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Modesta proposta conservatrice sulla scuola “elementare”
di Giorgio Bini

È necessario mantenere nel nuovo ciclo di base quanto è rimasto ancor oggi di “artigianale” nella scuola elementare per continuare a rispondere con concretezza ai problemi che sorgono nel proporre e avviare gli alunni al possesso degli strumenti di base della cultura simbolica.

La scuola elementare è destinata a scomparire, assorbita dall’unica scuola di base berlingueriana? La domanda viene formulata spesso, dettata da elementi di ansia (persino per immotivati timori di perdere il posto o preoccupazioni per l’avvenire professionale), talvolta da preconcetti e pregiudizi; del resto di pregiudizi grondano gli autorevoli commenti di grandi intellettuali che per il solo fatto d’aver frequentato la scuola credono di poterne trattare consapevolmente (come se qualcuno pretendesse di esser competente a discutere di ponti perché vi transita sopra in treno e in automobile).
Sembra certo che non sparirà una scuola nella quale abbia inizio l’apprendimento istituzionale, l’approccio “ufficiale”, legale delle nuove classi di cittadini bambini e bambine all’istruzione e alla cultura. Semmai dall’unificazione dell’elementare e della media in un’unica scuola di base dovrebbe scaturire una più seria impostazione di progetti sulla continuità. Ci si dovrebbe attendere che si preveda con maggior concretezza che cosa dovrà essere stato appreso al termine dell’intera scuola di base e alla realizzazione di questo scopo sia indirizzato tutto il lavoro. Forse, chissà, qualche maestra più audace e spregiudicata riuscirà a comprendere che non ha senso insegnare la stessa storia greca, romana, medievale ecc. due volte in sette anni, e qualche insegnante degli anni terminali potrà più facilmente comprendere che è anche lei, poniamo, insegnante di lettura per quanto non tocchi a lei occuparsi della prima alfabetizzazione.
Si dovranno però mantenere, anzi ricuperare perché in parte si sono venute perdendo, alcune fondamentali distinzioni. Si sentono esprimere preoccupazioni per l’esistenza d’una scuola della preadolescenza, l’attuale scuola media. Ma si tratta non tanto di mantenere una struttura e una denominazione quanto di tener presente in tutta la gestione, progettazione, esecuzione dell’insegnamento, che una persona all’inizio della pubertà è completamente diversa da un bambino, da una bambina e perciò diverso ha da essere il segmento scolastico nel quale si trova. Allo stesso modo non è importante che esista una scuola dei fanciulli; è importante mantenere al settore iniziale il carattere d’ambiente di esperienza (culturale, sociale, civile) rispondente alle capacità, ai bisogni e agli interessi dei bambini e delle bambine. È questione, insomma, di costituire l’unità culturale dell’istruzione di base riqualificando la scuola anche nella capacità di valorizzare e utilizzare le differenze, comprese le differenze d’età e di maturità, e di dare agli apprendimenti un carattere processuale, una scansione scientificamente fondata: di collegare, cosa che di solito non accade a nessun livello del sistema d’istruzione, conoscenza scientifica (soprattutto, in questo caso, psicologica) degli alunni e delle alunne, conoscenza delle discipline e conoscenza di ciò che significa in generale apprendere, di ciò che significa in un determinato ambiente e contesto, di ciò che significa apprendere un determinato contenuto in quel contesto. Dicendo questo non si dice nulla di nuovo: centinaia di ore di corsi d’aggiornamento, migliaia di pagine di testi scritti per questa o quell’altra occasione hanno trattato simili argomenti, per esempio quando bisognava avere scritto almeno un saggio o un tema o una relazione sulla programmazione per esigenze di carriera scolastica o universitaria; ma se n’è quasi sempre trattato in maniera astratta: il fare scuola era un’altra cosa, e anche il programmare in funzione del fare scuola.

