento/apprendimento, centralità e lo spessore della formazione culturale.

Quale scuola
Vorrei soffermarmi, nella seconda parte dell’intervento, su quale scuola, su quale cultura per la scuola, su quale qualità del percorso curricolare verticale segna il fare scuola, raccogliendo soprattutto gli spunti che derivano dalle decine di incontri con colleghi di tutta Italia, realizzati dall’inizio dell’anno scolastico
La dichiarazione di principio sulla centralità dell’Istituzione scuola nello sviluppo della qualità della vita democratica, che ho cercato di abbozzare e che verrà ripresa e sviluppata con maggiore autorevolezza in tanti altri interventi del convegno, rimane tale e quindi inutile retorica se non si avvia un reale, consapevole, condiviso e praticabile percorso in cui la scuola dell’emancipazione e dell’inclusione diventa nei fatti la scuola del “non uno di meno”.
È il terreno imprescindibile della qualità del processo formativo, della sua capacità di intercettare e sviluppare l’intelligenza di tutti i ragazzi, di trasformare le differenze da impiccio a risorsa.
Ma non è riducibile ad un fatto di tecniche didattiche: abbraccia e rilancia tutto il progetto di scuola, dall’orizzonte di senso alla relazione educativa.
La qualità del processo formativo presuppone almeno due elementi fondanti:
1- Un progetto culturale di alto profilo, significativo in quanto risultato di un confronto lungo, articolato e ricco tra diverse posizioni ideali e culturali, sintesi di ciò che la società vuole costruire per sé e per il suo futuro nell'alveo dei principi costituzionali.
Purtroppo non è quanto avvenuto negli ultimi anni: è il senso dell’appello che come Cidi abbiamo lanciato nei confronti delle indicazioni nazionali per la scuola inserite nel decreto legislativo di attuazione della legge 53/2003.

È veramente un fatto grave per la scuola.
Quando un governo si arroga il potere di definire l’asse culturale della scuola legittima il governo successivo a riscriverlo e soprattutto costringe la scuola a non essere più la scuola di tutti: non è così che funziona la democrazia.
È ciò che ci ha scritto un giornalista, molto autorevole, nell’aderire al nostro appello: «Ciò che sta accadendo è la perdita dello statuto democratico sorto dall'Illuminismo: l'idea che esistono meta-regole di pluralismo, partecipazione e libertà senza rispettare le quali un governo, anche eletto democraticamente, smette di essere democratico».
È la prima volta che accade nella storia della scuola della Repubblica.
Dagli anni ’50 al documento dei saggi del giugno 1997, quando un processo di innovazione arrivava alla definizione dell’asse culturale, la politica faceva un passo indietro e il mondo della cultura, nelle sue più plurali espressioni, diventava il protagonista; il confronto superava le logiche della politica, delle maggioranze parlamentari e assumeva la dimensione del rigore della comunità scientifica per garantire sintesi culturali alte e in grado di rappresentare il riferimento culturale condiviso e comune a tutti i cittadini.
È stato un percorso che ha colto, definito e sviluppato, in particolare dall’istituzione della scuola media unica, gli assi portanti su cui costruire una scuola di qualità per tutti: la centralità dell’educazione linguistica come strumento essenziale di emancipazione; la valenza della competenza storica e della formazione scientifica, il rinforzarsi di tutti gli approcci conoscitivi come elementi non marginali dell’educazione culturale di base e da ricondurre sempre ai fondamenti della convivenza civile e democratica contenuti nella Carta costituzionale.
È fondamentale che la scuola e il suo progetto educativo e culturale, come affermiamo nel nostro appello, tornino ad essere res publica, questione che tutti coinvolge e tutti appassiona e impegna.
Questo convegno, che ha impegnato la passione civile, le forze intellettuali (e anche fisiche) di tanti colleghi, che recupera e rilancia anche il lavoro svolto dall’inizio dell’anno scolastico in centinaia di iniziative su tutto il territorio nazionale, vuole essere il contributo del Cidi proprio a questo progetto: cessi la sfida del punto a capo, venga sconfitta l’innovazione al rovescio, la politica del ritorno a prima degli anni sessanta, il tentativo di cancellare quanto la scuola ha scritto nelle pratiche e anche in alcune fondamentali norme.
2- Una crescita della disponibilità di risorse e la valorizzazione dei soggetti del processo di I/A, la ripresa dell’innovazione del fare scuola.
C’è una caratteristica che dovrebbe connotare la scuola per definizione: la saggezza, la capacità di operare coerentemente nel presente la formazione di queste bambine e di questi bambini, di queste ragazze e di questi ragazzi giacché la scuola non è frequentata da entità fuori dal tempo bensì da piccoli cittadini, questi piccoli cittadini, che hanno un nome e cognome, una storia e una vita irripetibile che vivono in questo tempo la loro infanzia e adolescenza, ma per rapportarsi con questi ragazzi la scuola deve “conoscere il mondo”, deve ragionare con loro di un possibile futuro di cui non avere paura, pensare con loro attorno al come, proprio loro, potranno reinvertarlo come ogni generazione ha cercato di fare; e dovrà offrire loro tutto lo spessore culturale per vivere la contemporaneità che non comincia oggi ma che ha radici profonde, vitali e feconde che continuano a sostenere le forme con cui si esprime nel presente.
