Dove cominciano le terze prove?
di Giuseppe Bagni

Evitare la logica dell’adeguamento formale alla norma e approfondire invece l’analisi di ciò che si è fatto nell’ultimo anno di corso sui punti nodali dei percorsi disciplinari realizzati.

L’esperienza del nuovo esame di Stato ha confermato che la gestione della terza prova costituisce un impegno particolarmente complesso da assolvere.
Se da un lato il buon senso si è confermato guida sicura dei docenti, portandoli a evitare i voli pindarici delle prime proposte circolate nelle scuole, dall’altro le prove che sono state proposte hanno mostrato troppa disomogeneità. Ne è conseguito uno squilibrio fortissimo nella difficoltà, peraltro ben evidenziato dall’analisi degli esiti condotta a livello nazionale dal Cede, che ha registrato una distribuzione dei risultati inversa a quella gaussiana prevista, con la maggioranza dei punteggi corrispondente ai valori più alti e più bassi.
È utile interrogarsi sul perché di queste difficoltà, non tanto – non solo – per migliorare tecnicamente la prova d’esame, quanto perché le riflessioni necessarie rimandano, con una necessità nuova, al problema della qualità dell’intero percorso scolastico e del lavoro docente.

Carattere inter-pluri-disciplinare della prova
La natura della terza prova è, come sappiamo, pluridisciplinare. Le commissioni potevano interpretare il mandato in maniera diversa, tuttavia non è una forzatura individuare due scelte generali che hanno guidato la costruzione delle verifiche. Da un lato si sono cercati testi o spunti interdisciplinari da cui derivare domande sui domini disciplinari coinvolti. Nell’altro si è scelta la strada della prova strutturata su discipline non necessariamente interrelate. Eppure, come visto, l’analisi rivela esiti contraddittori in entrambi i casi, con prove globalmente troppo difficili o troppo facili.
È allora legittima la domanda: non sarà che le diverse tipologie, nella sostanza, sono la stessa cosa?
Le commissioni che hanno scelto la chiave trasversale si sono dovute muovere in pratica in un sentiero molto stretto, tra la consapevolezza che i temi interdisciplinari realmente praticabili dovevano essere abbastanza concreti, circoscritti a discipline affini, e l’esigenza di correlarsi alle simulazioni svolte durante l’anno scolastico. Se hanno corrisposto perfettamente a queste, le prove sono risultate facili perché appiattite su esperienze già fatte; se non hanno corrisposto, estremamente difficili.
D’altro canto la prova strutturata prevedeva domande a risposta multipla o aperta ma comunque con l’indicazione della concisione. In pratica con le semplificazioni della fase transitoria, poche domande su pochi ambiti, e di rapida risposta: non so che cosa ci si aspettasse.
In pratica sia la prova su traccia interdisciplinare che la prova strutturata pluridisciplinare sono diventate prove del tutto analoghe, caratterizzate da esiti equivalenti.
Questa conclusione non ha solo un carattere contingente ma assume un valore generale: c’è una coerenza e coesione nella preparazione degli allievi che rende assimilabili, non complementari come si vorrebbe, le diverse metodologie di valutazione. Se a regime la terza prova coinvolgerà tutte le tipologie, come si recita nel regolamento, potrebbe non essere complessa ma complicata e artificiosa.
Eppure c’è qualcosa di profondamente nuovo nelle difficoltà del lavoro delle commissioni, di là dall’interpretazione tecnico-burocratica del nuovo esame.
L’esito di queste tensioni non è facile prevederlo: sappiamo che qualunque fattore di disturbo di un equilibrio può essere rapidamente metabolizzato e riassorbito, oppure, più raramente, evolvere verso un nuovo stato d’equilibrio. Tuttavia la terza prova non consiste in un testo nazionale, non chiede alla commissione la solita fatica del rivestire le valutazioni ragionevoli con i panni razionali delle varie griglie oggi di moda – impegno sempre più improbo con le rigidità di punteggio introdotte. Questa era già routine d’esame (una prassi che la stragrande maggioranza dei docenti applica, per sua fortuna, solo in tale occasione). In quest’impegno si può forse vedere un aspetto importante della professionalità docente, ma non certo il carattere saliente della quotidianità del lavoro docente.
Rispetto a questo stato di cose, la terza prova si colloca come una salutare discontinuità.
Anche se è stata la multidisciplinarità a catturare maggiormente l’attenzione e a scatenare fantasie interpretative, la discontinuità profonda, potenzialmente significativa, sta nell’aver affidato alla commissione stessa la responsabilità della costruzione dello strumento. Un incarico forse stridente con il carattere “nazionale” dell’esame, ma allo stesso tempo una prassi quotidiana – questa davvero – dei docenti. Da qui nascono le reali difficoltà, che è fondamentale capire, prima ancora che risolvere: troppo spesso in tempi recenti la voglia di soluzioni rapide ha spinto nella scuola all’elusione dei problemi.