Che cosa mantenere, che cosa eliminare
Dell’attuale scuola elementare occorre mantenere quel poco che vi è rimasto di “artigianale”. Inutile fingere che non sia vero: la scuola elementare sta trasformandosi in una secondaria in miniatura, in parte per un’applicazione schematica e formalistica del sistema dei moduli, in parte perché si sta riversando sulla scuola e sulle maestre una massa crescente di strumenti (pseudo)didattici – quadernoni, schede e quant’altro – che rubano spazio e senso all’autonomia progettuale delle e degl’insegnanti. A questi non resta altra alternativa che buttare via tutto, il ciarpame e il poco di valido che questo materiale contiene, o tenersi il tutto e limitarsi a somministrarlo, raccoglierlo e correggerlo.
Artigianale era l’atteggiamento delle “vecchie” maestre e dei “vecchi” maestri. I migliori e le migliori fra loro si basavano, è vero, più sul buon senso – il quale è stato bandito dalla pedagogia e dalla didattica e si cerca di bandire del tutto anche dalla mentalità del corpo docente – che sopra una preparazione culturale-professionale adeguata. Questa dote professionale indispensabile anche se non sufficiente permetteva a molti di loro di reagire con concretezza ai problemi che sorgevano in ogni momento del loro lavoro e di mantenere spazio e tempo per l’iniziativa personale loro e degli alunni. Si sente esprimere rimpianto per questa vecchia scuola; naturalmente è un rimpianto spesso non giustificato, ma la “vecchia” scuola alla quale si pensa è quella in cui laboriosamente si cercava di preparare e avviare al possesso degli strumenti di base della cultura simbolica: l’alfabeto, il numero; una scuola nella quale si leggeva ogni giorno, si scriveva spesso, si costruivano percorsi matematici basati sul possesso del numero, del calcolo e della misura.
Il rimpianto che sentiamo esprimere, per esempio da genitori i cui figli non leggono mai se non istruzioni per l’uso dei quadernoni e per la compilazione delle schede e di altri strumenti, non ci fa dimenticare che quella era la scuola del dettato, dei “pensierini” e poi dei componimenti su soggetti spesso estranei all’esperienza di vita e di apprendimento; la scuola dei problemi falsamente concreti sulla compravendita, delle pagine e pagine di “analisi grammaticale”. Ma all’interno di quella scuola aumentava il numero degli e delle insegnanti che cercavano di promuovere la libertà e possibilità d’iniziativa per sé e per gli alunni, di aumentare la quantità ed elevare la qualità dei contenuti d’apprendimento e al tempo stesso di rispettare i ritmi propri dell’età e dei singoli. Nessun rimpianto per la scuola dove si leggeva tutti insieme “tenendo il segno”; ma c’erano classi dove si costituiva e si amministrava la biblioteca sin dai primi giorni, e si leggeva perché leggere appariva ed era un’esperienza felice, dove si scriveva ciò che si sentiva il bisogno di esprimere e di comunicare attraverso quello strumento,