Questo, mi pare, rappresenti il pensiero centrale con cui tanti insegnanti, tante associazioni anche di diverso orientamento, hanno dato il loro contributo alla «maturazione di principi e pratiche educative in tanti anni di dibattito e in importanti realizzazioni».
Quanto sono lontane la difesa di una scuola che non c’è più ( e se mai c’è stata era la scuola della discriminazione) o la rincorsa di semplificazioni in slogan, parole miracolistiche che in fondo ripropongono la scuola gentiliana per “chi ce la fa” e per gli altri una scuola su misura e subalterna al mercato del lavoro.
Rialzare, o continuare a tenere alto il pensiero sulla scuola su ciò che al suo centro la rende da almeno due secoli una delle grandi Istituzioni della democrazia, un’esperienza fondamentale per la vita di ciascuno.
Cosa è la scuola? A cosa serve? Quali risultati deve puntare a raggiungere: si sprecano i giudizi degli “opinionisti” spesso distratti e guidati più dalla nostalgia di una scuola che forse esiste solo nel ricordo della nostra infanzia)
Aspettando Bruner vorrei provare ad argomentarlo raccontandolo
--> Quanti ragazzi questa mattina sono usciti di casa ignari di ciò che l’aspettava: hanno bisticciato con con il loro babbo, come sempre come se fosse un giorno come gli altri…. E poi alla terza ora alle 10 e 20, dopo l’intervallo l’insegnante di fisica ha scritto sulla lavagna F=m*a e comincia a spiegarne il significato: la forza non produce velocità ma variazione di velocità, ricostruire gli esprimenti fatti….
Ecco questi ragazzi oggi sono entrati a scuola aristotelici e ne escono newtoniani, ...2000 anni di storia del pensiero scientifico…
È questa la scuola
--> I bambini che frequentano la prima elementare in questi mesi ...
--> quando un ragazzo ci chiede “a cosa serve la storia” come scuola non rispondiamo rinviando al futuro: la storia ti serve ora, nella tua vita di bambino o di adolescente e in quanto ti è servita a rendere la tua vita di bambino e di adolescente più attiva, profonda, significativa ti servirà da adulto. L’infanzia e l’adolescenza sono tempi di vita non di preparazione alla vita. Solo in quanto vissuti preparavo al tempo di vita successivo. La scuola è parte di questo tempo.
--> «Chi è, che fa il casacantoniere?» Si chiedono Irene e Giulio in Casa Bàrnaba, il bellissimo romanzo di Rosalba Conserva, e la soluzione è sicura «Sarebbe bastato chiedere al padre, il quale d’ogni cosa conosceva l’uso come sapeva di ogni cosa il nome».
Sapere delle cose l’uso e il nome è una profonda definizione dei compiti della scuola: possedere l’esperienza, conoscere l’uso, ma possederla intersecata al dispositivo simbolico che le dà spessore, profondità e pervasività, sapere il nome.
Dunque una scuola che operi per costruire quella struttura culturale profonda e persistente che segni la formazione umana, che si prenda cura del sé dei bambini e degli adolescenti e che ponga le basi forse più importanti per il lavoro proprio perché non dosate su nessuna professionalità finita.
[cosa c’è di più importante per il lavoro del possedere in modo alto le competenze culturali fondamentali?]
La scuola da rilanciare trova ancora i suoi più significativi riferimenti nel lungo lavoro di ricerca e pratica educativa che ha percorso tutto il pensiero del novecento, da Vygotskij a Piaget, da Gramsci a Codignola, da Dewey a Bruner ma anche nelle pratiche di tante scuole, tanti insegnanti e movimenti di insegnanti.
Il nesso inscindibile tra scuola e società l’apprendimento come esperienza intellettuale di John Dewey. Il nuovo principio educativo di Antonio Gramsci.
La scuola come organo della costituzione e quindi come base per la convivenza democratica di Tristano Codignola.
La dimensione storico-sociale dell’apprendimento di Vygotskij.
I processi di costruzione dell’intelligenza di Piaget.
La straordinaria sintesi sulla cultura che regge l’educazione di Bruner di cui ci parlerà egli stesso domani.
Le incredibili esperienze di insegnanti come Mario Lodi, Lorenzo Milani, Emma Castelnuovo,
il lavoro attorno ai programmi del ’79, dell’’85, lo sviluppo della scuola dell’infanzia e gli orientamenti del ’91, e la punta stratosferica (planetaria ricorda De Mauro) realizzata da Loris Malaguzzi a Reggio Emilia,
le sperimentazioni nelle scuole superiori dagli anni settanta al progetto della Commissione Brocca.
Senza un riferimento a queste risorse sarebbe impossibile sostenere un processo di innovazione radicale ma non superficiale e non schiacciato sulle suggestioni di giornata.
Le dimensioni del problema diventano da un lato il lavoro di mediazione culturale necessario per tradurre il sapere in fare scuola e da un altro lato la cultura e potenzialità organizzativa fondamentale per sorreggere il fare scuola.
