insegnare
    mensile del centro di iniziativa democratica degli insegnanti

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                                                  Forum - a cura di Luciana Scarcia
      L'insegnante: un protagonista della trasformazione in crisi d'identità
      Se l'identità di una persona o di un gruppo è "riconoscersi ed essere riconoscibile", in che cosa si riconosce e che cosa rende riconoscibile agli altri l'insegnante oggi?
      Le identità professionali non sono date una volta per tutte ma vanno costruite; ciò comporta dei rischi di accentuazione delle differenze e di perdita di senso ma anche una maggiore libertà e creatività. In una società come la nostra in cui sembra ridursi l'area dei valori condivisi e l'idea stessa della funzione formativa che il Paese assegna alla scuola risulta indebolita, quali sono i parametri che possono delineare la nuova identità degli insegnanti? E quali aspetti del loro lavoro costituiscono oggi fonte di disagio?
      Il divario tra le esigenze e i bisogni individuali sempre più diversificati, da un lato, e il patrimonio di tradizioni e valori collettivi su cui poggia la coesione sociale, dall'altro, determina anche una maggiore frammentazione dell'identità personale dei giovani, divisi nelle appartenenze a porzioni di realtà diverse e non comunicanti: famiglia, scuola, gruppo, sport etc. A fronte di tale realtà, in che modo, nel lavoro quotidiano, è possibile rendere significativa la relazione tra docente e allievo?
      Le riforme in atto o annunciate aprono nuove prospettive ma creano anche nuovi problemi. In tale processo gli insegnanti devono poter essere protagonisti. Quali sono le competenze professionali che il cambiamento richiede loro? E quali nessi si possono stabilire tra progettualità, libertà di scelta e responsabilità?
      Per riflettere su tali domande è stato promosso un Forum, nella redazione di "Insegnare", alla presenza di un gruppo di ascolto costituito da docenti dei vari ordini di scuola , un modo che è sembrato idoneo per avviare una discussione serena e senza la pretesa di dare risposte definitive e a tutto; le persone invitate a parteciparvi rappresentano, ciascuna, un punto di vista particolare - per competenze - anche se accomunate dall'impegno per una scuola riformata e di qualità: Serena Dinelli, Giunio Luzzatto, Corrado Mauceri, Sandro Onofri.


      Sandro Onofri
      Come prime riflessioni sui motivi di disagio che avverto nel mio lavoro di insegnante, metterei in evidenza due questioni che riguardano il rapporto con l'istituzione e con la società.
      La prima ha a che fare con il luogo comune diffuso che gli insegnanti non possano svolgere un ruolo da protagonisti nel processo di attuazione delle riforme. Una riprova ne è la significativa assenza di insegnanti

      L'insegnante non è protagonista del cambiamento: un luogo comune svilente...
      dalla commissione dei cosiddetti "saggi". La seconda questione riguarda la fatica del nostro mestiere, una fatica fisica e psicologica, accentuata rispetto al passato, e derivante dalla maggiore responsabilità che i cambiamenti in atto nei linguaggi dei giovani comportano. Quando ho cominciato questo mestiere avevo l'illusione, di derivazione gramsciana, che il valore dell'educazione e della cultura fosse universalmente riconosciuto. Oggi mi accorgo che gli alunni hanno codici di linguaggi molto diversi rispetto a quelli delle generazioni precedenti e sono lontani dai contenuti della scuola (tra una puntata di Paperissima e delle pagine della Divina Commedia so bene cosa scelgono).
      Lo studente disinteressato, che non vuole studiare, nei film fa ridere ma nel lavoro in classe richiede all'insegnante un grande dispendio di energia, perché egli non può dare per scontata, negli alunni, la disponibilità ad apprendere, anzi si trova a dover vincere il loro atteggiamento di resistenza; e ciò spesso è fonte di demotivazione e frustrazione. L'insegnante è trasparente, come dice Steiner, c'è ma non si vede, eppure deve trovare la sua funzione nella folla, in solitudine. Anche per questo noi insegnanti dovremmo potere ogni tanto "staccare la spina", avere, cioè, pause per controllare ciò che si sta facendo, per esempio con periodi sabbatici, come per i colleghi universitari.
      Un altro segno della scarsa considerazione di cui soffre l'educazione - e di conseguenza gli insegnanti - lo trovo nella tendenza ad attribuire maggior valore alla formazione professionale, quella che prepara ad un mestiere, rispetto alla formazione culturale. E l'indifferenza della società verso quest'ultima si riflette nel comportamento dei ragazzi. In un Istituto professionale in cui ho insegnato accadeva che gli alunni dessero maggior credito al docente di materie pratiche, anche se con loro aveva un atteggiamento autoritario e addirittura violento, forse perché ritrovavano in lui una funzione, un'utilità più immediata e quindi condivisa: il rapporto che quel docente aveva instaurato con loro assomigliava a quello di un allenatore di calcio con la sua squadra.
      Un'ultima considerazione di tipo, per così dire, storico. A me pare che le forze di sinistra, in generale, debbano interrogarsi sulle responsabilità che hanno avuto nell'affermazione di una tendenza all'appiattimento culturale: la giusta esigenza di combattere la scuola d'élite e di prestare attenzione alle fasce più deboli ha finito per impoverire contenuti e programmi e per penalizzare le eccellenze.

