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Il curricolo
di Lucio Guasti

Le molteplici implicazioni contenute in una teoria del curricolo volta a perseguire un'idea di uomo colto in una scuola democratica, per una società aperta.

Il curricolo: l'identità
Una fra le critiche che sono state rivolte alla proposta di curricolo formulata, in modo particolare, nella seconda metà degli anni novanta del secolo appena trascorso, riguarda il principio di identità culturale. Si è osservato che la riforma proposta attingeva in modo troppo vasto dalla cultura anglosassone e anche dalle nuove tendenze dell'attuale "dirigenza politico-burocratica" europea, dimenticando o trascurando la specificità della nostra tradizione. Ciò che non è apparso chiaro o almeno tematizzato in modo sistematico e convincente, è proprio l'esplicitazione del punto focale di questa nostra tradizione culturale: la dimensione storica, quella filosofica, quella artistica, quella letteraria o, più ampiamente, umanistica rispetto a una cultura scientifico-tecnologica-tecnica che aveva le sue radici soprattutto in altri ambienti e in altre culture nazionali.
Si possono formulare due ipotesi che interessano la riflessione sul curricolo. La prima ha come oggetto la matrice cristiana della nostra cultura, anche se si può rilevare che questa non solo non si distingue da quella degli altri Paesi europei o da quelli anglosassoni, semmai ne è la base comune. A meno che ciò non voglia dire riferirsi a una matrice più strettamente cattolica della nostra cultura, il che andrebbe più ampiamente argomentato soprattutto per le sue supposte conseguenze sui fondamenti delle opzioni curricolari. La seconda riguarda l'ipotesi di una matrice filosofica della nostra cultura basata su radici metafisiche, storicistiche e idealistiche, rispetto a una cultura del mondo anglosassone costruita su teorie empiriche, esperienziali ed epistemologiche.
Potrebbe essere interessante comprendere meglio come da una stessa matrice cristiana sia sorta una prevalente cultura empirica e liberal democratica nei Paesi anglosassoni e, di contro, una altrettanto prevalente cultura storicista e ideologico-autoritaria nelle nazioni europee.
Se questo approccio al problema non viene ritenuto legittimo, allora occorre pensare che il riferimento è rivolto a un particolare periodo storico ritenuto emblematico e caratterizzante la nostra storia. In genere, si riconosce nella letteratura contemporanea che il contributo che l'Italia ha dato al mondo si è particolarmente concentrato nei secoli identificati con l'Umanesimo e il Rinascimento. Se l'attuale dibattito sulla crisi e anche sulla fine della modernità ha un senso, occorre allora stabilire una nuova connessione tra l'identità del nostro vissuto e il periodo di maggior splendore della nostra tradizione.
Per quanto attiene al curricolo, questa pista di ricerca può essere attentamente considerata quale progetto di lavoro per una riflessione sulla teoria del curricolo che tenti di tracciare qualche elemento di nuova intensità rispetto al curricolo corrente che sembra, soprattutto per l'attuale generazione giovanile, poco coerente, poco stimolante, poco costruttivo. Va preventivamente sottolineato che l'approccio potrebbe portare forse troppo "lontano" dalla situazione attuale, se dovessimo accettare la sintesi espressa da un eminente studioso italiano di quel periodo, Eugenio Garin (Cfr. Garin E., a c. di, L'uomo del Rinascimento, Laterza, Bari 1988). Due passaggi delle sue riflessioni possono essere particolarmente significativi per affrontare altrettanti aspetti fondamentali del curricolo, tradizionalmente ritenuti suoi punti cardine: la verità e la visione dell'uomo. Nel primo si legge:
"La verità, insomma, ossia la filosofia (come la scienza), non è qualcosa che si trova in un libro da commentare ex cathedra, di cui successivamente si commenterà il commento (Averroè e san Tommaso commentano Aristotele, Giovanni di Jandun e Tommaso de Vio commentano Averroè e san Tommaso, e così di seguito). Né la ricerca della verità è condizionata dal rapporto con una 'rivelazione', poco importa se ebraica, o cristiana, o mussulmana. La verità è una risposta da cercare nell'esperienza delle cose e nella storia degli uomini, e da mettere, certo, a confronto anche con i loro libri, ma solo perché anch'essi, documenti dei loro tentativi, e quindi da valutare razionalmente. Col Rinascimento si chiudeva un ciclo e, come diceva Machiavelli, si tornava alle origini".(181)
