Conclusioni del convegno - Ermanno Testa


I trent'anni del Cidi
Gentili ospiti, care colleghe e colleghi, di fronte a questa cornice di partecipazione non posso non riandare con il pensiero - mi scuserete per questo - a oltre trent'anni fa, quando proprio in questa città un gruppo di insegnanti, di diverso orientamento culturale, insieme ad alcuni docenti universitari, sentì il bisogno di dare risposta in modo organizzato a quella sfida politica, culturale, professionale che si andava allora delineando nella scuola per effetto della riforma della media del 1962 e dell'elevamento dell'obbligo scolastico: come poter garantire una scuola di massa che fosse nello stesso tempo di qualità. Quei docenti diedero vita a un luogo di confronto, di scambio di esperienze, di approfondimento, insomma di iniziativa utile a migliorare il loro "fare scuola". Fondarono il Centro di iniziativa democratica degli insegnanti, il Cidi, dando vita così a un modo inedito ma efficace di guardare alla scuola, di affrontarne i problemi sia della quotidianità sia in prospettiva più lunga. Un luogo, né sindacale né di partito, che eludesse ogni preconcetto ideologico e ogni ritualità organizzativa ma guardasse alla sostanza dei problemi e si rivolgesse a tutti gli insegnanti perché nella scuola venissero rimosse, di fatto oltre che in via di principio, quelle ineguaglianze educative che Lorenzo Milani aveva così ben denunciato qualche anno prima. Questa fu, ed è tutt'ora per noi, la declinazione, teorica e pratica, di "iniziativa democratica".
Da allora siamo andati avanti, in un lungo, articolato, percorso che ha visto protagonisti migliaia di docenti e che ha toccato momenti significativi della scuola italiana. Quel percorso - chissà se verrà mai narrato da qualcuno - è un pezzo della migliore storia della nostra scuola.
A quelle persone che trent'anni fa diedero inizio a quella avventura, a Luciana Franzinetti Pecchioli, che ne fu l'ideatrice e presidente, a Bice Foà Chiaromonte, a Pina Froio, a Franco Coppa, a Lina Ricciu, a Maria Teresa Della Seta, a Vincenzo Magni, a Franca Mariani e a tanti altri, credo che tutti noi dobbiamo - che la scuola e il Paese debbano - profonda gratitudine.

Le condizioni della scuola
Gentili ospiti, care colleghe e colleghi, siamo alla conclusione di un Convegno certamente ricco di spunti e di proposte. Un Convegno che ci ha detto molto su che cosa dovrebbe essere oggi la scuola, su quali siano i presupposti e le condizioni di un "fare scuola" efficace, significativo per chi apprende, per chi insegna, per tutti. Un convegno che ci pone anche delle domande e lancia dei messaggi a tutti noi. Noi oggi, sul terreno della scolarizzazione di massa - come in altri settori - siamo un Paese in ritardo, anzi tendiamo a peggiorare la nostra situazione; e non solo perché l'obbligo di istruzione di fatto si abbassa a 13 anni e mezzo, quando inizia la canalizzazione dei percorsi di 2° grado, ma perché sta cambiando la natura stessa della nostra scuola. Essa perde progressivamente il suo carattere istituzionale: l'obbligo di istruzione configurava il servizio scolastico come un servizio dovuto, espressione di un patto di natura costituzionale, nell'interesse dei singoli e del Paese; tant'è che ogni fallimento sul terreno dell'istruzione era da considerare, più che del singolo allievo, una sconfitta della scuola (e del Paese). Diversamente, il diritto-dovere all'istruzione e alla formazione richiama l'idea di una scuola che tende a configurarsi come servizio a domanda con connotati privatistici; una scuola in apparenza più disposta a diversificare, in base alla domanda, la propria offerta educativa; in realtà in grado di offrire all'allievo minori tutele e certezze circa la rilevanza educativa e sociale di quanto da essa offerto. Oggi, la precoce diversificazione dei percorsi di istruzione, alimentata sin dalla prima esperienza scolastica da un'ampia area opzionale e facoltativa - chi non ricorda quale duro effetto di selezione sociale era l'opzione di sole tre ore (latino o applicazioni tecniche) nel terzo anno della media, prima del '79? - e il far vivere l'esperienza scolastica, nei vari ordini, non per se stessa ma sempre come anticipazione di quello che viene dopo e come esperienza assolutamente individualistica, rivelano l'intenzione di farla finita proprio con quel principio di rimozione delle diseguaglianze, contenuto nell'art. 3, secondo comma, della Costituzione; principio a cui si sono ispirati la nostra scuola e i nostri migliori insegnanti in questi decenni di sviluppo alfabetico del Paese. Insomma, sta cambiando con gli ultimi provvedimenti - fatto dirompente per il sistema scolastico e per la stessa coesione sociale - il principio ispiratore della nostra scuola. Questo ne mette a rischio il carattere inclusivo, cioè quella attitudine ad agire considerando la differenza un valore e il permanere del condizionamento socio-culturale una sconfitta. Una caratteristica grazie alla quale la nostra scuola di base era riuscita a conseguire nel confronto internazionale, rispetto agli altri Paesi, almeno un prestigioso risultato: quello del minor distacco negli esiti educativi delle fasce più deboli di allievi rispetto a quelle più forti.