      Serena Dinelli
      Riprendo quella parte del discorso di Onofri sul luogo comune secondo cui gli insegnanti non sarebbero in grado di essere protagonisti del cambiamento. Nelle situazioni di trasformazione "catastrofica" - uso questo termine nel senso che "tutto viene messo in discussione" - com'è quella in cui
      Servono spazi per pensare insieme
      viviamo oggi, i comportamenti possibili sono due. O incarnare comunque il cambiamento e agire per agire, col rischio di agitarsi e basta e di non gestire i processi; oppure prendere consapevolezza che si sta in una situazione di cambiamento e che questo richiede spazi per pensare insieme, per prendersi un tempo di riflessione, apprendendo dalle esperienze che si stanno facendo. Questo secondo comportamento può aiutare ad orientare le persone e ad essere protagoniste del cambiamento.
      Ciò può apparire banale, ma la risposta che darei alla domanda "in che cosa si riconoscono gli insegnanti" è proprio la conquista di spazi per pensare insieme, perché ciò permette loro di riconoscersi gli uni con gli altri e di proporsi alla società come soggetti che stanno sperimentando identità, culture e pratiche condivise, sentendosi parte di un contratto conosciuto. Al contrario, rimanere isolati, specialmente in una situazione di trasformazione, è durissimo in quanto impedisce agli individui di far fronte alla crisi, lasciandoli disorientati e scoraggiati.
      C'è da dire che la nostra scuola non ha incoraggiato il lavoro in gruppo: gli spazi per pensare insieme sono residuali o clandestini, mentre la maggior parte del tempo viene spesa per fare cose che l'istituzione richiede. I Collegi dei docenti stentano a volte a trovare la misura di gruppo di adulti che pensano a ciò che serve ai bambini e agli adolescenti. Laddove, invece, si potrebbero individuare molti correttivi alla difficoltà di riconoscersi ed essere riconoscibili e alla fatica quotidiana, come, ad esempio, intrecciarsi con altre agenzie o altre scuole.
      Rispetto al problema della divaricazione tra cultura della scuola e cultura della società, posto da Onofri, vorrei osservare che effettivamente
      L'insegnante deve misurarsi con saperi spuri
      coesistono oggi vari tipi di cultura, e la scuola ne rappresenta uno. Prima essa doveva trasmettere il sedimento di una cultura d'élite. Ma le élites oggi costruiscono le culture di massa. In questo periodo assistiamo ad un grande disorientamento: nelle famiglie c'è l'adozione di modelli culturali di massa e c'è anche una grande fragilità, perché quei valori di massa non sono armonizzati con le culture tradizionali da cui le stesse famiglie provengono. È cambiata la qualità della comunità, e la chiarezza delle scelte risulta più offuscata; per questo le famiglie pensano sia più importante imparare un mestiere che accedere a un processo educativo di cui sfuggono i connotati.
      È evidente che la scuola non possa far fronte a questa crisi da sola, tuttavia, prendersi spazi per pensare insieme ad altri, sui perché e sui come, costituisce una base su cui rielaborare alcuni aspetti di questa terribile complessità.

