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    mensile del centro di iniziativa democratica degli insegnanti

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      Mediascuola - Non sempre i media sono la conoscenza - di Enrico Menduni
      Mentre scrivo questo articolo le immagini della televisione raccontano la guerra nella ex Jugoslavia, i profughi, l’intervento della Nato. Non so se quando l’articolo verrà pubblicato l’intervento sarà ancora in atto e si respirerà ancora l’atmosfera inquieta e densa di interrogativi di questa fine di aprile 1999: oggi sarei propenso al pessimismo, mi pare che vi siano i segni che la guerra – perché di questo si tratta – non finirà presto; tuttavia, anche se l’intervento cesserà, non si spegneranno certo i focolai di tensione endemici in tutta l’area dei Balcani; i profughi continueranno a varcare l’Adriatico su imbarcazioni di fortuna; la tensione rimarrà alta. In ogni caso la guerra non può essere elusa dal discorso dell’insegnante, anche nello specifico dell’educazione ai media; fra le tante osservazioni che attorno a essa si possono fare, una parte notevole riguarda proprio il rapporto con i media e sarebbe proprio il caso di discuterne con i ragazzi.

      Intanto un’osservazione preliminare. Fra la guerra e i media c’è un rapporto molto stretto. Molte invenzioni, a cominciare dal telegrafo ottico e poi da quello elettrico, hanno avuto una immediata applicazione militare; la radio di Marconi trovò orecchie attente nell’Ammiragliato inglese; senza la fabbricazione in serie delle radio rice-trasmittenti della prima guerra mondiale non si sarebbe trovato il modo di abbassare i prezzi delle valvole termoioniche che nel dopoguerra serviranno allo sviluppo civile della radio. Il computer, i satelliti artificiali e la rete Internet sono nati strettamente legati alle esigenze degli eserciti.

      Ma in guerra nasce anche la propaganda moderna. La prima guerra mondiale è il primo conflitto che sia stato combattuto a colpi di propaganda stampata, sui giornali, anche con falsi clamorosi, ma non solo sui giornali: anche con i volantini che D’Annunziò gettò dall’aereo su Vienna, anche con la beffa di Buccari, un "media event", una storia buona per i giornali che si leggono nelle retrovie. Prima la guerra era una questione degli eserciti al fronte; le popolazioni erano coinvolte solo se la guerra si combatteva vicino alle loro case.

      Ma la prima guerra mondiale è una guerra in serie, che si gioca con la produzione massiccia di armamenti ed equipaggiamenti. Il "fronte interno", l’umore degli operai che nelle fabbriche producono il materiale per la guerra, l’atteggiamento delle popolazioni risultano determinanti e la propaganda è il mezzo per arrivarvi.

      La seconda guerra mondiale è stata vissuta dalle due parti anche come un grande evento mediale, con largo uso di disinformazione e di propaganda. La radio è stato il mezzo più usato in questa guerra. Poi venne il Vietnam. La prima guerra in cui i resoconti dei giornalisti dei giornali e della tv sono stati accusati di avere cambiato in patria il clima favorevole all’intervento americano. Forse non è vero (alcune ricerche dicono che i giornali avrebbero fiutato il vento del clima che cambiava nel Paese), certo i militari ne hanno tratto una dura lezione. Per questo la guerra del Golfo è stata una guerra senza notizie che non fossero quelle ufficiali, senza riprese che non fossero indicate dai militari, con i giornalisti confinati in un hotel di Kuwait City.

      Questa guerra è diversa. Non è dichiarata: vi sono serbi in Italia e italiani in Serbia, per esempio giornalisti. Vi immaginate un inviato della Bbc nella Berlino del 1943, che sta nel suo ufficio e telefona in redazione le notizie? È semplicemente inimmaginabile.

      La copertura media è enorme. Abbiamo immagini dettagliate di molte operazioni, anche perché ciascuna delle due parti emette le sue immagini. Pensiamo al ponte con il treno bombardato e le vittime civili. La Nato ammette l’errore in base alle foto diffuse sui media occidentali, che sono di provenienza serba. Pensate durante la guerra del Vietnam, o anche solo di quella del Golfo, i generali che si scusano per aver colpito per errore un villaggio? Semplicemente impossibile.

      Tuttavia di questa alluvione mediale poco ci confortiamo. Non capiamo quasi nulla. Nessuno ci ha fatto capire per bene perché, come, quando: nessuna delle famose cinque W del giornalismo anglosassone (where, when, who, what, why) risulta adeguatamente coperta. Non sappiamo se le immagini che vediamo sono repertorio, o esercitazioni, o sono quelle di ieri (ci pareva di aver già visto questa colonna di profughi, quel miliziano che spara dalla finestra, quel volo di elicotteri); vediamo, ma non sappiamo. Non sempre i media sono la conoscenza: questo è uno dei casi.