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    mensile del centro di iniziativa democratica degli insegnanti

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      Minima scholaria 29 - di Tullio De Mauro
      Lo Smig: terza e al momento ultima puntata

      Senza la scuola delle parole, come abbiamo detto (Minima 27 e 28), il sapere e saper fare degli esseri umani sarebbe impossibile nelle forme che conosciamo e, come Einstein suggeriva, non sarebbe maggiore di quello di altri animali superiori. Capacità che consideriamo non linguistiche sono inconcepibili fuori del possesso di una lingua storico-naturale, con la sua duttile articolazione fonico-uditiva (un doppio raffinamento biologico e neurologico), la sua sintassi complessa, la sua possibilità di ancorarsi e, volta a volta, disancorarsi dalla situazione, il suo lessico indefinitamente ampliabile e, al tempo stesso, contraibile, precisabile fino alla pedanteria e generalizzabile fino alla genericità estrema.

      Tecniche elementari di produzione e ancora più quelle complesse, il lavorare, il produrre e lo scambiare beni, presuppongono e implicano a ogni livello, dallo scheggiare selci al navigare in rete, l’assimilazione di istruzioni e informazioni che richiedono la mediazione della parola. L’immenso, aereo, astratto edificio dei linguaggi matematici poggia su pilastri come la capacità di discretizzare simbolicamente e stabilmente il continuo e di istituire rapporti tra i segmenti discretizzati: numerare, contare, misurare sono operazioni impossibili senza convenirle e stabilizzarle entro l’uso di parole. Numeri e calcoli sono anzitutto parole e frasi, e per decine di migliaia di anni sono restati solo tali (e tali restano per una parte cospicua del genere umano). Lo stesso mondo della visualità percepita e prodotta è filtrata attraverso la scansione conscia o inconscia del sapere verbale. Aveva ragione in senso assai profondo il grande Heinrich Wölfflin quando diceva: "Per capire la pittura giapponese dovete imparare il giapponese". Infine (o per prima cosa) l’organizzazione della vita sociale, qualunque forma assuma, richiede tra gli esseri umani l’uso della parola, come videro bene già i grandi filosofi greci. Tutto ciò era vero al loro tempo, fu vero secondo ogni attendibile ipotesi al momento del costituirsi del genere Homo sapiens e resta vero oggi, quando rischia di diventare più indispensabile che in ogni epoca del passato la capacità di parlare a macchine con la voce e lo scritto e di ascoltarne e leggerne i messaggi.

      Garantire un esteso controllo delle capacità di linguaggio è una via obbligata per costruire qualunque sapere e qualunque saper fare e ancor più quel nucleo primario di accesso a ogni altro sapere e alla vita sociale che è variabile attraverso i tempi e le culture, ma è sempre intriso di linguisticità e parole. È il nucleo che Saverio Avveduto propone di chiamare Smig, sapere minimo garantito.

      Certamente è lo stesso patrimonio genetico degli esseri umani ad aprire le vie verso il controllo del linguaggio, della capacità di usare una lingua. Non lo si può ignorare, ma nemmeno si può dimenticare che, un po' come nella parabola dei talenti, tale patrimonio non ci apre la via verso il linguaggio se non viene attivato e non entra in funzione entro un tempo determinato. È un seme che, passato un certo tempo, perde la sua capacità di germinare. È un orologio a tempo. Se entro la soglia degli otto anni la capacità d’uso di una lingua non è attivata, il patrimonio genetico si atrofizza o, per dir meglio, si atrofizzano nel cervello le capacità di metterlo a frutto e imparare a parlare. La realizzazione della finalità sociale e culturale della parola è iscritta dentro il patrimonio genetico. Qui la cultura si concreziona con la natura, la storicità mutevole con le più statiche strutture biologiche.

      La prima fonte di attivazione del linguaggio è e resta il commercio affettivo e fisico più elementare con adulti e coetanei, sono le cure parentali e l’immenso lavoro di orientamento nell’ambiente e tra i simili. In società complesse e stratificate, oggi come già nei secoli passati, alla fonte familiare si è aggiunta la fonte collettiva dell’istruzione.

      L’istinto linguistico che guida le cure parentali nello stimolare le capacità di parola dei piccoli non sempre si continua felicemente nell’istruzione collettiva. Questa rischia sempre, specialmente a mano a mano che si allontana dai primi passi sulla via dello Smig (nelle nostre scuole preelementari ed elementari), rischia sempre di disancorarsi dall’attenzione a ciò che pare primario: l’interrelazione continua, incessante, tra sapere linguistico e saperi ed esperienze non linguistiche, tra il sapere parole e, come altre volte si è detto, saperle accoppiare opportunamente all’ampliamento delle esperienze operative e conoscitive. A ogni passo l’istruzione rischia di cadere nelle trappole del puro verbalismo, curando solo l’esteriorità della parola e non la sua polpa semantica e funzionale, o nelle opposte trappole di un insegnamento che dimentica di sviluppare e controllare la capacità di assimilazione linguistica e, quindi, stabile e critica degli apprendimenti.

      Lo Smig richiede invece questa spola continua tra i contenuti operativi e conoscitivi e le parole, tra le parole e le situazioni in cui esse realmente si apprendono e funzionano.

      numero 10/'99