--> Sul terreno della cultura della scuola si incrocia ancora, come sempre, la modalità con la quale il sapere si è storicamente organizzato e con cui deve fare i conti: il sistema delle discipline
[proviamo a superare il luogo comune delle discipline come nemico: grande risorsa da usare, domare, a fini formativi, ma da cui non si può prescindere…]
Il problema è bipolare, ci sono due nodi da dipanare:
-da un lato il rapporto cultura-unità del sapere e "sistema delle discipline"
-dall'altro come il sapere organizzato nelle discipline si traduce in percorsi scolastici. come si attiva l'apprendimento e la capacità di apprendere. [non disvelamento ma costruzione]

Il passaggio dalla scuola dei programmi alla scuola delle competenze culturali è dunque (e purtroppo) un’operazione più complessa della soppressione dei programmi e della semplice stesura di liste di competenze (che poste così rischiano di risultare solo uno slogan), prevede un lavoro sui processi di insegnamento/apprendimento che possono produrre lo sviluppo di competenze.
In particolare è necessario non semplificare il rapporto discipline-competenze; il rischio di individuare parole d’ordine vuote è alto e pericoloso, ma questo problema non può essere troppo schematizzato e prevede, come ho cercato di dimostrare, un approfondimento maggiore. Intanto si potrebbe utilizzare il concetto sviluppato nel documento dei "saggi" (giugno 97): «Le “discipline di studio” vanno pensate come campi di significato che devono fornire un orizzonte intersoggettivo ma anche acquistare un senso personale e tradursi in operatività, non solo in verifiche scolastiche».
Si deve sviluppare una modalità di organizzazione e stesura delle indicazioni alle scuole che preveda l’individuazione dei traguardi irrinunciabili e una serie succinta di tematiche portanti per sostenere il loro lavoro nella traduzione operativa del percorso curricolare in verticale.
All'interno di quest'impostazione il concetto di competenza può assumere realmente un ruolo determinante nella revisione del sapere scolastico: puntare alla costruzione di competenze intese come capacità culturali contestuali e strategiche verso le quali organizzare il lavoro scolastico. Si tratta di utilizzare e approfondire modelli e pratiche di lavoro didattico già ampiamente presenti nel fare scuola come la dimensione laboratoriale che non può essere ridotta alla fascia del curricolo opzionale.

L'idea di competenza potrebbe proprio divenire la chiave per guidare il ripensamento dell’uso a scopi formativi delle discipline: ma questo non è un lavoro che può improvvisarsi e deve prevedere l’intercettazione e il recupero dell’esperienza e della ricerca che nella scuola si è realizzata in questi anni.
Le discipline sono portatrici di specifiche e potenti modalità di conoscere, ma sono caratterizzate da una forte determinazione storico-culturale e da una coerente organizzazione interna.
É allora necessario che i meccanismi di insegnamento-apprendimento attivati nella scuola siano in grado di promuovere la ricostruzione dell’unitarietà del sapere senza dover pregiudicare la forza conoscitiva dell’approccio disciplinare.
Probabilmente un contributo può venire ricercando nella dimensione culturale e formativa delle discipline, intese, sia come repertorio di contenuti sia come modalità di organizzazione concettuale, quelle dimensioni più generali che sono essenziali per comprendere il mondo simbolico dell'uomo, nelle sue varie forme di razionalità e di costruzione-comunicazione di significati. É nella dimensione culturale e formativa delle discipline che va ricercato l’asse del progetto culturale della scuola.
L’utilizzo scolastico delle discipline a fini formativi prevede una vera e originale mediazione culturale. L’insufficienza di elaborazione che continuiamo a scontare per tutti gli ordini di scuola comporta rischi e difficoltà per l’efficacia dell’apprendimento.
Vanno pensate come “macchine che producono conoscenze”: serve la conoscenza prodotta, ma servono in particolare i processi conoscitivi utilizzati.
É la valenza formativa e culturale delle discipline che la scuola è chiamata a mettere in atto, a tarare e organizzare (a livello orizzontale e verticale) nei curricoli dai tre ai diciotto anni da utilizzare come strumenti fondamentali nella costruzione delle competenze.
Il valore di "risorsa" delle discipline sta proprio nella loro capacità di contribuire a strutturare il pensiero, a costruire mondi di significati, a fornire modelli di rapporto con la realtà che rappresentano appunto gli elementi portanti delle competenze.
Le discipline possono diventare "macchine artificiali per conoscere" che ognuno può utilizzare per "espandere" la propria "macchina naturale per pensare". Il lavoro scolastico consiste proprio nel far avvenire quest'incontro senza produrre l’annullamento di nessuno degli approcci conoscitivi.
Lo specifico del sapere scolastico (non così per quello della ricerca) è la reattività con le strutture cognitive degli studenti.
Il passaggio dalle discipline nella ricerca (legate agli obiettivi della ricerca) alle materie scolastiche (legate all’obiettivo della formazione culturale attraverso l’incontro con i modelli disciplinari del sapere) non può essere, dunque, che il risultato di lungo e originale lavoro di mediazione culturale; solo in questo modo le discipline possono diventare un efficace “strumento formativo”.

--> Sul terreno della cultura e della pratica organizzativa si incrocia la riflessione sullo stato di salute dell’autonomia.