Quale trasversalità?
Sappiamo che per scegliere gli strumenti di misurazione adatti occorre conoscere le caratteristiche dell’oggetto della misura. La necessità da parte delle commissioni di prendere atto della storia della classe, attraverso il documento del 15 maggio, si iscrive in questa norma generale. Sappiamo anche che la misurazione ha valore se la variabile che scegliamo di seguire è proporzionale alla variazione globale dell’oggetto (per esempio, il peso è una buona misura della crescita del neonato, mentre non lo è più per un individuo adulto). Ecco una prima questione da risolvere: che cosa valutare nella preparazione degli allievi che sia un campione significativo, direttamente legato alla loro crescita?
L’acquisizione delle abilità trasversali sarebbe la risposta migliore, ma lo specialismo tuttora dilagante negli ultimi anni della scuola superiore non può condurre ad acquisizioni di questo tipo, se non per i soliti allievi che le possiedono per loro conto. Ne siamo così coscienti che si sono introdotti argomenti ad hoc per svolgere le simulazioni della terza prova e avere alla fine qualcosa di trasversale da valutare.
Quest’espediente non è affatto nuovo nel problema della misura: corrisponde, in effetti, all’adeguamento dell’oggetto da misurare allo strumento di misura. Legittimo ed efficace per alcuni scopi (per esempio, per identificare il tragitto di una trasformazione organica è utile la modifica del campione con l’aggiunta di atomi di carbonio radioattivo, rilevabile con il contatore Geiger), non lo è certo per la valutazione di un processo se questo risulta snaturato, oppure se si sviluppa in maniera totalmente indipendente.
Purtroppo nelle terze prove si è concretamente valutato una singola unità didattica interdisciplinare, quasi predefinita e perfettamente riconoscibile dagli allievi, credendo di campionare la loro preparazione. L’uomo è l’unico animale che sa prendere decisioni da campioni d’esperienza perché questa è una pratica d’astrazione dai casi singoli.
Il Cede conosce il problema, infatti sta lavorando intorno alla valutazione d’acquisizioni di “secondo livello” per trovare misurazioni significative della globalità del processo educativo. Tuttavia le iniziali proposte in merito alle terze prove sono apparse difficilmente praticabili, perché del tutto estranee ai reali percorsi scolastici. Se volessimo adeguare l’insegnamento a un’idea così “accademica” di trasversalità, saremmo in pratica costretti a risolvere il problema dell’integrazione delle discipline – fondamentale per ridare coesione e senso all’apprendimento – con l’introduzione di nuove discipline di confine. Questo, in effetti, è il fenomeno che sta caratterizzando il mondo della ricerca, ma riportarlo direttamente nella scuola significa negarle specificità, lasciando nella sostanza inalterato il suo modello specialistico, solo ammodernato nella facciata.
Se le discipline sono finestre sul mondo la trasversalità che interessa la scuola è quella che ricerca un orizzonte a 360°, un obiettivo che si allontana se sovrapponiamo più finestre sulla stessa parete. Si costruisce piuttosto tenendo le finestre ben aperte e collocate su tutte le pareti, per poi coltivare nei ragazzi e nelle ragazze quelle capacità di combinazione e rielaborazione delle diverse prospettive, che sole possono garantire la ricomposizione dell’intero orizzonte. Queste sono abilità d’astrazione che si collocano nel profondo delle discipline, non al di sopra.