Sappiamo che dietro le scelte attuali c'è, anche a livello internazionale, un disegno liberista che di fronte all'espansione di forme di lavoro sempre più precario e povero di contenuto culturale, considera la spesa pubblica per l'istruzione quasi un lusso, un ingombro, magari da far pagare alle famiglie.
Non diversa è l'ispirazione che vuole che di fronte al problema di una scuola da qualche decennio in rapida espansione ma pensata per una esigua minoranza - parlo della secondaria superiore - invece di affrontare quel problema con una seria riforma, si pretenda di risolverlo eludendolo, cioè assegnando alla formazione professionale un compito improprio: quello di assumersi in carico, già a 14 anni, i ragazzi con maggiori difficoltà, più poveri di istruzione, verso i quali invece la scuola, fino al compimento di un obbligo di istruzione di almeno 10 anni, dovrebbe essere messa in condizioni di intervenire con flessibilità per intercettare le diverse "intelligenze". Separare anzitempo i giovani, come prescrive la legge 53, tra coloro che sanno e coloro che si addestrano, è una soluzione che prende solo atto del problema dei ragazzi in difficoltà, ma per sanzionarlo, dimenticarlo, e alla fine legittimarlo. Quanto poi alla confusione inopinata che da anni si fa tra cultura del lavoro e cultura tecnologica, da un lato - che possono/debbono avere cittadinanza nella scuola - e, dall'altro, addestramento o avvio anticipato al lavoro - che non possono che venir dopo un'esperienza scolastica compiuta - vale quanto detto assai bene da Domenico Chiesa in apertura di convegno. Certo, se io, scuola, dico a te, giovane, che non ce la puoi fare, tutto sommato sarà molto probabile che abbia ragione, che verifichi che non ce la puoi fare; ma se io, scuola, ti dico che ce la puoi fare ma è difficile, per me scuola, per me insegnante è molto più difficile trovare il modo di avere ragione. È difficile, dunque, ma non c'è altra strada in una fase decisiva dell'adolescenza se non quella di più istruzione per tutti perché tutti crescano.
È tempo, dunque, per la scuola, per il Paese, di affrontare da subito senza ambiguità la questione dell'elevamento dell'obbligo di istruzione almeno fino ai 16 anni e in prospettiva ai 18! È tempo di risolvere, senza se e senza ma, questa sfida di democrazia!
Rimaniamo testardi in questa idea di più istruzione per tutti, perché nonunodimeno, dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze, da Catania a Trento, credente o non credente, femmina o maschio, nero o bianco, povero o ricco ne resti escluso, perché questo tocca da vicino, in primo luogo, noi insegnanti, perché è determinante per il nostro lavoro di educatori e per la percezione di noi stessi e per il senso della nostra dignità che ne ricaviamo.