[Richiamo dell’attenzione: parlare di autonomia non è parlare d’altro è parlare di scuola]
L’autonomia presuppone un progetto culturale da realizzare in un progetto e pratica curricolari, è la qualità di questo progetto che dà senso all’autonomia. È il “ a cosa serve” che conta. Per esempio in questi tempi l’autonomia è servita per contenere le disfunzioni (molti le chiamano danni) del’applicazione del decreto 59…
L’autonomia come è stata definita dall’art.21 L.59/97 e DPR275 rappresenta realmente un potente strumento (in quanto potente ci si può anche far male) a disposizione del progetto delle scuole migliorare la qualità dell’I/A attraverso l’assunzione di responsabilità e la cooperazione.
Costituzionalmente (con un proprio ruolo) è collocata tra i soggetti che hanno mandato sull’istruzione.

Verso l’esterno è strumento per contribuire alla costruzione del sistema formativo di un territorio
[reti -- conferenze sulla scuola settembre pedagogico]
Il problema è che prevede investimenti e riconoscimento: sta avvenendo il contrario. In particolare stanno pesando la riduzione di ruolo della 440 e l’abbandono dell’organico di istituto.
Importanza di rilanciare/sostenere le potenzialità delle scuole con autonomia.


Il mestiere di insegnare
E poi ci siamo noi, insegnanti con la fatica quotidiana di reggere sempre maggiori difficoltà in una situazione di cambiamento da cui difendersi, a volte tentati alla rassegnazione ma spesso combattivi rafforzati dalla ricchezza dell’incontro educativo.
Il nostro continua ad essere un grande mestiere; rimane l’orgoglio di essere lavoratori dipendenti dello Stato, mi verrebbe da dire della Costituzione, (ma non lo si prenda come retorica) e poi dipendenti dei nostri ragazzi ma in quanto garanti della loro libertà presente e futura e, di necessità, della nostra libertà, sapendo che la loro libertà dipende oggi dalla nostra e domani da quanto sapere saremo riusciti insieme ad attivare nella loro vita.
È un mestiere straordinario e appassionante, ma va svolto con delicatezza, discrezione e consapevolezza e dunque certo con forte professionalità; è una delle fondamentali relazioni umane: l’insegnante attira necessariamente l’attenzione, l’innamoramento, su di sé, senza narcisismo, per poterli spostare sul sapere per fare sì che il sapere diventi vitale nelle scelte e nel comportamento dei ragazzi.
Per un tempo limitato e in punta di piedi, si invade e si “segna” la vita di una persona che sta crescendo, con l’obiettivo di dare un contributo a fornire a quella persona gli strumenti culturali perché sia maggiormente libera, più sicura di sé, autonoma, indipendente e in grado di fare scelte da cittadino consapevole.
Forse sarebbe bene smetterla con la disputa su chi sta al centro (l’allievo, le conoscenze, l’insegnante): al centro vi è l’allievo che apprende in una situazione collegiale e sociale di insegnamento.
È un mestiere che richiede formazione prima e durante il suo esercizio, che prevede riflessività e quindi ricerca, grandi investimenti da parte di chi lo pratica e da parte della società intera.
In questi mesi si sono intensificate le attività parlamentari relative alla professionalità insegnante: sul piano degli organi collegiali interni alle scuole, sullo stato giuridico e sulla formazione iniziale e in servizio nell’ambito dell’applicazione della legge 53/03.
Come Cidi abbiamo debitamente motivato nelle sedi ufficiali le nostre valutazioni e seguiamo l’evolversi (non certo lineare) dei contenuti dei testi in elaborazione.
Ci siamo confrontati con tanti colleghi in tante iniziative.
[la chiamata nominale parrebbe essere espulsa dai testi in discussione e va bene ma] Ci pare, nel complesso, che i rischi contenuti nelle soluzioni proposte continuino ad essere pesanti e preoccupanti nei possibili effetti destabilizzanti per il sistema pubblico dell’istruzione.
Il rapporto tra scuola e Università è sbagliato. Non si opera nella prospettiva di costruire un rapporto costruttivo e paritario sulle problematiche e sulle azioni relative lo sviluppo della professione docente. All’Università viene delegata totalmente anche la formazione in servizio confinando il sapere e la ricerca della scuola in un «ambito di minorità, si sottraggono alla scuola alcune fondamentali condizioni per esercitare la propria autonomia».
Il dato più preoccupante, presente nella filosofia di tutti i testi, è il sostanziale azzeramento della dimensione collegiale e cooperativa del lavoro.
«Il clima di collaborazione, rafforzatosi fra i docenti con l’autonomia degli istituti, non può essere dimenticato a esclusivo vantaggio del lavoro individuale o di quello che si svolge nell’associazionismo professionale. Cancellare il principio di una scuola/“comunità” professionale che insieme progetta, ricerca, sperimenta, verifica, valuta, si confronta, decide, negozia - per raggiungere i migliori risultati sul piano degli apprendimenti per ogni singolo ragazzo - vuol dire riportare la scuola indietro nel tempo, disconoscendo le migliori pratiche didattiche e le esperienze scolastiche più significative».
Il risultato sarebbe l’allontanamento dell’idea di insegnante come professionista che opera in una istituzione finalizzata ad un progetto educativo pubblico e sollecitare, forse meglio allettare, verso obiettivi corporativi.