Nel secondo si precisa:
"L'uomo universale del Rinascimento è soprattutto colui che ha smarrito i confini dei vari campi del sapere e del fare, che in un dipinto scrive un saggio di pensiero politico o, come Raffaello, illustra Diogene Laerzio e le vite dei filosofi; che in una lirica compendia un saggio di morale; che in un trattato di architettura scrive un libro sullo Stato; che in un'opera sulla pittura condensa ora una dissertazione di filosofia, e ora i principi di un trattato di perspectiva.(…)".(182)
È questo l'ideale dell'uomo colto che oggi si vorrebbe ricreare? È questo ciò che il periodo di istruzione obbligatoria dovrebbe indurre positivamente nella psicologia dei giovani? È questo oggi un ideale realmente possibile? Qualche autorevole sollecitazione sembra volere ricondurre la formazione contemporanea a qualcosa di simile. Si prenda una delle ultime riflessioni di un cultore delle scienze contemporanee come Edgar Morin:
"A dispetto dunque di una scienza dell'uomo che coordini e interconnetta le scienze dell'uomo (o piuttosto a dispetto dell'ignoranza dei lavori compiuti in questo senso), l'insegnamento può efficacemente tentare di far convergere le scienze naturali, le scienze umane, la cultura umanistica e la filosofia nello studio della condizione umana. Allora si potrebbe giungere a una presa di coscienza della comunità di destino propria della nostra condizione planetaria, in cui tutti gli uomini sono messi a confronto con gli stessi problemi vitali e morali". (Cfr. Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p.44).
Recentemente anche un filosofo come Stefhen Toulmin (Cfr. Toulmin St., Cosmopolis. La nascita, la crisi e il futuro della modernità, Rizzoli, Milano 1991, p. 224) ha insistito sulla crisi della modernità e sulla necessità - che si sta già manifestando - di ricupero di valori propri del Rinascimento:
"La seconda guerra mondiale è stata il culmine dei processi sociali e storici che hanno avuto inizio negli anni cinquanta del Seicento, con l'inizio dell'Europa moderna: vale a dire del mondo, dello stato e del pensiero "moderni". In quanto tale, questo è stato l'ultimo caso in cui i popoli d'Europa hanno potuto sostenere e mettere in pratica gli ideali e le ambizioni della Modernità in una maniera totalmente inconsapevole. Negli anni venti del Novecento autori come Oswald Spengler avevano affermato che la dominazione mondiale dell'Europa era giunta al capolinea; ma che la Modernità fosse "morta e sepolta" è stato dichiarato solo dopo il 1945".
Ma se quella di Toulmin appare oggi come una posizione ampiamente condivisa, ciò che appare invece rilevante per il nostro discorso riguarda la sua osservazione sull'eredità della cultura umanistica. Tale eredità può essere rappresentata nella cultura contemporanea dall'accettazione di due parametri, quello ecosistemico e quello dell'adattabilità. Essere umanisti oggi vuol dire inserirsi in questo tipo di orientamento culturale, mentre coloro che pensano alla razionalità come stabilità e prevedibilità vanno annoverati tra i modernisti:
"La nostalgia della Cosmopolis moderna ci espone alla fragilità dell'immagine della natura su cui essa si basa: un sistema stabile di corpi fisici che si muovono in orbite fisse intorno a una singola fonte di potere centrale - il Sole e i pianeti come modello per i re e i sudditi. Questo schema ha avuto una sua utilità costruttiva nel Seicento, ma la rigidità che ha imposto alla pratica razionale in un mondo di agenti indipendenti e separati non è più appropriata al tardo ventesimo secolo: in un'epoca di crescente interdipendenza, di diversità culturale e di mutamento storico. Modelli sociali e intellettuali che in precedenza avevano la virtù della stabilità e della prevedibilità oggi rivelano i vizi dello stereotipo e dell'inadattabilità. Continuando a imporre al pensiero e all'azione tutte le pretese della Modernità tradizionale - il rigore, l'esattezza e la sistematicità - rischiamo di rendere le nostre idee e le nostre istituzioni non tanto stabili, quanto sclerotiche, e di trovarci nell'incapacità di modificarle ragionevolmente secondo le richieste nuove di situazioni nuove". (257)