Se vogliamo crescere come società dobbiamo crescere tutti e tutti insieme. Un'esperienza scolastica, continua e compiuta, è oggi necessaria e insostituibile per tutti. Ogni suo ridimensionamento - si può ridimensionare la scuola, oltre che accorciandone la durata, riducendone o frantumandone il tempo, aumentando il numero di alunni per classe, alimentando la precarietà, eliminando esperienze innovative significative, svilendone l'immagine e la cultura - sottrae a ciascun giovane un pezzo decisivo della sua identità, personale e sociale, una parte dei suoi diritti; lo destina a un lavoro precario e di scarso contenuto culturale, a una esistenza povera di valori.
E allora, quale messaggio questo Convegno lancia a noi insegnanti?

Una proposta agli insegnanti
Questo Convegno ci fa una proposta, ci indica la strada, certo non facile, ma di grande significato educativo, culturale e professionale, di un inedito protagonismo che affida a noi docenti, direttamente, l'impegno e la responsabilità di operare secondo quei principi democratici sopra esposti. Vogliamo essere rispettosi della legge; e la legge non lo vieta. L'autonomia scolastica - in particolare - e quel primo comma dell'art. 33 della Costituzione (l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento) ci consentono di farlo. È la scuola del confronto, della cooperazione, della ricerca didattica e della sperimentazione, dell'innovazione - come dice bene il Regolamento dell'autonomia (Dpr 275/99) - che possiamo/dobbiamo impegnarci a far crescere, malgrado tutto; è la scuola del curricolo, che effettivamente - e non a parole - mette al centro del suo interesse ogni singolo alunno o studente perché sia il più possibile colto e non ci siano separazione né subalternità tra l'uno e l'altro, ma siano, possibilmente, tutti capaci a loro volta di dialogo, di solidarietà, di senso critico e partecipativo, su cui si fonda il processo di cittadinanza in ogni società, almeno, che voglia definirsi democratica. Un impegno, oltretutto, utile a contrastare pratiche che non fanno parte storicamente del dna della scuola della Repubblica e a non disperdere quanto di positivo si è accumulato in tanti anni.
Non è un guardare indietro. Ciò risponde a un bisogno che è del tempo presente; e vuol essere un contributo a un processo di autentica modernizzazione della nostra scuola che tuttavia non può indulgere al nuovismo. È un'azione, infatti, che trova/deve trovare fondamento - come abbiamo fatto proprio in questo convegno - in primo luogo nella lettura attenta, in ogni campo, degli elementi sia di continuità sia di discontinuità: che cos'è cultura, oggi; che cos'è contemporaneità, razionalità, democrazia, concetti che - lo abbiamo sentito - non sono assoluti e definitivi, ma vivono se vivono il senso critico, l'ansia di conoscere, la disponibilità al dialogo ("se vive Socrate"). Oggi il concetto di democrazia si è molto ampliato e questo induce a scelte educative più attente, più complesse, più impegnative sotto il profilo della qualità e dell'efficacia.
Siamo, saremo soli in questo impegno? In generale si va allargando nel Paese la preoccupazione per le sorti della scuola; perciò il consenso verso uno sforzo di qualità come questo non potrà mancare.

Un appello al mondo della cultura
Ma, appunto, il Convegno ha interrogato anche il mondo della cultura e anche ad esso lancia un suo messaggio. Circa due anni fa, in un passaggio già alquanto critico della scuola, quando fu approvata la legge 53, per iniziativa di un gruppo di persone (tra cui alcuni rappresentanti del Cidi) fu sottoscritto un "Patto per la scuola, l'università, la ricerca", a cui migliaia di docenti universitari, maestri, professori, dirigenti scolastici, ricercatori diedero la loro adesione. È importante questo intreccio, questa contaminazione. È importante che questi mondi non si ignorino, ma anzi collaborino, ciascuno consapevole quanto sia importante agli altri, e gli altri a sé. Del resto, alti e decisivi contributi alla scuola italiana sono venuti dalla collaborazione tra questi mondi: pensiamo alle dieci tesi per un'Educazione linguistica democratica (Tullio De Mauro), di cui quest'anno ricorre il trentennale, alle importanti elaborazioni sull'insegnamento della Matematica (sin dai tempi di Lucio Lombardo Radice), delle Scienze (Carlo Bernardini), della Storia, dell'Educazione all'immagine ecc., a cui ha corrisposto un ricco lavoro di crescita professionale da parte di migliaia di insegnanti, singoli o aggregati in associazioni professionali o disciplinari. Il Cidi stesso è espressione di questa collaborazione. È un dialogo che - semmai si è interrotto - la scuola deve riannodare e rafforzare. E così pure l'università.
