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    mensile del centro di iniziativa democratica degli insegnanti

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      Minima scholaria 33 - Dall'orale allo scritto - di Tullio De Mauro

      Per ogni essere umano, fin dalle prime ore di vita, i fatti linguistici sono legati profondamente agli affetti, alle esperienze quotidiane, alla maturazione delle capacità di socializzazione e di elaborazione conoscitiva. Pervadono il nostro privato in tutte le sue forme più concrete. Per il profano risulta quindi sempre faticoso capire che a questa concretezza grondante di materialità, affettività e quotidianità possa essere e sia vantaggioso guardare anche da un punto di vista molto astratto, non per negare la concretezza, ma per intenderne meglio la sottile trama, una trama logica, matematica, che la innerva. Alcuni grandi teorici del Novecento, anche se non consenzienti in tutto tra loro, hanno messo in luce questi vantaggi, da Saussure, all'inizio del secolo, fino a Chomsky, al termine.

      Guardare al linguaggio, alle lingue e all'esprimersi da questo punto di vista molto astratto vuol dire accostarsi (cercare di accostarsi) al modo in cui un matematico guarda a un calcolo o a una figura. Che usiate carta e penna, gesso e lavagna, tastiere e video, o la vostra voce e le parole della vostra o di un'altra lingua, e cifre arabe o romane o cinesi e sistemi di numerazione in base due, o dieci o dodici, o pietruzze e sabbia e bastoncini, tutto questo non ha alcun interesse. Il suo occhio coglie invarianti e relazioni tra invarianti, queste le cose interessanti. Lunghezze o spazi e quantità numeriche, così diverse nella concreta esperienza e così diversamente rappresentate, gli appaiono proiezioni di entità concettualmente identiche: saturazioni diverse di identiche relazioni astratte.

      Se si guarda al linguaggio in questo modo, parlare e scrivere appaiono solo saturazioni diverse del costruire segni valendosi delle unità e regole di una lingua. E del resto le lingue stesse, nella loro immensa varietà, appaiono proiezioni accidentalmente diverse, ma concettualmente equivalenti, di un'unica capacità di identificare, differenziare e associare ciò che vogliamo dire e ciò che ci permette di esprimerlo.

      Nell'atmosfera remota e rarefatta della pura teoria parlare e scrivere sono equivalenti. Ma se mettiamo le due attività in rapporto con le concrete capacità dei singoli, in un contesto storico e culturale determinato, le cose cambiano. (Cambia anche, e come, fare calcoli con pietruzze o con carta e penna, a memoria o su una calcolatrice...). Almeno oggi e per ora, ben poco di ciò che chiamiamo scrittura è davvero, in via di fatto, soltanto una diversa saturazione di un parlare e il parlato lo è di uno scrivere.

      La scrittura si avvicina a equivalere al parlare quando qualcosa viene scritto sotto dettatura. Sarà ancora meglio equivalente se e quando saranno assai più perfetti, cioè ben più aderenti a qualunque dettaglio di qualunque realizzazione parlata, i sistemi di dettatura automatica, cioè di registrazione e trascrizione automatica della voce parlante. Ma nel comune scrivere e anche nell'attuale dettatura automatica (che per ora è in realtà un parlato orientato al suo dover essere scritto) le cose stanno assai diversamente. Una frase scritta equivale a una frase parlata e viceversa solo in quanto vi è tra le due un buon grado di sinonimia, cioè una più e meno estesa comunanza di sensi attribuibili indifferentemente all'una e all'altra. Ma molte sono le differenze formalmente e sostanzialmente rilevanti.

      Il parlato non può sottrarsi mai del tutto all'integrazione con riferimenti evidenti a chi parla, allo stato in cui si trova, alle circostanze presenti nell'immediato e a gesti, toni, pause che accompagnano e colorano il dire e orientano chi ascolta nella comprensione del senso concreto, più vero, perfino contro la volontà, a volte, di chi sta parlando.

      Tutto ciò è forzatamente semplificato in ogni usuale sistema di scrittura. Ciò che scriviamo qui e ora verrà letto (forse) un giorno lontano altrove, da chi per afferrare il senso di ciò che vogliamo dire non ha altro indizio che la nuda forma delle nostre frasi o parole. Guai se queste fanno troppo affidamento sui toni o sulla mimica con cui le pronunceremmo parlando o sulle evidenze materiali che ci circondano mentre scriviamo. Di conseguenza la redazione di un testo scritto, per modesto che sia, obbliga chi scrive a una riflessione preliminare sulle forme linguistiche da impiegare perché il testo, privo dei sussidi che accompagnano il parlato, risulti accessibile a destinatari lontani nello spazio e nel tempo e, forse, nella cultura e negli affetti.

      La scrittura è un'impietosa spoliazione di tutto ciò che informalmente ed estemporaneamente ci aiuta a esprimerci nel parlare. Ci aiuta e deve aiutarci. Un buon parlatore sa che, per quanto abbia progettato con cura e fissato in mente ciò che deve dire, il dire effettivo è mortifero se non tiene conto delle necessità o delle possibilità che un concreto interlocutore o un determinato pubblico e una specifica situazione presentano.

      D'altra parte, proprio per questa spoliazione, la scrittura deve rendere esplicito tutto ciò che nel parlare può e deve restare implicito. L'implicito del parlato va portato nella forma delle parole e delle frasi scritte, va formalizzato.

      numero 3/2000