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    mensile del centro di iniziativa democratica degli insegnanti

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      Far tesoro dell’esperienza: l’esame di licenza media - di Luciana Scarcia
      Sommario: È auspicio del legislatore che la riforma degli esami di Stato inneschi processi innovativi più profondi. Per garantire gli esiti desiderati un po' di storia può tornare utile. Che effetti ha avuto sul funzionamento dell’attività didattica la riforma degli esami di licenza della scuola media del 1981?

      I nuovi esami di Stato recepiscono le più recenti acquisizioni culturali nell’ambito delle teorie dell’apprendimento e pedagogiche: il superamento di visioni settoriali del sapere a favore della trasversalità delle conoscenze; la valorizzazione della dimensione attiva dell’apprendimento (capacità di organizzazione delle conoscenze, di collegamento e di elaborazione personale); il risalto dato alle competenze comunicative; l’esaltazione della capacità di progettazione e di scelta degli insegnanti.

      A ben vedere la storia recente, la scuola italiana non è nuova all’accoglimento di novità culturali e pedagogiche: la nostra legislazione, infatti, è tra le più avanzate in Europa. Ma un’altra peculiarietà della scuola italiana è anche la scarsa attenzione dell’Amministrazione - finora almeno - a verificare se e in che modo tale normativa avanzata abbia rispecchiato effettivamente o promosso cambiamenti reali nell ‘esperienza quotidiana del fare scuola.

      Il Decreto ministeriale del 1981

      A questo proposito, visto che una delle riforme più significative degli ultimi tempi è, appunto, quella degli esami di Stato e visto che l’auspicio del legislatore è che essa abbia un effetto di retroazione sull’impostazione dell’attività didattica dei Consigli di classe durante l’anno scolastico, può essere interessante prendere in considerazione l’esperienza, ormai quasi ventennale, fatta nella scuola media a seguito della riforma introdotta del Decreto ministeriale del 26 agosto 1981 sugli esami per il conseguimento della licenza.

      Anche quella riforma recepiva novità significative del mutato clima culturale. Si legge nella premessa del Decreto del 1981: "L’aspetto fondamentale di questo esame deve essere la sua caratterizzazione educativa in quanto, a conclusione della scuola obbligatoria, deve essere offerta all’alunno la possibilità di dare prova della propria capacità di rielaborazione e di organizzazione delle conoscenze acquisite, anche in vista delle scelte successive". In relazione al colloquio pluridisciplinare si affermava che esso non deve risolversi "in un repertorio di domande e risposte su ciascuna disciplina, prive del necessario organico collegamento (...)" nè "consistere in una somma di colloqui distinti: occasioni di coinvolgimento indiretto di ogni disciplina possono essere offerte anche dalle verifiche relative ad altri ambiti". Il colloquio deve svolgersi "con la maggiore possibile coerenza nella trattazione dei vari argomenti, escludendo però ogni artificiosa connessione".

      Un esame basato su un colloquio siffatto presupponeva, ovviamente, che l’alunno fosse stato adeguatamente preparato dal Consiglio di classe a fare collegamenti tra le discipline e ad organizzare con coerenza le conoscenze anche di ambiti disciplinari diversi. Così come le indicazioni sulle prove scritte, in particolare quella di Italiano, rimandavano alla capacità dei docenti di insegnare a scrivere secondo le diverse tipologie richieste, a distinguere tra "un’esposizione di esperienze personali o costruzioni di fantasia", "una trattazione di un argomento di interesse culturale o sociale" corredato di riflessioni personali, "una relazione su un argomento di studio".

      Quale nesso tra innovazione e pratica didattica

      La domanda è: in che misura quel Decreto è stato in grado di riorientare la prassi dell’insegnamento? Ha effettivamente funzionato da "bussola"?

      Certamente sì, ma solo per quegli aspetti che gli insegnanti erano già in grado di recepire, mentre per ciò che richiedeva un cambiamento più sostanziale delle loro abitudini la normativa si è rivelata insufficiente.

      Ecco alcuni esempi. Al termine della scuola media non pare che gli alunni abbiano generalmente acquisito quelle competenze che li rendano capaci di distinguere tra una relazione, un’esposizione e un’argomentazione, oppure di padroneggiare le diverse tipologie testuali relative alla scrittura di carattere personale. E questo probabilmente perché non sono stati adeguatamente preparati da una didattica della scrittura mirata.

      Infatti, nonostante alcune eccellenze e una consapevolezza accresciuta tra gli insegnanti, non è poi così praticato nella nostra scuola l’esercizio continuato della scrittura (ad eccezione forse della scuola elementare). E se questo non avviene sufficientemente, la responsabilità probabilmente va individuata in due ordini di fattori. Il primo sta nella carente preparazione professionale dei docenti in questo campo (carenza dovuta a una politica della formazione e aggiornamento scarsamente mirata alla formazione di competenze alfabetiche); il secondo risiede nel modello di organizzazione scolastica che privilegia la quantità delle conoscenze sulla qualità dell’apprendimento (elaborazione, approfondimento, riflessione), con la conseguente compressione del tempo scuola.

      Per quanto riguarda il colloquio, quello che perlopiù è successo è stato che, in assenza di un lavoro collegiale durante l’anno scolastico, alcuni docenti del Consiglio di classe (di Lettere o di Scienze matematiche) si sono incaricati di dare agli alunni indicazioni per la preparazione di "tesine" (spesso intese come alternativa a una ricapitolazione del lavoro svolto) o di percorsi costruiti su artificiosi collegamenti fra discipline. Non sembrerebbe perciò essersi consolidata, in generale, all’interno del Consiglio di classe una prassi tesa al lavoro d’équipe e alla preparazione degli alunni secondo un’ottica effettivamente inter o pluridiscipinare.

      Le riforme richiedono elaborazione collettiva

      Nonostante la riforma degli esami di Licenza, nonostante i Programmi del 1979 che introducevano concetti importanti come trasversalità, operatività, interdisciplinarità, nonostante i numerosi interventi normativi che regolamentavano strumenti e modalità di valutazione, restano ancora sul tappeto i problemi e i limiti di un modo di lavorare sostanzialmente individualistico, non sostenuto da un progetto condiviso, e del carattere episodico delle iniziative di formazione e aggiornamento professionale degli insegnanti. Insomma, restano dei problemi su cui bisogna ancora lavorare sia "dal basso" attraverso l’impegno dei docenti nelle singole scuole dell’autonomia sia "dall’alto" con interventi sistematici. E questi problemi sono - ancora una volta - di ordine culturale e organizzativo: il rapporto tra discipline/contenuti e la formazione di competenze trasversali; i tempi del fare scuola: troppe materie e poca elaborazione personale; la creazione di uno stile di lavoro collegiale basato su un progetto dei cui risultati si condividono le responsabilità.

      La conclusione, insomma, è che riforme coraggiose di "pezzi" del sistema scolastico sono sicuramente da accogliere con favore (anche in virtù di una considerazione realistica dei tempi di funzionamento della vita politica italiana e della capacità di Governo e Parlamento di costruire sintesi politiche); ma, dovendosi esse collocare in un sistema con una sua storia e con abitudini consolidate, è necessario tener conto di questo e delle precedenti esperienze di riforma. Forse, in questo modo, diminuisce la fiducia ottimistica che singoli atti, per quanto significativi, inneschino automaticamente processi di riforma più profondi, ma cresce la consapevolezza del lavoro collettivo che è di fronte e, di conseguenza, cresce anche la credibilità dei riformatori. Per usare una metafora, il faro orienta i naviganti se questi sono provvisti di strumenti e competenze utili alla navigazione.