Chi ha ereditato la cultura umanistica? Certamente non i filosofi della modernità:
"Se l'umanizzazione della Modernità nelle scienze naturali ha annullato gli effetti del rigetto seicentesco dell'Umanesimo, la stessa opzione è ora disponibile per la filosofia. Dopo il 1630 i filosofi hanno ignorato le questioni concrete e si sono concentrati su problemi astratti, atemporali e universali (vale a dire teorici). Oggi questo programma teorico ha esaurito il suo fascino e le questioni filosofiche pratiche stanno tornando al centro dell'attenzione".(260)
Il dibattito ha diviso in due parti i contendenti. Dall'una, i sostenitori dell'eccellenza, i difensori del corpo di conoscenze acquisite basate sul "valore delle discipline affermate", semmai integrate dai nuovi processi, dall'altra i sostenitori del principio di rilevanza che ritenevano che non valesse la pena di avere una conoscenza "ben oliata, ben pulita e ben affilata, per poi non usarla; era molto più importante trovare modi per utilizzarla al servizio dell'uomo". Gli uomini della rilevanza avevano tutta la consapevolezza del valore della conoscenza, per questo non intendevano lasciarla nelle mani dei soli eruditi.
Così, usando la rilevanza contro l'eccellenza, il dibattito ha imposto "di indirizzare l'attenzione su quelle questioni pratiche, locali, transitorie e legate al contesto, molto care agli umanisti del Cinquecento, ma trascurate dai razionalisti del secolo successivo in favore delle questioni astratte, atemporali, universali e sciolte dal contesto. Ai nostri giorni - conclude Toulmin - la razionalità formale e calcolativa non può essere l'unico metro dell'adeguatezza intellettuale: bisogna anche valutare tutte le questioni pratiche nella loro "ragionevolezza" umana". (258)
Così la posizione del nostro Autore - assunta nel nostro discorso solo come linea emblematica di un orientamento e di un dibattito in corso - affida alla filosofia della rilevanza il merito di collocarsi come continuatrice della razionalità umanistica del nostro Rinascimento.

Il curricolo: la certezza
Uno dei parametri della modernità è certamente quello della certezza e filosofica e scientifica. La conseguenza di questo atteggiamento culturale nell'elaborazione del curricolo e dei conseguenti comportamenti organizzativi e formali è stata assai alta.
Da una parte essa pare avere incentivato il campo delle definizioni - essenziali o convenzionali -, dall'altro quello della rigorosità delle procedure metodologiche ossia dell'aumento dello spessore contenutistico ed epistemologico del metodo e, infine, l'enfasi e lo sviluppo di una diffusa teoria dei controlli.
Quest'ultimo esito sembra in questo momento quello socialmente più rilevante, intorno al quale si sta manifestando un consenso generalizzato e una letteratura in fase di ulteriore espansione. La teoria dei controlli per quanto attiene al curricolo è ormai composta di una serie di voci che stanno dando corpo a una letteratura specifica e specializzata e a conseguenti operazioni di riflessività e di sperimentazione.
La speranza implicita, ma anche esplicita, di ogni democrazia nascente è legata alla convinzione che questa possa reggere al suo stesso dinamico sviluppo soltanto se il principio di autocontrollo diventa un carattere fondativo di ogni individuo che voglia vivere i valori della "cittadinanza" - come oggi si sottolinea. La società delle democrazie liberali è correlata allo sviluppo delle forme di autocontrollo da parte di tutti i suoi protagonisti. La forma inversa e perdente della democrazia è rappresentata dall'eterocontrollo, cioè dal controllo esterno, istituzionale o sociale di tutte le operazioni condotte dall'individuo o meglio dalla singola persona. La proposta avanzata nella Costituzione italiana di una democrazia personalista, non individualistica, è basata sulla fiducia nella possibilità da parte delle diverse istituzioni sociali: famiglia, scuola ecc. di avere criteri e orientamenti di autocontrollo fattibili e possibili.