Allora dobbiamo entrare di più nel merito: chi è convinto che l’insegnante non sia né una missione (George Steiner in un libro tradotto recentemente, per altro bellissimo, esprime però il suo turbamento per essere stato pagato come insegnante) né una professione da scomporre in mansioni, figure, gerarchie e costantemente misurata e sotto controllo, deve assumersi il compito e la responsabilità di approfondire il dibattito sul nostro mestiere, della formazione iniziale e della ricerca come asse portante del suo sviluppo, con maggiore coraggio e determinazione.
È necessari farlo per ribadire nei fatti il suo valore intellettuale e sociale
Valentina Chinnici …… racconta dello smarrimento dei suoi amici e dei suoi insegnanti dell’università per la sua scelta di insegnare nella scuola, per giunta nella scuola media: ……
Una mia studentessa…
Ho capito quale è la mia carriera: passare da “prof. A maestro, almeno per qualche mio allievo.
Bisogno di prospettiva
Ma la battaglia della scuola, che non è separabile da quella dell’università e della ricerca, non è una battaglia interna, nostra di insegnanti, dirigenti, studenti, genitori.
È una questione centrale della società: il futuro si gioca in classe, il futuro di ciascuno e di tutti.
Indagine di Busca secondi dopo gli scienziati in credibilità….
Al nostro appello sulla cultura della scuola tra le migliaia di adesioni ci sono certo insegnanti, dirigenti, studenti, genitori ma anche amministratori di Enti Locali, sindacalisti e molte, moltissime persone che hanno un rapporto con la scuola solo da cittadini: è un segnale che la scuola può essere percepita come importante
Due commenti…
La formazione della mia coscienza critica di cittadino della Repubblica Italiana, e del mondo, è passata attraverso una scuola pubblica libera e aperta a tutti. Vorrei che le generazioni presenti e future possano continuare a godere di questo bene prezioso. Fotografo
Ho due bambine che frequentano la scuola elementare...sono davvero preoccupata per loro e per il futuro di tutti i nostri bambini. La scuola mi sembra un caos totale, e anche gli insegnanti più volonterosi sono spiazzati e confusi. Se uno stato non può garantire l'istruzione ai suoi cittadini è davvero spaventoso. Impiegata imprenditrice


Per una nuova prospettiva della politica scolastica
Fino ad ora non ho nominato il ministro in carica e ho affrontato i temi di politica scolastica più scottanti solo di traverso: non è una svista.
Vogliamo arrivarci con calma. Vogliamo costruire le domande da fare
Dedicheremo la mattinata conclusiva.
È importante arrivarci perché la scuola deve essere rinnovata nel rapporto con la società , nella sua cultura, nella qualità dei suoi processi e tutto ci riguarda e forse chi deve decidere deve sapere che si riguarda. Come deve essere rinnovata la formazione professionale proprio per contribuire alla formazione, ma con la propria specificità di funzione, e non come alternativa precoce all’istruzione.
Le urgenze e l’affanno che segnano il lavoro di chi opera nella scuola non possono ridurre, anzi sollecitano l’approfondimento della riflessione sul vero problema: riuscire a rilanciare una politica sull’istruzione attorno ad un progetto di scuola di qualità e dell’inclusione ricucendo il filo conduttore che l’ha a lungo caratterizzata.
La sfida lanciata negli assi sessanta non è ancora vinta. È evidente il divario accumulato tra gli obiettivi e i risultati raggiunti. È quindi necessario un profondo processo di innovazione proprio per ridurre tale divario.
La politica scolastica del quinquennio 1996-2001 non è stata sufficiente; quella in atto sta mettendo in forte crisi tale processo: si stanno modificando proprio gli obiettivi di fondo del sistema scolastico pubblico.
È sempre più diffusa tra chi vive nella scuola l’urgenza di impedire che questa contro tendenza vada a compimento, rafforzando la consapevolezza dei valori in gioco nelle prossime scelte di politica scolastica.
Non si può rinunciare alla sfida di fare sì che al diritto all’istruzione possa corrispondere realmente, per tutti, il raggiungimento di quel livello di formazione culturale profonda e duratura, indispensabile oggi per vivere, lavorare, continuare ad apprendere nel corso della vita. Non si può rinunciare al ruolo della scuola come ambiente di “decondizionamento sociale”, cioè come luogo in cui le condizioni socio-culturali di partenza risultino sempre meno determinanti per il raggiungimento dei più alti livelli di istruzione. Non possiamo accettare la prospettiva di un sistema di istruzione assistenziale per alcuni ed elitario per altri.
Lo dobbiamo fare con la forza della ragione e con la passione professionale che hanno dato senso al nostro lavoro per tutti questi decenni.
