insegnare
    mensile del centro di iniziativa democratica degli insegnanti

      il sommario - l'archivio - la redazione - gli abbonamenti

      Le città invisibili - Dei numeri, delle figure e di altro ancora - di Giuliano Spirito
      Si può insegnare matematica e vivere felici. A condizione, però, di evitare accuratamente di porsi alcune domande e di effettuare un certo tipo di verifiche.

      Quali sono le domande "rischiose" e le verifiche sconsigliate? Quelle che hanno a che fare con l’effettivo livello di controllo degli allievi sulle nozioni, specialmente se fondanti, della disciplina; e quelle che indagano sul senso (semantica sottostante, valenze e limiti, ambiti di validità, ecc.) dei formalismi e delle tecniche operative, sia pure di quelle più abituali. Ogni incauta esplorazione di questi territori conduce inesorabilmente a delusioni profonde e crisi di identità irreparabili.

      Dunque, finché è possibile, si consiglia – allo scopo di preservare autostima e equilibrio psichico – la massima prudenza… Ma fino a che punto ci si può spingere in questa incresciosa commedia degli equivoci (capacità di svolgere più o meno faticosamente esercizi di routine uguale possesso degli elementi fondamentali che ispirano la costruzione matematica), commedia degli equivoci in cui sono attori – e complici – docenti e discenti? Forse è venuto il momento di azzardare una riflessione impietosa e radicale: la sensazione che l’insegnamento della matematica, così come lo pratichiamo, manchi gran parte dei suoi potenziali appuntamenti culturali spinge in questa direzione; il dibattito sui saperi e sul riordino dei cicli fornisce un’occasione, forse irripetibile, di ripensamento.

      E allora cominciamo dall’inizio. E l’inizio non può che essere: qual è l’oggetto della matematica? Nella percezione diffusa – tra i non matematici, e, qualche volta, persino tra coloro che la matematica insegnano! – gli oggetti della matematica, almeno della matematica elementare, sono i numeri e le figure. E così è stato per secoli, anzi per millenni. Oggi, però, questa definizione risulta fortemente incompleta, persino fuorviante. Certo: ci sono ancora i numeri, e ci sono pur sempre le figure; ma i protagonisti non sono solo loro. La matematica del Novecento – e almeno nominalmente, persino la matematica scolastica – è anche algebra astratta (e dunque studio dell’organizzazione di insiemi non necessariamente numerici), logica matematica (e dunque il problema della verità, della coerenza, della deducibilità), informatica (e dunque la questione della definizione di grammatiche atte a generare linguaggi artificiali), probabilità (e dunque analisi dello spazio degli eventi). Quindi non più solo numeri e figure, ma anche, per esempio, stringhe di puri simboli, parole, valori di verità e così via.

      Accanto a questa moltiplicazione degli oggetti della matematica, si è poi registrato un progressivo spostamento di accento dallo studio di proprietà di singoli oggetti o di classi di oggetti all’indagine sulle proprietà delle relazioni che intercorrono tra oggetti o classi di oggetti. Lo slittamento del punto di vista è egregiamente esemplificato dalla riorganizzazione della geometria che ha dato luogo alla cosiddetta geometria delle trasformazioni, dove il criterio-guida della classificazione diventa l’analisi di ciò che muta e di ciò che è invariante nel momento in cui una figura è sollecitata a un movimento o a una deformazione, trasformandosi in una nuova figura. Cosicché, a ben pensarci, avviene che le relazioni tra singoli oggetti o classi di oggetti divengano esse stesse l’oggetto privilegiato del sapere matematico.

      La consapevolezza della ricchezza degli oggetti della matematica, al di là di quelli tradizionalmente riconosciuti come tali, è forse il primo prerequisito per avviarsi sulla strada di un rinnovamento radicale della didattica della matematica. Infatti è a partire da essa che scaturisce l’esigenza di cimentarsi davvero con la complessità del sapere matematico, evitando di marginalizzare le tematiche che non appartengono al corpus storico della disciplina; purché, ovviamente, si eviti di procedere con una logica "aggiuntiva", di pura giustapposizione, e si colga piuttosto l’occasione per una riorganizzazione complessiva del curricolo. Il che significa, tra l’altro, mettersi nell’ottica di operare scelte; ma di questo in un’altra occasione…

      P.S. Perché intitolare questa rubrica le città invisibili? Perché le città invisibili costituiscono un’efficace metafora delle costruzioni della matematica: come il Marco Polo di Calvino dà forma, per il suo attento e critico interlocutore, a immagini di città che hanno la qualità ineffabile e suggestiva del sogno, ma che sono anche tentativi di dare ordine e senso al magma delle esperienze, così la matematica elabora affascinanti edifici mentali, puri luoghi dello spirito, con un rapporto ricco seppure controverso con la realtà.