La mediazione tra autocontrollo ed eterocontrollo deve essere un oggetto di costante attenzione e riflessione in una società democratica. Per questo, il dibattito sulle forme di controllo proposte nelle organizzazioni formative e sociali rappresenta un importante nodo culturale. Per il curricolo non è indifferente una scelta o un'altra rispetto al sistema dei controlli sia esso correlato agli aspetti istituzionali sia legato alle dinamiche del sapere o della conoscenza.
Da diversi anni è in corso una pressione culturale che sta incentivando l'espansione e la generalizzazione del controllo applicabile a tutte le operazioni visibili sul piano sociale ma anche a quelle meno visibili. Il controllo si sta espandendo nel curricolo sia ai diversi aspetti dell'apprendimento, sia all'insegnamento, sia ai programmi, sia all'organizzazione, sia ai ruoli e alle persone che li incarnano ecc. Ma occorre ricordare che la stessa teoria della valutazione indica nel principio che "non si può valutare tutto" un particolare discrimine rispetto a tale orientamento.
Non va comunque confusa la teoria dei controlli con la formazione alla capacità valutativa da parte dei diversi soggetti. Così ammoniva già negli anni sessanta del secolo appena trascorso, un filosofo quale Habram Heschel che, preoccupandosi dell'uomo futuro, sosteneva che "il genere umano non morirà per mancanza di informazione, ma può invece perire per mancanza di valutazione" (Heschel H., Chi è l'uomo?, Rusconi, Milano 1965, p.116) .

Il curricolo: l'universalità
Tali orientamenti sono in grado di indurre più di un'osservazione; per il momento vale la pena di soffermarsi su un terzo punto, riprendendo il concetto di centralità della condizione umana, nel suo particolare versante di "comunità di destino".
L'attuale curricolo è ormai attaccato da due versanti: il particolare e il generale. Tradotto in termini diversi si può rilevare facilmente che oggi il curricolo è sottoposto a due richiami forti: il locale e il globale. Da una parte, è stata avanzata alla scuola la richiesta di un maggior investimento nella cultura locale considerando tale orientamento come condizione fondamentale dello sviluppo del curricolo. Il rapporto della scuola con il suo territorio e con le sue espressioni culturali, complessivamente prese, è stato assunto come asse metodologico forte, fino a ipotizzare integrazioni linguistiche, attenzioni al tessuto produttivo, orientamenti di politica culturale locale o regionale. D'altra parte, la tensione mondiale induce a considerare tendenze completamente diverse riguardanti i grandi processi, la maggiore vicinanza delle persone nell'ambiente mondo, la contestualizzazione, l'interdipendenza dei fatti ecc. La scuola appare pertanto sollecitata da una quantità di messaggi che la proiettano verso il globale, verso il tentativo della comprensione del tutto e, all'interno di questa pressione, induce riflessioni su ciò che unisce o divide le culture, i sistemi, le persone. Inoltre, nell'attuale contingenza storica, la dimensione politica dell'Europa rappresenta un richiamo a uno sforzo intermedio di identificazione con culture tradizionalmente "amiche e nemiche" tese verso uno sforzo di integrazione e di scambio, nonché di responsabilizzazione comune.
L'ipotesi di curricolo che si può esprimere in questa situazione sembra assai vicina alla teoria dell'elastico che viene tirato nella direzione di chi ha maggiore forza di attrazione. Si ripropone in modo più forte rispetto al passato l'idea del "globale" ma, nello stesso tempo, aumenta la propensione verso la valorizzazione del "locale". Così l'ipotesi, assai "pragmatica", di percentualizzare i rapporti tra locale e nazionale o tra locale, regionale e nazionale, nasconde soltanto l'impotenza di una strategia di sviluppo del curricolo che risulta prigioniera di schemi di ripartizione del potere su singoli segmenti dell'istruzione o della formazione con un'improbabile accentuazione del protagonismo locale.