Mettere le basi
Si ha l’impressione che si stia perdendo la consapevolezza che i primi apprendimenti devono fondare una conoscenza organizzata e avviare al possesso e all’uso degli strumenti della cultura. Oggi più che in qualunque altro momento l’insegnante elementare avverte la precarietà della sua posizione professionale. Non solo i pedagogisti – e non sempre pedagogisti capaci dell’umiltà necessaria per ascoltare e imparare da chi lavora tutti i giorni nella scuola – ma anche gli specialisti delle discipline, e i neolaureati che non hanno mai visto un bambino, tutti pontificano e propongono contenuti sempre più complessi (o ingarbugliati), senza chiedersi (e senza mai dover render conto a nessuno che glielo chieda un po’ bruscamente) se tutta quella roba lì serve, se può essere compresa e imparata da persone che cominciano a studiare e stanno perfezionando delicati strumenti di apprendimento e di ragionamento.
Persino più che nella vecchia “scuoletta” si dà tutto per scontato: gli insiemi, l’informatica, la logica, la storia generale e tutto quanto le riviste didattiche e le case editrici riescono a escogitare interpretando i programmi come se fossero un manuale d’istruzioni per il lavoro degli scolari e delle scolare anziché un documento culturale rivolto alle maestre e ai maestri da leggere criticamente e da tradurre autonomamente in concreto lavoro quotidiano rispettando l’infanzia e le sue caratteristiche.
Inadeguatezza professionale, si diceva. Molti e molte insegnanti hanno studiato oltre il livello del diploma e non hanno una preparazione culturale inferiore a quella dei colleghi di scuola secondaria, e anche quelli e quelle che non hanno proseguito gli studi ufficiali sono certamente più colti dei loro colleghi e colleghe di qualche decennio fa. Tuttavia tendono ad assumere atteggiamenti di soggezione verso gli aggiornatori di mestiere, i produttori di proposte didattiche anche cervellotiche e irrealizzabili, di libri incomprensibili, ad arrendersi di fronte a una cultura estranea al fondamento del loro lavoro o almeno del tutto teorica e cercano di lavorare alla sua applicazione senza troppo curarsi delle conseguenze sugli alunni, specialmente, ma non solo, sui meno favoriti socialmente e culturalmente.
Se c’è del vero in tutto questo, s’impone un provvedimento di ampia portata, sempre che rimanga qualche residua energia dopo tutti gli sforzi fatti per diffondere il verbo dell’autonomia come toccasana. Occorre far passare tutto il personale insegnante, nel corso di alcuni anni, attraverso un percorso di aggiornamento-riqualificazione centrato sui fondamenti scientifici del mestiere e su una concreta impostazione teorico-pratica: l’apprendimento, le sue condizioni generali e le condizioni per realizzarlo nei vari campi: soprattutto della lingua (lettura, scrittura, grammatica; motivazione alla lettura, verifica della comprensione), della matematica (aritmetica e geometria), dell’inglese, dei linguaggi non verbali, delle scienze. Tutto questo avendo presente non il problema di tradurre in spezzoni nozionistici il sapere “adulto” e i prodotti delle escogitazioni accademiche gabellati per risultati di sperimentazioni, ma la ricerca di ciò che è necessario far apprendere perché possa costituire una prima enciclopedia personale a cui progressivamente aggiungere informazioni e conoscenze; una cultura di base, insomma, su cui fondare gli apprendimenti successivi. E imparare, anche, a rimandare a dopo o, quando è necessario, a buttar via ciò che non ha questo carattere fondativo.
Proviamo a esemplificare. La conoscenza dei computer e del loro uso è ormai indispensabile. Ma è proprio necessario che questa si acquisti a partire dai primi anni di scuola? E se si acquista nei primi anni di scuola, non c’è il pericolo che questo apprendimento avvenga con danno dell’apprendimento delle tecniche tradizionali di lettura e scrittura, delle prime conoscenze di grammatica, della padronanza nel campo dell’espressione e della comunicazione scritta (e orale)? Come impedire che il bambino, la bambina, conquistata una disinvolta capacità di lavorare con le tastiere e i video, consideri questa l’unica esperienza significativa e trascuri tutto il resto come una perdita di tempo e una causa di mancata gratificazione? Problemino politico-pedagogico-didattico: se il computer diventa l’unico strumento degno di considerazione, a scuola e a casa, non sarà anche uno strumento di discriminazione per i bambini e le bambine nelle cui case il computer non c’è, che sono molte? O, al solito, queste persone non contano nulla?. E se il computer soppianta la capacità di ragionamento discorsivo, sequenziale, costruito sullo schema del libro, quali studi attendibili, quali sperimentazioni garantite ci assicurano che non ci sono conseguenze negative; che anzi il modello ipertestuale e multimediale è il modello d’ogni possibile apprendimento e ragionamento futuro? Che perciò si possono tranquillamente allevare generazioni di non lettori di libri senza timore di far danno?
Queste sono alcune delle domande che forse possiamo rivolgerci, animati da spirito terribilmente conservatore (i “rivoluzionari”, di questi tempi, sono così poco ragionevolmente innovativi) che secondo buon senso mi sembra ci si debbano rivolgere mentre si cerca d’immaginare come andrà a finire dopo le riforme berlingueriane.
 

P.S. Sulla struttura della riforma dei cicli come schema generale, per quel che conta, il mio giudizio è favorevole, se non altro per coerenza. Si dà infatti il caso che l’idea di una scuola di base unitaria dai sei ai sedici anni sia stata oggetto di un ragionamento fatto per iniziativa di Bruno Ciari, Roberto Mazzetti e mia al Febbraio pedagogico bolognese nel 1969. In seguito me ne occupai da deputato fino al 1977. Di tutto questo c’è traccia nell’opuscolo bolognese intitolato Per la ricostruzione della scuola di base, stampato nel 1969, seconda ed. 1973, e in un paio di articoli di “Riforma della scuola”, l’ultimo nel n. 3, 1977; non, s’intende, negli atti parlamentari. Alle Botteghe Oscure i risultati di questo lavoro non parvero degni d’interesse e quindi non sembrò il caso di presentare la proposta di legge che n’era scaturita. In fondo, si trattava solo di quasi dieci anni di lavoro di un gruppo di persone.

numero 5/2000


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