La ricerca di una mediazione puramente politicistica e al ribasso è profondamente inadeguata a risolvere il problema: non ci troviamo di fronte a due proposte diverse ma finalizzate allo sviluppo della stessa scuola; si confrontano due idee di scuola: la prospettiva di scuola che il nostro paese aveva scelto e cominciato a costruire fin dall’inizio degli anni sessanta e il tentativo della sua cancellazione; tra una scuola dell’emancipazione di tutti i soggetti per una società in cui la libertà si coniughi con la giustizia (ed era anche la scuola pensata e costruita da Lorenzo Milani) e una scuola rinunciataria che si limita a prendere atto della collocazione sociale di partenza: tra una scuola che si richiama “anche” alla costituzione ma dimentica l’eguaglianza tra gli impegni contenuti nell’art.3, e una scuola che vuole consapevolmente essere la scuola secondo Costituzione, per essere, senza retorica, agente attivo di cittadinanza.
È una divisione che non è solo presente nel dibattito italiano (anche se in Italia sta assumendo certamente una valenza molto accentuata) ma anche negli altri paesi dell’Unione Europea.
Diventa allora fondamentale che la prospettiva costruita negli ultimi decenni, una prospettiva originale legata ad una Carta Costituzionale di altissimo valore democratico e di incredibile vitalità possa continuare a rappresentare il più significativo contributo che la nostra scuola può portare all’Europa, non solo nella costruzione del sistema scolastico comunitario ma anche nel sostegno di un orizzonte dell’Unione Europea della piena cittadinanza, della cultura, dei diritti, della democrazia, della pace.
È dunque prioritario e determinante che, attorno ad una prospettiva significativa, il mondo della scuola e quello della politica riescano ad avviare un’azione in cui la costruzione del progetto riformatore per la scuola non risulti separata dal concreto fare scuola, anzi che riesca a far sì che gli assi portanti di tale progetto diventino contemporaneamente le indicazioni di lavoro per le scuole sia per valorizzarne pienamente l’autonomia organizzativa e didattica sia come pratiche per riprendere e rilanciare il processo di innovazione che serve per una scuola democratica
Questo diverso modo di fare politica scolastica uesto diverso modo di fare politica scolasticaQqqrappresenta un’impresa non facile, ma è l’unica prospettiva per il successo di una strategia di cambiamento che non può limitarsi alle ingegnerie istituzionali ma che deve parlare direttamente alle scuole: pratica politica e pratica sociale per una volta unite.
La cultura della scuola e del fare scuola al centro dell’iniziativa democratica per il rilancio della scuola secondo Costituzione
I contenuti del D.L.vo 59/04 e della C.M. 29/04 offrono una lettura particolarmente arretrata della legge 53/03; qualcuno ha insinuato che nulla vi è di nuovo nelle proposte: sarebbero state recuperate tra ciò che è stato scartato nei processi innovativi dagli anni sessanta. L’anello che appare più debole e inaccettabile è proprio quello che a noi è più caro, vale a dire il progetto culturale e curricolare.
Inaccettabile nel metodo e nel merito.
Nel metodo sia perchè risultato non di un dibattito trasparente all’interno di Commissioni pubbliche e pluraliste, e non era mai accaduto nella storia della scuola della Repubblica, sia perché inserito direttamente all’interno della legge.
Nel merito perché l’assenza di un confronto pubblico e ampio ha reso i contenuti delle proposte pieni di incongruenze e di incredibili forzature ideologiche e pedagogistiche che cercano di nascondere la debolezza culturale; è proprio la debolezza culturale che rende le proposte delle indicazioni transitorie inadatte a sostenere il lavoro a cui le scuole sono chiamate dall’art. 8 del regolamento sull’autonomia, vale a dire la definizione del curricolo.
Si colga allora l’occasione per riprendere nelle scuole un serio lavoro sul curricolo.
In attesa di indicazioni non-transitorie non ci si deve fermare alle sole indicazioni transitorie: c’è ancora molto da scavare nella miniera dei programmi del ’79, dell’85, negli orientamenti del ’91, nel documento di sintesi della commissione del “saggi” del 1997, nelle indicazioni curricolari del 2001, nella storia di ricerca delle stesse scuole.
Se come centro e criterio del lavoro dei collegi si assume proprio la ricerca attorno alla cultura della scuola e del fare scuola (uso formativo dei saperi disciplinari nella costruzione del curricolo verticale e progressivo 3-14/16/19), sarà meno arduo dare senso e forma alle altre scelte legate all’”uso” del tempo scuola e all’organizzazione del lavoro scolastico.
Le priorità da cui partire sono ormai note ed evidenti.
La direzione verso cui è indirizzato il cambiamento, nella confusione e tra contraddizioni, segnato dalla riduzione quantitativa e qualitativa dell’offerta formativa (tempo scuola, risorse ecc.) e un arretramento della qualità della professione docente, può produrre un peggioramento dei risultati scolastici e può interrompere quel processo di innovazione mirato al miglioramento dell’efficacia dell’intervento didattico che da anni le scuole stanno mettendo in atto anche con la responsabilizzazione dei genitori e il coinvolgimento degli Enti Locali
Alla base, come condizione imprescindibile, è proprio da porre la condivisione di obiettivi comuni da parte di tutti i soggetti che questa scuola vogliono continuare a costruire: gli insegnanti, i dirigenti scolastici, i genitori, gli studenti, l’associazionismo, le Regioni, gli Enti Locali.