Ma è con ancora più senso di preoccupazione che in questi giorni il Cidi ha preso l'iniziativa di rivolgersi a tutto il mondo della cultura con un documento di allarme per le "Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati", per la loro pochezza e unilateralità, per il modo come si è proceduto alla loro stesura, senza pluralismo, senza confronto, senza l'elaborazione necessaria. Ne va dell'educazione delle nuove generazioni; ne va del futuro del Paese.
Da questo convegno vogliamo rinnovare a tutta la cultura italiana - nel segno di una battaglia di libertà e di pluralismo - l'appello a far proprio questo nostro grido di allarme, e a sottoscriverlo. È nostra intenzione portare questo documento, corredato da migliaia e migliaia di firme, comprese quelle degli intellettuali più prestigiosi del nostro Paese, dalle scienze, alla letteratura, dalle arti visive alla musica, allo spettacolo colto, all'attenzione del Presidente della Repubblica, e portarlo così all'attenzione dell'intero Paese. Molte sono già le firme raccolte, tra esse c'è anche quella, prestigiosa, di Bruner! Il consenso si va dunque allargando. Ma qui voglio invitare tutti gli insegnanti ad impegnarsi in questa iniziativa: facciamo in modo che la cultura del nostro Paese, della cultura che conta, possa riappropriarsi di quella valenza "politica" - nel senso più alto del termine, quale si rende necessaria nei passaggi difficili della vita democratica - in base a cui uscire dall'autoreferenzialità di settore, di disciplina o, addirittura, individuale, per essere in grado di guardare al Paese, e alla scuola che ne è un pezzo essenziale.
Certo, oggi, in generale, è l'avanzante nuova idea di cultura, a cui si ispirano i nuovi provvedimenti, a contrastare con la funzione educativa e sociale che fino ad oggi in Italia ha avuto la scuola, e hanno avuto l'università e la ricerca (se è vero, per esempio, che nel nuovo Regolamento del Cnr chi fa ricerca non si chiama più "ricercatore" bensì "capo-commessa!): cioè la negazione della cultura come valore in sé; significativa solo se computabile in relazione a un uso "a breve termine" o a un guadagno. È uno degli effetti di quella visione mercantilistica di società dove vige la norma per cui si è, si esiste solo se si ha, si possiede, si consuma, dove fare qualcosa nel segno del piacere intellettuale, della libertà, della generosità - quante volte lo si fa a scuola con i bambini e i ragazzi - conta poco, perché privo di valore economico; dove i rapporti tra gli individui sono improntati all'utilitarismo.
Ma può questa particolare concezione dell'economia che è il mercantilismo, diventare la madrina della storia?
La scuola ne soffre, e ne soffre tutto il mondo della cultura. Ne soffre il Paese.
Ma c'è - almeno dal nostro punto di vista - una via d'uscita! Anche di fronte al quadro più apocalittico l'educazione, la cultura offrono alternative, possibilità, processi positivi di lunga durata e resistenti agli attacchi. Perciò oggi, come ieri, la via dell'educazione e della cultura può essere/è/deve essere la via della resistenza al degrado e della fuoriuscita da esso. Nel confronto a distanza che ieri si è creato tra la descrizione assai pessimistica della attuale situazione, fatta da Raffaele Simone, e l'affermazione, a rimando, di Bruner, che l'educazione offre comunque possibilità e alternative, mi sentirei di dire che per un buon insegnante servano entrambe: alla condizione che la consapevolezza delle difficoltà esistenti possa rafforzare la capacità di reazione e di ricerca delle nuove soluzioni necessarie.