      Corrado Mauceri
      Sentendo gli altri interventi mi chiedevo se le esigenze espresse di ridefinizione della figura professionale dell'insegnante come soggetto attivo del cambiamento possano collimare con le linee di tendenza tracciate dalla più recente normativa che regolamenta il rapporto di lavoro. Non mi sembra che sia così.
      Anche se il percorso non è ancora definito, mi pare tuttavia che l'applicazione al pubblico impiego del principio di privatizzazione (D. L.vo n. 80, art. 4) contenga un aspetto negativo, che consiste nell'omologazione di tutti i rapporti del pubblico impiego (dipendente ministeriale, medico, insegnante) verso un rapporto di lavoro subordinato (art. 2094 del Codice Civile). Quindi, non solo c'è un peggioramento
      Nell'autonomia l'insegnante è soggetto attivo o esecutore subordinato?
      rispetto alla situazione precedente in cui l'insegnante, dipendente sì ma non subordinato (come il magistrato), era comunque soggetto attivo del suo lavoro; ma si perde di vista anche la specificità di quest'ultimo. Per questo penso che il modello privatistico, in cui si sta collocando la nuova figura del docente, può incidere in senso limitativo rispetto alla libertà d'insegnamento e al protagonismo dell'insegnante.
      Alcuni aspetti dell'autonomia rafforzano il carattere subordinato del lavoro dell'insegnante. Poiché, infatti, è il dirigente scolastico che ha la responsabilità dei risultati, dei quali risponde non già all'interno della struttura scolastica - agli Organi collegiali - bensì ad un nucleo di valutazione, che è presso la Sovrintendenza regionale e quindi fuori della scuola, è inevitabile che venga rafforzata l'organizzazione piramidale della scuola con il riconoscimento di poteri più ampi al vertice. Per forza di cose il momento collegiale verrà subordinato a quello manageriale, si andrà verso una articolazione gerarchizzata del personale docente (chi collabora con il preside, chi ha incarichi particolari e chi sta in classe).
      Inoltre con il decreto sul dimensionamento si creeranno "megascuole" con 800-900 alunni, nelle quali c'è il rischio che la comunicazione salti, con buona pace della concezione della scuola come luogo del confronto e della creatività.
      Infine, la visione della Rsu (Rappresentanza sindacale unitaria) come soggetto contrattuale della scuola, asseconda ulteriormente il principio del preside come controparte datoriale - e non come parte degli organismi interni di gestione della scuola - e svilisce il ruolo dell'organo collegiale.
      Insomma l'adozione di questo modello privatistico e produttivistico rischia di trasformare la scuola in un'azienda, in cui gli insegnanti, anziché essere protagonisti attivi e responsabili del cambiamento, verranno considerati semplici risorse da utilizzare; la loro identità professionale sarà definita in senso burocratico. E questa tendenza viene ormai percepita da molti.

