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La Finanziaria e la scuola
di Alba Sasso e Piera Capitelli

Non aumentano le risorse da destinare alla scuola pubblica. Se il disegno della maggioranza dovesse permanere - nella scuola, come nel settore sanitario – la qualità, da diritto di tutti, rischia di diventare privilegio di pochi.

Le cifre si sa non consentono troppi equivoci. Quelle contenute nella legge finanziaria, per la parte relativa alla scuola, chiariscono fino in fondo  il progetto Moratti di destrutturazione del sistema pubblico dell’istruzione e della formazione.
«Investire di più nella formazione e nella ricerca» dichiarava Letizia Moratti in Parlamento nel luglio scorso. E invece, sia nel documento di programmazione economica e finanziaria, sia nella legge finanziaria, l’istruzione, la formazione e la ricerca diventano occasioni di puro e semplice contenimento di spesa. L’impegno dello scorso governo di investire nella formazione come leva significativa per la qualità dello sviluppo nel nostro Paese viene cancellato. Si risparmia sui diritti di tutti. Poi chi potrà si pagherà una scuola di qualità, così come chi potrà si pagherà una sanità di qualità. Già nel Dpf le intenzioni erano evidenti: sanità, previdenza e istruzione rappresentano “voci” di riduzione della spesa corrente. Di conseguenza non c’è aumento di risorse a disposizione della scuola pubblica, anzi viene dichiarata l’intenzione di ridurre le spese per il personale.
Nella legge finanziaria, che nelle scorse settimane è stata discussa in Parlamento, la tendenza appare assolutamente confermata.
Con piglio manageriale e su pressione confindustriale, si continua a ripetere che gli insegnanti sono troppi e si lascia anche intendere che lavorino poco. Ma questo continua a sostenerlo chi ha in mente un modello di scuola che non esiste più. La scuola della esclusiva lezione frontale, dell’orario rigido, delle porte chiuse. Un modello pedagogico che produce selezione e dispersione, esclusione sociale. A questa idea fanno riferimento le misure di contenimento di spesa previste dall’art. 15 della Finanziaria. Il numero dei docenti (l’organico) non sarà più definito, secondo quanto previsto dall’autonomia, in base alla necessità di arricchire e ampliare l’offerta formativa delle scuole (il cosiddetto organico funzionale) per attività di recupero, di sostegno, di educazione degli adulti e così via. Niente di tutto questo. D’ora in poi il numero dei docenti effettivamente necessari sarà definito diversamente. Con ottica aziendale e con puro calcolo aritmetico. Si somma e si divide: tanti studenti, tanti docenti. Ma, soprattutto, si sottrae. E si sottraggono risorse per garantire migliori opportunità di apprendimento per tutte e per tutti. Che è la vera posta in gioco oggi, se è vero che l’accesso al sapere nella società contemporanea è strumento di inclusione sociale, investimento per l’economia, condizione di democrazia.
E ancora. Nello stesso articolo si modificano, per legge, questioni che, a legislazione vigente, sono oggetto di contrattazione sindacale, come l’orario di lavoro e l’organizzazione del lavoro nella scuola.
Gli orari diventano “europei”, anche se poco europei restano gli stipendi, salvo gli straordinari che toccheranno, e solo ai docenti della secondaria, a quanti (ma quanti?) vorranno accettare un ulteriore aumento di orario. Anche qui una logica di risparmio, ma soprattutto, con l’impossibilità di nominare nella scuola secondaria supplenti se non dopo 15 giorni di assenza, un danno al diritto allo studio per gli studenti.
E quanto poco europei siano gli stipendi  lo si vede dall’art. 11 della Finanziaria.

Gli insegnanti: solo numeri?
Certo c’è un po’ da perdere la testa sul balletto di cifre che appaiono e scompaiono, frutto anche delle pressanti trattative tra ministro e sindacati. Ma resta il fatto che, su questa voce di spesa, nell’assestamento di bilancio del 2001 sono stati tagliati 123 miliardi per il 2001 e 324 per il 2002, con la motivazione che non si è risparmiato sugli insegnanti, senza che ci sia una carta che lo dimostri. C’è dunque un valore negativo che pesa sui fondi investiti per il contratto. E, alla fine, a conti fatti gli aumenti per gli insegnanti finiscono con l’essere di 15.000 lire per il 2002, 50.000 lire per il 2003, 90.000 per il 2004, coperti per altro dal taglio di 34.000 posti. In altre parole, le risorse ci saranno se si risparmierà sul personale. Ben altro rispetto all’impegno di spesa già previsto dal governo precedente. Insomma, sono gli insegnanti affetti da sindrome impiegatizia (documento programmatico Moratti) o è l’attuale governo a considerarli solo numeri, peraltro in eccesso, e non risorsa per la qualità del sistema?
Infine la finanziaria modifica la legge sugli esami di Stato. Le commissioni diventeranno tutte interne con il solo presidente esterno. Un’ulteriore occasione di risparmio (il governo pare tornare indietro sul pagamento dei commissari interni, ma ci sono dubbi che ci sia, a questo proposito, copertura di spesa) e per di più, come maliziosamente suggerisce qualcuno, un regalo alle scuole private e ai diplomifici. Sicuramente una strada per abolire il valore legale del titolo di studio.
Si governa con la logica del decisionismo, delle risposte a una sola dimensione, delle soluzioni che hanno smarrito i problemi. Così procede la politica complessiva di Moratti. Bloccare le riforme e tornare al passato. Come nella proposta di una scuola che a quattordici anni diversifica e separa i percorsi: chi a scuola, chi alla formazione professionale. Un’idea vecchissima e dismessa da altri Paesi, come la Germania. Al fondo, un’idea elitaria di scuola, un’idea elitaria di società.
Allora ridurre risorse e investimenti, irrigidire l’organizzazione del lavoro, togliere spazi di autonomia al lavoro docente, penalizzare anche economicamente gli insegnanti significa colpire al cuore la qualità della scuola pubblica; significa non sapere o non voler leggere la complessità del mondo della scuola, la profondità di un processo di cambiamento che è già partito da tempo e che le riforme di questi anni hanno interpretato e portato a soluzione legislativa. Significa ignorare che la scuola che veramente conta per la qualità dello sviluppo è quella che fa crescere il livello e la qualità della formazione di tutti i cittadini e cittadine. Significa, infine, attaccare la scuola nel suo carattere pubblico e laico, che è proprio nella capacità di dare risposte articolate e differenziate; di garantire il diritto all’istruzione come “diritto alla cultura per tutti”; di rispondere alle sfide del cambiamento; di valorizzare le diversità e di farle convivere; di far diventare la cultura strumento di crescita democratica e di emancipazione delle persone; di saper costruire saperi e valori condivisi.
È a questo disegno che occorre opporsi da subito, sia nella battaglia parlamentare sia, soprattutto, nella scuola e nel Paese.

numero 1/2002


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