La cultura, nei suoi diversi orientamenti - affermiamo nel nostro manifesto di allarme per le "Indicazioni nazionali"- serve alla scuola! Per governare la complessità del mondo i giovani, e gli adulti, hanno bisogno di bussole, di competenze capaci di durare nel tempo, un tempo di vita adulta che oggi è raddoppiato e che richiede quindi successivi aggiornamenti attraverso un sistema di formazione ricorrente: far fronte a questa difficile e complicata richiesta non è una impresa culturale che possa essere cosa di pochi, o della sola scuola. La scuola chiede a tutto il mondo della cultura, e in particolare al mondo accademico e della ricerca, di contribuire attivamente a questo impegno e sa di poter offrire, a sua volta, giovani meglio preparati e più motivati.

Un messaggio alla politica
Infine il convegno lancia un messaggio alla politica.
Non c'è bisogno qui di dilungarci sulla diretta connessione tra modello di scuola e modello di società e di Paese, sullo stretto rapporto che lega crescita culturale di una popolazione e condizioni economiche e di vita. Qui preme ricordare il grave ritardo storico che nel processo di alfabetizzazione l'Italia si porta appresso rispetto agli altri Paesi sviluppati (Vertecchi). Dati attendibili - come è stato ricordato da Sofia Toselli - ci rivelano tra i nostri concittadini la presenza di 2 milioni di analfabeti, di 15 milioni di semianalfabeti e di altri 15 milioni di individui a rischio di cadere in quella condizione. E tuttavia non è solo grave non essere tra i primi nelle classifiche internazionali: se si è partiti in ritardo - e l'Italia è partita in ritardo non più di quarant'anni fa - nell'attivare processi complessi e di lunga durata, come è la crescita alfabetica di una popolazione, è quasi normale non figurare tra i primi; purché si verifichi nel tempo - tra una rilevazione e l'altra - un avanzamento significativo! È assai più grave perciò che la rilevazione del 2003 del Pisa-Ocse, relativo alle abilità di lettura, matematica e scienze dei nostri studenti, segnalino per il nostro Paese, per la prima volta, addirittura un regresso rispetto al 2000, e una accentuazione dell'influenza delle condizioni socio-ambientali, riscontrabile nella accresciuta distanza, negli esiti educativi, tra Nord e Sud del Paese. Siamo nell'Unione Europea il Paese con la più bassa percentuale di giovani scolarizzati o in formazione tra i 15 e i 19 anni. Un giovane su tre oggi - titolava "Tuttoscuola" - si accontenta della scuola media. Senza dimenticare i fenomeni di evasione scolastica nella fascia dell'obbligo che ancora caratterizzano non poche realtà di questo Paese, e i dati allarmanti sui consumi culturali, a partire dalla lettura di libri e di giornali, fermi se non in regresso.
Ci sono gli elementi per dire che l'istruzione è oggi un'emergenza nazionale!
Si pone allora oggettivamente, per chi intenda candidarsi alla guida politica del Paese, il problema della scuola come questione assolutamente prioritaria. E, prioritariamente, di fronte a una non espansione, e qualitativa e quantitativa, dell'istruzione, si pone la necessità, oggettiva, di definire da subito i possibili rimedi ai guasti di questi anni, e agli errori precedenti, per riaffermare una proposta diversa di istruzione che rimetta al centro l'idea del sapere come bene comune e come diritto universale e quindi sostenga il carattere laico e pubblico della scuola. Noi della scuola proviamo fastidio di fronte all'abuso, a cui ogni giorno assistiamo, in tv e altrove, di parole spesso prive di contenuto; di slogan, nati in ben altri contesti, a cui seguono sistematicamente provvedimenti di segno opposto; siamo stanchi dei camuffamenti linguistici, delle sciocchezze e degli attacchi che si fanno, giorno dopo giorno, alla scuola pubblica; ci indigna la sua sistematica delegittimazione.