Il curricolo: l'uguaglianza
Negli anni sessanta fu presentato al pubblico in Italia un altro autore americano di particolare fama quale era Mortimer Adler - recentemente scomparso. Mentre la casa editrice La Nuova Italia pubblicava e diffondeva le opere di John Dewey, la casa editrice Armando provò, senza successo, a diffondere la teoria pedagogica di Adler centrata sul "Progetto Paideia". La matrice aristotelica e anche tomista dell'autore - pur distante dalla tradizione scolastica cattolica - probabilmente ha impedito che in una cultura "classica" ma sostanzialmente spiritualistico-idealista tale autore venisse preso seriamente in considerazione.
Il richiamo ad Adler ha qui solo lo scopo di introdurre un'argomentazione fondamentale per il curricolo riportando il dibattito quasi alle sue prime diffuse origini. L'Autore contesta al sistema statunitense di non essere riuscito o di non volere realizzare quel principio di uguaglianza che è invece una condizione fondamentale della filosofia democratica di matrice realista. Il giudizio negativo è rivolto al cosiddetto Tracking System che riguarda la pratica di raggruppare studenti in canali separati, soprattutto dal sedicesimo al diciottesimo anno in vista della preparazione alla scelta universitaria, tecnica o professionale. Pur essendo strutturata ormai secondo il modello "comprehensive", la scuola statunitense, secondo Adler, conserva ancora aspetti di eccessiva divisione in classi nell'ultima parte del suo percorso formativo. In una scuola obbligatoria e per tutti fino al diciottesimo anno, questa scelta è contraria a una visione egualitaria della democrazia.
Per Adler i ragazzi sono certamente "educabili in vari gradi, ma la variazione del grado deve essere dello stesso tipo e qualità d'educazione", il che significa che il grado può essere diverso ma il genere no. La qualità della razionalità umana è basata sulla comunanza di genere e come tale essa garantisce la qualità per tutti. Per il nostro Autore, infatti, tutti hanno potenzialmente la capacità di essere razionalmente educati, se ciò non avviene dipende dalle circostanze e dalle incapacità dell'ambiente, ma tutti lo possono essere allo stesso modo: "Nel cuore di un sistema della scuola pubblica multi-track giace un'abominevole discriminazione". Gli obiettivi che un sistema ugualitario deve perseguire sono sostanzialmente tre: il self-improvement mentale, morale e spirituale; la responsibility of citizenship; "the basic skills that are common to all works in a society such as ours".
Per Adler una scuola pubblica deve essere generale e liberale, formare al lavoro senza entrare nel merito di specializzazioni e di professionalizzazioni anticipate, vale a dire fino al diciottesimo anno. Nel sistema europeo la specializzazione è anticipata e interessa tutta la secondarietà. Se l'orientamento culturale oltre alle canalizzazioni attuali dovesse ulteriormente separare la formazione scolastica da quella professionale, invece di tendere verso una cultura di base per tutti, allora il ritorno a una matrice idealistica e antidemocratica sarebbe ancora più forte ed evidente.

Il curricolo: la didattica
Com'è avvenuto per la valutazione che è diventata un campo specialistico e che oggi si presenta come un settore specifico di competenze, anche professionali, capaci d'organizzazione e di produttività economica, così sta avvenendo per altri campi tradizionali del curricolo. L'esperienza e la ricerca hanno aumentato in questi ultimi tempi il loro potenziale e la loro stessa qualificazione. L'espansione delle conoscenze è ormai esponenziale al punto che diverse discipline di studio subiscono separazioni interne e successive moltiplicazioni e anche là dove la denominazione resta identica è solo l'apparenza terminologica che la rende tale. La matematica, le scienze, la tecnologia ecc. sono soltanto denominazioni di campo, di settori, non possono essere considerate oggetti specifici di studio. Diventa sempre più necessario per il curricolo elaborare criteri per la scelta dei campi e dei contenuti piuttosto che elencare tutti i possibili contenuti che devono essere appresi.
Accanto al tema dei criteri che possiede già una certa letteratura, almeno com'espressione di un'esigenza avvertita, ci sono altri due argomenti che dovranno essere considerati oggetto di riflessione per le prossime operazioni culturali: il contenuto e l'insegnamento.