L’obiettivo è mettere in atto l’avvio e lo sviluppo di reti e consorzi a livello territoriale avvalendosi anche degli art.7 e 9 del regolamento sull’autonomia finalizzati a sostenere la cooperazione tra le scuole e tra le scuole e il territorio
La costruzione di reti territoriali che vedano negli Enti Locali e nelle scuole con autonomia i soggetti in grado di costruire progetti in cui si possa realmente ricomporre l’unitarietà del processo educativo può rappresentare il più forte strumento di difesa e di rilancio della scuola dell’inclusione.
Il rilancio, la messa in rete e il sostegno condiviso con i genitori delle esperienze scolastiche migliori e più significative, dei modelli di tempo disteso e di organizzazione del lavoro che in questi anni hanno innalzato la qualità della scuola e ridotto la dispersione, delle pratiche sui campi di esperienza nella scuola dell’infanzia e sul curricolo verticale e progressivo, possono rappresentare la più efficace risposta al rischio di involuzione del nostro sistema scolastico: il meglio del territorio e il meglio della scuola in un progetto da costruire insieme.
Attraverso lo sviluppo delle esperienze e dei patti che già caratterizzano tanti territori è possibile porre ed estendere alcuni obiettivi prioritari tutti riconducibili al rispetto dell’autonomia delle scuole e dei compiti costituzionali degli Enti Locali:
-Garantire che la scuola dell’infanzia non venga ridotta dalla dimensione di vera scuola a momento assistenziale e marginale. (Significa arginare gli anticipi e soprattutto impedire che venga vanificato il valore pedagogico degli orientamenti del 1991 e dei campi di esperienza)
-Garantire a tutte le scuole la possibilità di affermare il tempo scuola come “tempo disteso”, risultato di un progetto pedagogico-didattico coerente e non come schizofrenica giustapposizione/ assemblaggio di frammenti formativi. (In particolare confermare e rafforzare la reale praticabilità del modello “tempo pieno” come pratica virtuosa in grado di tenere insieme il bisogno sociale e la qualità del processo formativo. Significa adottare forme di organizzazione del lavoro che sostengano la piena corresponsabilità).
-Garantire la ricchezza e coerenza del curricolo verticale. (Sostenere la filosofia e le pratiche degli istituti comprensivi, impedendo che vengano messe in atto forme di separazione e personalizzazione precoce dei percorsi formativi, impedendo che l’attivazione di forme organizzative superate e semplificatrici riducano la qualità dell’insegnamento/apprendimento, impedendo che forme di valutazione possano segnare già dai primi anni di scuola il destino dei ragazzi).
-Garantire a tutti tra i 14 e i 16 anni percorsi pieni di istruzione. (In particolare ai ragazzi in difficoltà scolastica a 13-14 anni non si deve proporre meno istruzione ma percorsi di istruzione, senza aggettivi, di maggiore qualità in grado di intercettarli e di seguirli nel loro individuali e irrepetibili stili di apprendimento Anche per questa fascia scolare il rinnovamento dell’impianto culturale e curricolare diventa determinante: garantire pari opportunità a 16 anni ).
-Garantire a tutti tra i 16 e i 18/19 anni percorsi formativi in grado di sostenere la formazione culturale adeguata (portare a compimento la dimensione “secondaria di secondo grado”) e la sua valorizzazione in termini di competenze professionali di base.
La scuola ha bisogno che sia riattivato e ulteriormente sostenuto un processo profondo e condiviso di innovazione all’interno di una prospettiva alta che non può non basarsi sul mandato che le deriva dalla Costituzione.
Un processo innovativo che deve svilupparsi da un dibattito ampio nel Paese, che deve individuare i punti critici su cui intensificare il cambiamento, che deve poter disporre delle risorse necessarie verso cui orientarsi in modo condiviso, che deve vedere protagonisti attivi e responsabili i soggetti della scuola.
Nello sviluppo della logica cooperativa e dell’integrazione, nella condivisione delle responsabilità educative per accompagnare ogni ragazza e ogni ragazzo a costruirsi una piena e alta cittadinanza, è possibile rilanciare un processo virtuoso che mantenga e rilanci un sistema formativo democratico nel rispetto del mandato costituzionale.

conclusione
Vorrei concludere tornando a Marc Augè
“L’utopia oggi pare un’eresia perché nel mondo regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che sembra rendere obsoleti sia le lezioni del passato sia il desiderio di immaginare l’avvenire. (…)”
È il problema, la strada per uscirne:
Solo l’educazione, l’investimento nell’educazione può scongiurare questo rischio: “la rivoluzione dell’educazione segnerebbe un ritorno al linguaggio delle finalità e ai miti del futuro. L’ideale del sapere per il sapere è anche una promessa di minor solitudine; conoscere di più per essere meno soli, sviluppare la coscienza delle solidarietà obiettive che uniscono gli essere umani. (…) L’utopia da costruire, l’utopia che può guidare sia gli scienziati, sia gli artisti, sia i gestori dell’economia, è dunque l’utopia dell’educazione per tutti, necessaria sia alla scienza sia alla società. Essa ci dice che se sacrifichiamo tutto al sapere, avremo in più anche ricchezza e giustizia. Il luogo di quest’utopia, l’abbiamo sotto gli occhi, vicino e lontano: è il mondo stesso, il giorno in cui non sarà più globale, ma avrà raggiunto l’universalità”
È il senso di questo convegno ma è anche la prospettiva in vorremmo si muovesse la scuola in cui vogliamo poter tornare a lavorare.