      Giunio Luzzatto
      Mi ricollego al discorso di Mauceri sull'eterodirezione e sulla logica aziendalistica che starebbe affermandosi nella scuola dell'autonomia. Io che vivo nell'Università vedo tutta la negatività di una logica che si colloca all'estremo opposto di quella aziendalistica, perché manca una struttura tesa a far funzionare l'istituzione sulla base degli obiettivi della stessa e non del comodo o, nel migliore dei casi, dei gusti culturali dei singoli che ne fanno parte. L'elettività della carica del Preside la rende soggetta al gradimento dei colleghi; infatti, il sistema di elezione tra pari non consente che ci siano una volontà e una capacità di far funzionare il Collegio, in quanto è semplicemente una somma delle singole volontà.
      Facendo un po' di storia: nella fase precedente si è insistito molto sul valore della partecipazione (Decreti delegati) a scapito dell'attenzione ai risultati; così, come succede sempre quando si eccede in un senso, oggi c'è il rischio che si vada verso l'eccesso opposto esasperando la logica dei risultati e ingigantendo l'aspettativa nei confronti del manager.
      Due ingredienti essenziali: la logica del "risultato" e il "clima" dell'istituzione
      Gli esempi degli altri Paesi ci dicono che anche lì si va affermando la logica di una struttura di tipo imprenditoriale, quindi non si tratta di un'anomalia italiana; tuttavia c'è da dire che alcuni Stati stanno tornando indietro, perché si sono accorti che, laddove c'è più gerarchia e autorità, il risultato c'è ma non è tutto, essendo importante anche quello che viene definito "il clima" dell'istituzione.
      Rispetto alla preoccupazione che le grandi dimensioni dell'Istituto scolastico, previste dal decreto sul dimensionamento, contribuiscano a rafforzare l'aspetto della scuola-azienda, io penso che la dimensione di per sé non sia significativa e che importante invece è come si fa funzionare la struttura. Nelle strutture di piccole dimensioni tende ad affermarsi una logica minimale, con il prevalere di preoccupazioni "di bottega" (come quella di perdere posto) a scapito della capacità innovativa e progettuale.
      Uno dei punti più importanti è capire cosa significa risultato, su cui si dice troppo poco. Prima di creare un sistema nazionale di valutazione (necessariamente esterno e indipendente rispetto all'amministrazione e ai protagonisti della didattica), è indispensabile definire cosa si valuta, ossia il risultato dell'attività scolastica. E una discussione come quella di oggi può essere utile per capirlo meglio.
      Faccio un esempio in ambito universitario. Se voglio valutare la qualità di alcune Facoltà, posso andare a vedere il numero di laureati per Facoltà che ottengono esiti positivi nei concorsi di alto livello. Ma criteri quantitativi relativi alle percentuali di dispersione o al numero di anni impiegati per conseguire la laurea, sicuramente importanti, non dicono nulla sulla qualità dell'insegnamento ricevuto.
      Per quello che riguarda la scuola ci sono poche misure per valutare la qualità del prodotto didattico. Una misura utile sarebbe quella di valutare il rapporto tra scuola e territorio, avendo la prima un ruolo di punto di coagulo anche culturale per il secondo (una novità importante sarebbe, per esempio, di sapere se gli edifici scolastici sono utilizzati anche per attività non scolastiche); ma una misura come questa è fuori dai parametri tradizionali della scuola, se non altro perché finora essa si è occupata solo di giovani e non di adulti.
      Valutare la qualità del prodotto scolastico è difficile ma necessario
      Insomma, quello che voglio ribadire in questa discussione è che bisogna innanzitutto porsi le domande giuste e, quindi, non quale sarà l'autorità del preside manager, ma quali saranno i risultati da conseguire. A giudicare, però, dalla bozza di riforma degli OOCC, mi sembra che la confusione stia aumentando.
      Ultimo punto: le cosiddette figure di sistema. Nella scuola serve un'équipe che si occupi di ricerca, programmazione e gestione; per prevenire il rischio che l'insegnante più valorizzato sia quello che non sta in classe, la soluzione è nell'istituzione di semiesoneri: metà tempo in classe, metà tempo fuori di essa ma connesso con le attività scolastiche.

      Prima di dare la parola ai colleghi del gruppo d'ascolto, vorrei tentare di ricucire insieme alcuni punti degli interventi che potrebbero fare da bussola alla discussione successiva. L'ordine potrebbe essere questo:
      1) Per poter delineare l'identità dell'insegnante, un primo parametro sono i risultati - quale sapere e quanti si appropriano di tale sapere - che la scuola deve conseguire. Con tale parametro, infatti, l'insegnante deve confrontarsi per progettare l'attività didattica.
      2) Per essere protagonisti del cambiamento, gli insegnanti devono creare degli spazi per pensare insieme, in cui delineare il percorso che porta a quei risultati.
      3) In questo modo si evita il rischio che la scuola possa diventare una struttura aziendale, dei cui risultati risponde il preside-manager.
      4) Ma il "pensare insieme" serve non solo a sfatare il luogo comune che gli insegnanti non siano in grado di essere protagonisti del cambiamento e responsabili del buon funzionamento della scuola, ma anche a trovare il senso e la motivazione del loro (nostro) lavoro.