C'è bisogno, da parte di chi intenda candidarsi alla guida del Paese, di dare alla scuola segnali significativi: non necessariamente di megaprogetti, bensì di idee generali forti e univoche che diano significato e coerenza a provvedimenti anche graduali o parziali; idee che mirino a ridare valore sociale all'istruzione e slancio e rimotivazione ai tanti soggetti che nella scuola vivono oggi in condizioni di incertezza, di disagio, a volte di vera e propria mortificazione. Sarà necessario chiamare di nuovo la scuola - cosa che, salvo una brevissima parentesi, non si fa da diversi anni - a essere protagonista - certo, non da sola - dei cambiamenti che la riguardano; per sentirne le ragioni, per meglio valutare la sostenibilità dei cambiamenti che vengono proposti, per tener conto dei sottili equilibri di un organismo, la scuola, che per quanto grande ed esteso sia, è pur sempre assai delicato e c'è sempre il rischio di far danno.
La scuola deve poter entrare da protagonista nella Fabbrica del Programma!
Il mondo della scuola - questo Convegno lo conferma - ripone fiducia nella politica quando questa si nutre di cultura, di visione generale e di conoscenza diretta dei problemi, e li affronta con coerenza. E soprattutto quando è capace di prospettiva - qualcuno di noi direbbe - di sana utopia!
Ma cartina di tornasole della portata di questo impegno sarà, prioritariamente, la quantità delle risorse che verranno destinate alla scuola e alla formazione in generale, e il grado di convinzione che verrà dimostrato nel considerare la scuola un investimento e non una spesa!
È una questione che riguarda in primo luogo gli insegnanti.
Già, gli insegnanti…

Gli insegnanti
Siamo una categoria numerosa, la più numerosa del pubblico impiego, il cui decisivo contributo alla crescita alfabetica di questo Paese, a partire dagli anni 70/80, è stato pressoché ignorato. Oggi si sollevano periodicamente virulente campagne mediatiche volte a delegittimare questa categoria: si dice, e si scrive, che gli insegnanti in Italia sono un peso, che è inutile investire su di loro, perché sono troppi - ma troppi rispetto a che cosa? Rispetto a quali bisogni? Che sono ostili alle riforme - ma a quale tipo di riforme? Quando poi non si passa alle contumelie di qualche ben pagato editorialista! E nel frattempo avanza in Parlamento una legge che mira a dividere gli insegnanti, a irregimentarli. Di fronte a tali iniziative e a tali affermazioni la scuola non può rispondere perché alla scuola, sulla stampa e in tv, non è consentito aver voce! Il fatto è che gli insegnanti sono oggi titolari di un'azione educativa semmai ancora più complicata che nel passato, spesso di vera e propria guida e sostegno alle giovani generazioni.
Non ci nascondiamo le zone d'ombra che pure ci sono - in questa come in altre categorie - le inadempienze, le posizioni di comodo, gli errori, pur sempre gravi per professionisti che svolgono un compito così delicato. Ma quanto tutto questo è anche effetto di colpevoli e diverse miopie, antiche e recenti, nel governo di questa categoria?! Ma se critiche non possono mancare, non possono tuttavia essere ignorati i meriti dei tanti insegnanti, donne e uomini, che in ogni angolo del Paese, operando anche tra gravi difficoltà, puntigliosamente hanno concorso e concorrono con sensibilità democratica alla crescita e alla tenuta di questo Paese. Si diano loro prospettive di miglioramento, sottraendoli a mortificanti, inutili competizioni. Del resto è solo con loro, non contro di loro, che uno sforzo di rinnovamento della scuola potrà realizzarsi. È tempo che il Paese si accorga e valorizzi finalmente, in tutte le sue potenzialità, questa risorsa.
Ed è perciò con orgoglio che voglio concludere citando anch'io - altri autorevolmente lo ha fatto sulla nostra rivista "Insegnare" - i bei versi di Kipling:

"Ora è tempo di elogiare uomini e donne degni di fama"
-Uomini e donne di poca visibilità-
Perché il loro lavoro continui,
E questo lavoro continui,
Continui in modo ampio e profondo,
Più importante di quanto loro stessi sappiano!

("Let us now praise famous men"
-Men of little showing-
For their work continueth,
And this work continueth,
Broad and deep continueth,
Greater than their knowing!)



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