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Globalizzazione e conoscenza
di Umberto Cerroni

Si legge che una delle conseguenze psicologiche più gravi della tragedia di New York continua a essere lo stato nevrotico dei bambini e dei ragazzi. La loro persistente agitazione dipende principalmente dal fatto che non riescono a capire le motivazioni di ciò che la città ha subìto e che hanno visto con i loro occhi o alla tv. Ma ciò che la mente dei minori registra come un trauma psicologico nato nel tragico incontro fra reale e virtuale solo apparentemente sembra estraneo agli adulti. Di fatto è difficile spiegare un evento che ingloba vari elementi parimenti terribili: il fanatismo politico-religioso che culmina nell’autodistruzione dei kamikaze, la feroce strage di tante vite umane, la novità tecnologica dell’attacco, lo sfregio deliberato dei simboli civili. Sono fenomeni che abbiamo visto anche noi nella lunga stagione del terrorismo nostrano. E sono fenomeni su cui la psicologia ha certo da dirci molte cose. Ma altrettante ha da dircene l’educazione intellettuale: nasce dunque – per così dire – un compito nuovo della scuola. Nell’epoca della globalizzazione è più che mai vera l’affermazione di Locke che la conoscenza è la difesa principale di fronte al mondo: dobbiamo costruire una conoscenza globale dei globali fenomeni del mondo. Si teme tuttavia l’avvento di un “pensiero unico”, di una “colonizzazione intellettuale”. Siamo dunque di fronte a un grande problema: come sviluppare contemporaneamente l’integrazione in una “cultura universale”, l’autonomia di ogni persona e l’identità di ciascun popolo.
Può sembrare un’impresa impossibile e di fatto tale appare a chi contrappone la propria identità personale, ideologico-religiosa, nazionale alla universalità della cultura rivendicando primati o esclusivismi. Ma proprio questa contrapposizione caratterizza uno stato arretrato di mentalità e di conoscenza. Lo sviluppo della civiltà è stato infatti caratterizzato dalla capacità di estrarre dalle differenze della vita pratica stimoli alla creatività. Ciò diventa possibile quando si riesce a distinguere, senza contrapporle, la relazione pratica (la politica) e il rapporto intellettuale (la cultura). Così stiamo riscoprendo il fatto che un principio essenziale della nostra civiltà è divenuta la laicità della politica che ha garantito in pari tempo l’autonomia del potere politico dalle ipoteche ideologico-religiose e l’autonomia della ricerca intellettuale dal potere politico. Questo complesso processo viene generalmente riassunto come distinzione (e coesistenza) di verità di ragione e verità di fede: una distinzione che consente sia di convivere con chi non la pensa come noi, sia di conoscere e “utilizzare” le differenze che ci distinguono.
Proprio la storia della civiltà italiana può illustrare questa problematica. La distinzione tra verità di scienza e verità di fede maturò in un complesso e aspro confronto che dominò il XIII secolo. La scoperta della fisica aristotelica e la rinascita degli studi di diritto romano misero in crisi la cultura cattolica ispirata al teologismo di Paolo e Agostino. La Chiesa reagì mettendo al bando l’insegnamento di Aristotele e del diritto romano. Fu allora il pensiero arabo di Averroè che sbozzò la prima idea di una verità di scienza, distinta e autonoma dalla verità di fede. E Tommaso d’Aquino, proprio polemizzando con l’averroismo, sistemò quella distinzione anche nella teologia cattolica. Sul piano pratico Dante potè – con la sua Monarchia – teorizzare la separazione e quindi l’autonomia del potere politico e del potere religioso.
Purtroppo nel mondo arabo il pensiero di Averroè non trovò sviluppi analoghi. Su quella base in Italia e in Europa, invece, si ebbe il consolidamento teorico dell’autonomia della politica (Machiavelli) e della scienza (Galilei). Queste aperture svilupparono il pensiero umanistico laico e poi quello illuministico e democratico moderno. Non senza gravi difficoltà, sappiamo. In Italia, purtroppo, il processo pratico della modernizzazione potè completarsi soltanto quando nella penisola sbarcarono americani e inglesi (e anche indiani, marocchini, australiani, brasiliani, neozelandesi). Nella stessa Europa la “civiltà occidentale”, minacciata dal nazismo tedesco alleato all’imperialismo giapponese, fu salva anche grazie al sacrificio di non-occidentali. Chi dimenticherà i milioni di russi caduti sulle frontiere orientali dell’Europa? Bisognerebbe ripercorrere la storia dell’Occidente ricercando gli apporti che differenti nazioni, filosofie, religioni, razze portarono alla nostra comune civiltà. I ragazzi capirebbero che la chiusura mentale nella propria provincia può generare mostruosità.

numero 11/2001


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