      Sandra Rebecchi
      Vorrei che si cercasse di capire meglio una contraddizione che noto nell'attuale situazione. Da una parte, c'è il rischio che venga annullata la specificità della scuola e svuotato il ruolo dell'insegnante come soggetto responsabile che decide; dall'altra, si tende a chiedere sempre di più a noi insegnanti: dobbiamo saper trattare problemi psicologici ed essere animatori culturali per interessare e coinvolgere gli alunni; siamo ritenuti responsabili di fenomeni sociali. I genitori ci delegano anche la proposizione di un modello di rigore che loro non sanno imporre e ci ritengono perfino responsabili del tempo libero dei loro figli. Tutte queste richieste delineerebbero una sorta di professione senza limiti mentre, d'altro canto, servono competenze specifiche sempre più definite. Insomma, quali sono i confini della nostra professione? Dov'è che dobbiamo fermarci?

      Sandra Magistrelli
      Dei tre aspetti che definiscono lo stare in classe: contenuti, metodi, relazione, quest'ultimo è quello più trascurato dalla riflessione collettiva. Ma il rapporto che si instaura tra i docenti e i ragazzi è fatto sia di quello che è scritto nel contratto sia di quello che non si dice, cioè di quel substrato affettivo - che supporta tutto il lavoro - che è la comunicazione tra le menti.
      La professionalità docente è fatta di competenze e di "indicibile"
      Questa componente resta perlopiù in ombra, ma non dovrebbe essere così, perché in un momento "catastrofico" come questo, tanto più è necessaria un po' di luce; anche perché, quando i "non detti" sono troppi, il disagio aumenta.
      Anni fa un tentativo di riflessione è stato fatto dal gruppo di Follia docente, il cui assunto - assai discutibile - era che insegnare fa male alla salute mentale. Dopo non c'è stata ricerca su questo. Ma le domande restano ancora aperte.
      Che tipo di rapporto è quello che si instaura tra alunni e docenti? Che cosa vogliono i ragazzi da noi oltre a quanto socialmente dichiarato? Questa mi sembra una pista per pensare insieme.

      Erica Ghini
      L'insegnante viene visto come controparte dall'istituzione (spreca soldi dello Stato), dai genitori (che non sono mai soddisfatti) e dagli alunni (a causa della nostra funzione valutativa).
      Esistono due tipologie di insegnanti, diffuse soprattutto nella scuola dell'obbligo: l'insegnante che ottiene risultati perché ci mette l'anima, e l'insegnante - soprattutto donna - "indomita", che tiene a essere riconosciuta come persona che sa e a tutelare i suoi diritti.
      La gestione della vita scolastica risente del vuoto causato dal ruolo che nei fatti svolge il dirigente della scuola, il quale ha perso il potere burocratico che aveva un tempo, ma non è ancora in grado di assumersi responsabilità effettive e di dirigere. Ma questo vuoto non può essere colmato dalla sua metamorfosi in manager.