Nella nostra tradizione i corsi di studio rappresentano ciò che oggi è definito curricolo, anche se ci sono non poche differenze tra i due aspetti. I corsi di studio sono costituiti da un gruppo di conoscenze definiti contenuti. Tutto questo appare normale e consolidato, ma ci sono molti elementi che oggi inducono a riflettere su ciò che normalmente s'intende per contenuto da acquisire e se questo è veramente efficace per l'apprendimento.
Allo stesso modo occorre riprendere la riflessione sull'insegnamento. La società contemporanea ha ormai professionalizzato l'insegnamento in modo molto diffuso, ma proprio l'ipotesi corrente di una società che intende essere caratterizzata dalla centralità dell'apprendimento, pone nuovi problemi all'insegnamento. E questi nuovi interrogativi non appaiono tanto difficoltà di realizzazione dell'insegnamento stesso, quanto problemi legati alla sua stessa natura. Sembra di essere alla presenza di una crisi epistemica dell'insegnamento piuttosto che di fronte ad alcune sue difficoltà.

Il curricolo: lo spirituale
Questo è uno degli aspetti più critici del curricolo. La contestazione all'ultima riforma della scuola presentata dal precedente governo si era concentrata, al di là di aspetti d'ingegneria istituzionale, intorno al concetto di funzionalismo. La cultura che la riforma esprimeva appariva piegata alle esigenze del mondo produttivo e, quindi, era accusata di funzionalismo economicistico. Si addebitava alla riforma una tendenza eccessiva verso gli apparati procedurali della conoscenza: le competenze, con un'enfasi sul concetto di formazione, la cui semantica era collocata totalmente nel versante professionale. Il principio dell'integrazione tra i due mondi, quello dello studio e quello del lavoro era vissuto come un "cedimento" della tradizione propria della scuola alla dinamica del lavoro.
Si è forse lasciato intendere che una riforma del curricolo non doveva essere funzionale al mondo della produzione o non doveva essere funzionale a nessun altro potere forte della cultura o della società?
Un progetto di riforma del curricolo se non può e non deve essere funzionale a nessun altro sistema, deve possedere un'autonoma identità in grado di potersi relazionare con gli altri sistemi culturali presenti. Se il curricolo può non essere funzionale al sistema economico o al sistema politico o al sistema religioso o ad altri sistemi sociali, questo non significa che non abbia relazioni, anche forti con tali sistemi. Ma il sistema scuola è veramente un sistema ed è veramente dotato d'autonomia rispetto agli altri sistemi? In particolare, quale autonomia ha dal sistema politico? Perché appare più rischioso il funzionalismo al sistema economico rispetto a quello nei confronti del sistema politico quando la storia del Novecento pare che abbia dimostrato esattamente il contrario?
Ma dopo questo necessario chiarimento propedeutico resta ancora un problema: come qualificare il nuovo curricolo, o il curricolo dei prossimi decenni o del nuovo secolo?
È il termine "spirituale" che può compattare l'icona del nuovo e autonomo orientamento curricolare? Sono diversi gli autori che richiamano i valori dello spirituale come necessari per assegnare un compito significativo al curricolo e per provare a individuare strade più interessanti e motivanti per le giovani e non giovani generazioni. Ma sorge ancora una domanda: può un corso di studi avere una natura spirituale ed essere nello stesso tempo per tutti senza cadere nelle correnti del neoidealismo imperante o in forme di confessionalismo etico o religioso? Un altro filosofo, Hanan Alexander, ha tentato una prima risposta (Cfr. Alexander H.A., Reclaiming Goodness. Education and Spiritual Quest, University of Notre Dame Press, Indiana 2001) a quest'interrogativo, ma è evidente che si è solo agli inizi della riflessione. La ricerca in corso ha ormai deciso di abbandonare le "certezze della modernità" per approdare a nuove ipotesi, ma il percorso appare ancora quello della compattezza del modello ereditato dal secolo scorso basato sulla razionalità istituzionalmente organizzata.

numero 6-7/2002


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