«Non sono un uomo di parte, dicevo, però sono un uomo di pace e tutto quanto si fa per promuoverne e assecondarne il processo e la durata lo considero sacrosanto (…)»
«Chi è, che fa il casacantoniere?» Si chiedono Irene e Giulio in Casa Bàrnaba, il bellissimo romanzo di Rosalba Conserva, e la soluzione è sicura «Sarebbe bastato chiedere al padre, il quale d’ogni cosa conosceva l’uso come sapeva di ogni cosa il nome». Sapere delle cose l’uso e il nome è una profonda definizione dei compiti della scuola: possedere l’esperienza, conoscere l’uso, ma possederla intersecata al dispositivo simbolico che le dà spessore, profondità e pervasività, sapere il nome.
«Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù,»
“Lo sforzo educativo è sempre ribellione contro il destino, rivolta contro il fatum: l’educazione è l’antifatalità, non l’adattamento programmato a essa… per mangiarti meglio, come disse il lupo pedagogicamente travestito da nonnina”.
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La tecnologia possiede quindi uno specifico oggetto di studio, e utilizza tutto il sapere disponibile: in questo senso intercetta e finalizza molti altri approcci conoscitivi (in particolare le conoscenze delle scienze sperimentali) attivando però un proprio specifico di ricerca.
La tecnologia si interessa di artefatti, di oggetti e sistemi artificiali, di procedure; comprende nello studio i processi produttivi e le Tecnologie della Informazione e della Comunicazione ma non si esaurisce in essi.
Il concetto di «sistema artificiale» rappresentata la dimensione centrale dell’accezione di tecnologia da utilizzare a scopi formativi: la tecnologia comprende allora sia lo studio e la ricerca sui sistemi artificiali (similmente alle scienze sperimentali) sia la costruzione/trasformazione di sistemi artificiali (con procedure inverse a quelle delle scienze sperimentali). Per la tecnologia la «realtà» è rappresentata dai sistemi artificiali caratterizzati dai paradigmi della finalizzazione, della strumentalità, della funzionalità, della fattibilità efficiente, della verificabilità e dell'affidabilità a cui si somma il problema dell’impatto con il sistema “naturale”.
Proprio il paradigma della fattibilità efficiente segna la rivoluzione prodotta dal processo di industrializzazione; ponendosi come un ulteriore vertice al triangolo di Vitruvio (funzione, resistenza/stabilità e estetica) lo trasforma nel tetraedro che caratterizza i sistemi produttivi e gli artefatti industriali.
I modelli in tecnologia sono sistemi analoghi dei sistemi artificiali; in buona parte sono sistemi analoghi con struttura lineare o ad albero: il più generale e noto è diagramma di flusso, modello del ciclo produttivo. L'organizzazione e il controllo dei processi, unitamente ai meccanismi di retroazione e di anticipazione sono elementi centrali della struttura tecnologica.
L’uso e il governo/controllo di sistemi artificiali accanto ai processi per la loro realizzazione, rappresentano un serbatoio di procedure conoscitive, di vere e originali modalità di pensiero, di metodi e di linguaggi che la scuola deve riuscire ad attivare nel suo processo di rinnovamento.


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Non trovo le parole giuste per descrivere lo sconforto e non so come spiegare a mio figlio cosa sarà il suo futuro. Impiegata
Che gli insegnanti tengano duro sulla libertà di insegnamento. Nel frattempo, pensiamo davvero a come dovrà essere la scuola del futuro, e a come fare in modo che i nostri figli studino di più, meglio e con più passione. Quadro aziendale
Lavoro nell'industria spaziale e sono convinta che non può esserci innovazione, sviluppo e progresso senza un sapere strutturato, qualificato, condiviso, a partire dalla formazione di base dei ragazzi, che sono la nostra più grande risorsa per il futuro. Impiegata tecnica
Per una scuola che innanzitutto educhi, nella pluralità delle idee e delle opinioni. Contro un progetto che non investe e che della scuola si preoccupa, solo, dei suoi costi. Contro chi continua ad etichettare la protesta come azione di parte e faziosa e non sa ascoltare le opinioni, le motivazioni, di chi lavora e svolge il proprio lavoro con amore e professionalità, a dispetto dei mille problemi quotidiani. Ho due figli in età scolare, e ciò che ho affermato, poco sopra, è frutto delle esperienze fatte sino ad oggi nella scuola PUBBLICA, che mi ha chiesto, ma che molto mi ha dato. Difendiamola. Impiegato
Il futuro dei nostri figli ci riguarda. Smettiamo di pensare che chi sceglie per noi abbia sempre la competenza per farlo ed iniziamo ad osservare con occhio piu' critico, per crearci noi stessi una competenza e poter dire cio' che vorremmo fosse la scuola. Impiegata
Ciò che sta accadendo è la perdita dello statuto democratico sorto dall'Illuminismo: l'idea che esistono meta-regole di pluralismo, partecipazione e libertà senza rispettare le quali un governo, anche eletto democraticamente, smette di essere democratico. Giornalista



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