      Elvira Federici
      Parto dal problema della diversità generazionale: le nuove generazioni sono diverse da quelle per le quali la scuola è stata pensata e sono portatrici di saperi spuri. Come ci si misura con essi? E non mi riferisco solo alla cultura della marginalità ma anche ai cambiamenti imposti dalla multimedialità, al collocarsi dei giovani dentro lo spazio e il tempo con una simultaneità estranea a noi che, invece, siamo portati a storicizzare, a dare profondità. Quindi un primo problema su cui riflettere è la pluralità dei luoghi e dei soggetti che producono cultura: non essendo più la scuola l'unico luogo in cui si fa cultura, in che cosa consiste la sua specificità? Che cosa la differenzia dagli altri luoghi?
      Secondo problema: il cambiamento catastrofico per cui l'insegnante sta perdendo la fisionomia che aveva (da lavoratore dipendente a lavoratore subordinato). Io non condivido il pessimismo di Mauceri, perché non è detto che il cambiamento sia necessariamente in peggio rispetto al passato; a me non pare, infatti, che prima nella scuola si esercitasse davvero la libertà d'insegnamento. Questa non può essere disgiunta dall'assunzione di responsabilità che, essendo responsabilità verso i risultati, deve essere costruita attraverso una rete di relazioni significative nella scuola e fuori della scuola, altrimenti i risultati non ci saranno. Insomma, il nodo
      La specificità della scuola: responsabilità condivisa e scambio intergenerazionale
      della responsabilità, sia del singolo sia della scuola, è ineludibile. Per questo è necessario mettersi attorno a un tavolo per pensare in comune. Questa potrebbe essere una delle cifre di riconoscimento della scuola: identità = responsabilità condivisa.
      L'altro elemento di identità della scuola è il passaggio tra le generazioni. Non c'è nessun altro luogo in cui la relazione tra le generazioni è centrale.
      Se si insiste sulla responsabilità condivisa e sull'importanza della relazione forse ci sono più cose positive che possiamo raccogliere da questo cambiamento, piuttosto che negative.

      Rosalba Conserva
      Due atteggiamenti caratterizzano oggi la scuola: un atteggiamento conservatore, di chi pensa che per far andare bene le cose devono cambiare gli studenti, e un atteggiamento progressista, di chi pensa che devono cambiare gli insegnanti. Questi due atteggiamenti fanno opinione, ma fra questi ci sono gli insegnanti che insegnano veramente e pensano che devono cambiare tutti e due. Ma loro non fanno clamore.
      Mi ha colpito di Onofri l'accenno alla figura del maestro trasparente che vive in solitudine e ciò mi ha fatto pensare alla "vocazione", parola che, bandita nel '68, oggi non fa più paura. Analogamente alla penalizzazione degli studenti più bravi, c'è quella dell'insegnante che non appare.
      Quello che manca è un modello: nella scuola è venuto meno il rispetto di questa trasparenza, delle qualità di coerenza, rigore, ecc., valori difficilmente misurabili perché sfuggono ad analisi di tipo quantitativo.

      Lina Grossi
      La crisi dell'insegnante è crisi di professionalità, una professionalità poco riconosciuta e, in qualche caso, poco adeguata alla nuova fisionomia della scuola.
      Vorrei soffermare l'attenzione sulla questione dell'affettività: un insegnante comunica agli studenti la propria affettività nei loro riguardi quando considera il suo lavoro come una professione (e non una missione). Quando riesce a ottenere risultati dando agli studenti la consapevolezza di apprendere, quando comunica il suo desiderio e la sua aspirazione alla crescita individuale e culturale; in quel momento riesce a coniugare professionalità e affettività..
      Per questo c'è bisogno di definire il bagaglio delle competenze che deve possedere e saper trasmettere.

      Silvestra Del Lungo
      La libertà d'insegnamento prevede che ci sia la possibilità di fare delle scelte e l'assunzione di responsabilità prevede alto senso civico. Ma alla base della professione docente c'è una formazione tale da consentire l'una e l'altra?
      Finora non c'è stato controllo del lavoro dell'insegnante e questo ha frustrato chi inseguiva un profilo alto di libertà, professionalità, responsabilità. Io osservo oggi che laddove si costituisce un gruppo di insegnanti attivi, che sta dalla parte dei ragazzi in modo serio e professionale, si opera una frattura vera nel corpo insegnante: quel pensare insieme mi pare oggi impossibile più di prima, anche perché i capi d'Istituto non sono in grado di "assorbire" la qualità. Invece mi sembra importante definire la cultura professionale dell'insegnante (competenza, relazione, visione della società).

      Dopo questo giro di riflessioni e domande, si potrebbe provare a fare uno sforzo di sintesi per individuare alcuni parametri utili a definire l'identità dell'insegnante.