Misurare non è valutare
Il problema dello strumento ne implica un altro. Le teorie dell’errore distinguono i concetti di precisione e d’accuratezza. Per precisione si intende il livello d’incertezza causato dagli errori di lettura dell’apparecchio, mentre l’accuratezza risponde del possibile errore insito nell’apparecchio stesso. Un esempio semplice è una classe che è chiamata a decidere che ore sono leggendo l’orologio alla parete da cui sia stato tolto il quadrante. Sentiti tutti i pareri degli allievi si potrà concludere, per esempio, che sono le 11 e 22 minuti, un minuto più o un minuto meno, ma in realtà può benissimo essere già mezzogiorno se l’orologio va indietro oppure è fermo. Solo con quest’ottica globale possiamo porci il problema della valutazione della misura.
La commissione si trova di fronte a un impegno analogo, dal momento che deve tenere conto non solo della gamma dei punteggi della prova ma anche della sua adeguatezza rispetto agli obiettivi. La valutazione avrà aspetti quantitativi, in cui si potranno applicare utilmente griglie o altro, ma dovrà integrarli con valutazioni di natura più qualitativa. La capacità di interpretare correttamente il documento del Consiglio di classe insieme con quella di quest’ultimo di rendere trasparente il proprio lavoro entrano negli esiti della prova. Come si vede c’è di nuovo un dovere di comprendere che si combina con il misurare.
Altra caratteristica generale della misura è che a ogni elaborazione dei risultati l’incertezza può solo espandersi. Ne consegue che le commissioni, chiamate a distribuire i livelli di sufficienza su una gamma di punteggi estesa come quella attuale – aspetto già discusso da Armellini su “Insegnare” (n. 1/2000, p. 33) – si comportano come un allievo che alla conclusione della lezione, guardando l’orologio senza quadrante della parete, affermasse che sono esattamente le 11, 22 minuti e 45 secondi...
Alla terza prova va riconosciuto il grande merito di rendere legittime queste considerazioni già nella fase “tecnica” di predisposizione dell’esame. Potrebbe cioè contribuire a mettere in crisi la classica schizofrenia del docente-commissario: figura esterna alla classe quando predisponeva e valutava la prova, interna quando aggiustava i risultati rispetto alla sua esperienza e alle sue attese.

Che fare?
Come possiamo migliorare il nuovo esame? Intanto non scommettere sul suo effetto di retroazione: l’esperienza ci assicura che nell’incertezza trionfa la logica dell’adeguamento, con occultamento di tutti gli attriti senza che nella sostanza vi sia alcun cambiamento.
Quindi puntare sulla visibilità del lavoro della classe, sulla comprensione delle scelte del Consiglio di classe e sulla capacità della commissione di essere in continuità con quel lavoro.
Una risposta non elusiva alle difficoltà prevedibili e registrate nel primo anno di applicazione, parte dall’analisi del luogo dove le terze prove hanno origine: l’ultimo anno del corso. Dal progetto didattico, quello che normalmente non esiste, visto che non si può scomodare il “progetto” per quella rincorsa ai programmi ministeriali, verso i quali al quinto anno si è assiomaticamente indietro. Né può essere seriamente sostenuta le tesi di inserire opportuni modelli interdisciplinari. Questa è la cultura dell’adeguamento che non sposta la sostanza dei problemi.
Il punto è che una prova d’esame pluridisciplinare non può ridursi a un questionario, più o meno corposo, di domande sui programmi attualmente svolti senza sconfinare in un esame nozionistico, ripetizione di un modello che speriamo superato per sempre. E neppure a una traccia interdisciplinare adatta a una scuola dei sogni.
Occorre porre mano con coraggio ai percorsi disciplinari, caratterizzando l’ultimo anno come il segmento terminale di un percorso a spirale. In esso ci dovremmo concentrare sui nodi e sui passaggi fondamentali delle discipline, ma con strumenti concettuali ben diversi, alla ricerca delle “regole prospettiche” con le quali esse vedono il mondo.
Non sopra ma dentro le discipline possiamo far emergere la loro valenza formativa e trasversale, conducendo gli studenti lungo quell’intreccio di radici che tutte le connette.
Solo se saremo legittimati a pretendere buone risposte, avremo anche buone domande da porre.

numero 6/2000


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