      Corrado Mauceri
      Per definire l'identità dell'insegnante bisogna partire dalla funzione istituzionale della scuola, che è nazionale: è all'interno
      Partire dalla funzione istituzionale della scuola
      di un progetto culturale nazionale che deve collocarsi l'autonomia delle singole unità scolastiche. La soluzione non sta nella competitività ma nel forte governo nazionale che si esprime attraverso un soggetto diverso dal Ministero (cui spetta una funzione di supporto e di iniziativa politica) che garantisca il pluralismo. L'insegnante non può essere un lavoratore subordinato, ma deve partecipare al processo formativo in condizioni paritarie con gli altri soggetti. Nella scuola, infatti, ci devono essere funzioni diverse ma paritarie: il dirigente ha funzione di coordinamento e di stimolo, ma non è superiore gerarchico, e il docente deve avere responsabilità definite di cui risponde all'esterno. Il problema della separazione tra funzione didattica e funzione gestionale si può risolvere introducendo la figura di un coordinatore didattico professionale che abbia fatto un concorso e che risponda per le sue specifiche competenze e non di tutto. Per questo è indispensabile rivedere gli OOCC: è l'organo collegiale a dover decidere, ad assumersi le responsabilità e a gestire.
      A me sembra, però, che le cose non stiano andando in questa direzione. Ho l'impressione che la scuola non sia protagonista del cambiamento, ma che siano altri che lo stanno realizzando sulla base di schemi diversi da quelli di cui si sta discutendo qui e seguendo modelli mutuati da ambiti esterni alla scuola. Per esempio, con l'esaltazione della figura del dirigente, presente nell'autonomia, il ruolo del docente viene ridotto nei termini dell'adempimento e dell'esecuzione. Per questo dubito che nel processo di innovazione in atto ci sia effettivamente la possibilità di esprimere responsabilità condivisa, come affermava prima Federici.
      Rispetto alla necessità di definire i risultati per poter valutare la scuola, sono d'accordo con Luzzatto, ma finora i parametri individuati sono estranei al fare scuola e senza parametri efficaci c'è il rischio che la valutazione dei risultati si trasformi solo in forme arbitrarie e approssimative di controllo.

      Sandro Onofri
      Quanto affermato da Mauceri sulla deresponsabilizzazione dell'insegnante, ridotto a lavoratore subordinato, a me pare sia già nell'aria, perlomeno per gli insegnanti precari; perciò ritengo che questo debba essere un primo terreno di impegno.
      Un altro è quello relativo alla valutazione dei risultati
      La funzione docente è legata al modello di scuola
      da raggiungere. Finora i messaggi che hanno fatto opinione sono quelli della Confindustria, più preoccupata della formazione professionale che di quella culturale. Se dovesse affermarsi questo punto di vista, nella scuola ci si preoccuperebbe di più della velocità di apprendimento; ma i risultati, allora, sarebbero meno soddisfacenti perché oggi i ragazzi, tanto più in periferia, hanno problematiche che richiedono tempi più lenti.
      Un'ultima considerazione: quell'autorità di controllo che Mauceri identificava in un'organizzazione statale io la vedrei in una struttura territoriale che conoscesse bene le esigenze antropologiche, culturali ed economiche del territorio.

      Serena Dinelli
      La ricchezza di temi affrontati oggi costituisce un piccolo aperitivo della complessità della riforma, sia del positivo che del negativo in essa contenuti.
      Nelle situazioni di cambiamento ci sono sempre due possibilità: di "cascare dal piatto" o di realizzare cambiamenti positivi. Il cambiamento implica sempre dei rischi - come quelli sottolineati da Mauceri - ma, d'altra parte, provocando rotture, costituisce anche un'occasione per ripartire dalle energie soggettive delle persone, dalla possibilità di reinvestirsi nella situazione, tirando fuori risorse che forse nella routine non possono emergere. Per questo ritengo importante che gli insegnanti sappiano costruirsi spazi per pensare insieme.
      Come psicologa attribuisco grande peso all'aspetto relazionale e affettivo, che passa non solo attraverso le competenze, ma anche attraverso dimensioni dell'"indicibile"- di cui parlava Magistrelli - e i piani per l'aggiornamento e la formazione degli insegnanti debbono tenerne conto.
      Rispetto alla valutazione dei risultati, vorrei mettere in guardia dai risultati falsi, perché oggi molte famiglie hanno una cultura che dà valore al "fiocco rosso" delle attività, alle apparenze. Gli insegnanti, allora, dovrebbero
      Contro la cultura del "fiocco rosso" far capire cosa significa crescere
      fare una battaglia per far passare il senso profondo di che cosa significa crescere. La battaglia non è facile, perché la nostra società tende a mettere in secondo piano la persona in quanto tale. D'altra parte anche le istituzioni non funzionano a pezzi ma come sistemi di relazioni affettive, come sistemi mentali che pensano e si trasformano, e quindi sono morte se al loro interno non si svolgono queste funzioni vitali, tanto più quando si ha a che fare con persone che crescono. Rendere vitale un'istituzione significa creare spazi di condivisione fra persone.

      Giunio Luzzatto
      Considerare come elemento di valutazione del funzionamento di un'unità scolastica l'attività di aggiornamento presuppone che si consideri il risultato dell'aggiornamento, vale a dire delle modificazioni apportate all'insegnamento, altrimenti non ha molto senso. Bisognerebbe valutarne l'efficacia non in termini quantitativi: indicare nel Pof (Piano dell'offerta formativa) numero e titoli delle attività di aggiornamento non è sufficiente.
      Una questione fondamentale, che tocca la motivazione degli insegnanti e contiene i problemi emersi in questo dibattito (rapporto con il dirigente, rapporto tra lavoro in classe e attività di partecipazione al lavoro collegiale), è quella dello stato giuridico, questione che non può essere affrontata solo per via contrattuale. Ad esempio, bisognerebbe istituire figure professionali diverse (insegnanti a tempo pieno o parziale) che rispecchino i differenti modi di operare della funzione docente. Tra gli insegnanti ci sono
      Rivedere lo stato giuridico
      le madri di famiglia o i professionisti, per i quali lo stipendio serve alla pensione ma l'attività vera la svolgono nello studio privato; e ci sono persone per le quali l'attività scolastica rappresenta il centro del loro impegno e la sede fondamentale della loro realizzazione. È giusto, quindi, prevedere un tipo di stato giuridico e una retribuzione diversificati. Questo problema va affrontato alla radice, non limitandosi a qualche contentino o ritocco. Poiché accanto all'orario frontale c'è il lavoro di programmazione e collegiale, che è ineliminabile, la riduzione di orario per alcuni dovrebbe consistere nella diminuzione del numero di classi. Un altro criterio di diversificazione potrebbe essere quello di tener conto dell'onere delle prove scritte.
      Rispetto al ruolo del dirigente sono emersi qui pareri diversi. Il mio è che il dirigente, se ha qualità dirigenziali, necessariamente crea un'équipe; anche in una logica aziendale è così perché, diversamente, crea il vuoto intorno a sé. Ma il problema vero - lo voglio ribadire - è quello di definire i risultati su cui la scuola deve essere misurata. Uno dei parametri riguarda il rapporto con il territorio. Per fare un esempio: in una zona d'immigrazione un criterio da considerare può essere quello del tipo di attività realizzate dalla scuola per favorire l'integrazione tra diverse provenienze. Ma in un territorio con diverse caratteristiche questo parametro non ha senso perché le aspettative sono diverse.
      Ovviamente sono indispensabili obiettivi e regole nazionali, non vaghi e generici ma precisi; tuttavia serve anche, per rompere l'autoreferenzialità, una maggiore contestualizzazione della scuola, un feed back dal tipo di utenza territoriale.
      Se si volesse cercare nelle attuali scelte del Ministero in merito ai concorsi a cattedra un segnale per essere ottimisti e fiduciosi nel futuro, forse rimarremmo delusi. Infatti, tra i criteri di valutazione dei concorsi, è stato dato un peso considerevole agli anni di precariato; in questo modo il doppio canale salta, così i giovani e il merito sono sacrificati.