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La lunga attesa
di Sofia Toselli

Riforma della riforma: si torna al vecchio, ma non è solo la riproposizione dell'esistente.

Il tempo passa e i Governi si avvicendano. E mentre l'Europa, inaugurata la moneta unica, prepara la Convenzione per le riforme istituzionali, l'Italia non riesce ancora a darsi una riforma della scuola, rimasta ferma a Gentile.
Eppure le ragioni che da troppo tempo avrebbero imposto una trasformazione profonda del nostro sistema di istruzione rimangono tutte lì, inalterate: i dati sulle percentuali dei diplomati, sulle dispersioni e sugli abbandoni (specie nel critico passaggio tra scuola media e superiore); la labilità e la debolezza delle conoscenze apprese (benché il nostro sistema scolastico sia fra i più lunghi del mondo!); lo straordinario aumento delle conoscenze in ogni settore del sapere; lo sviluppo delle tecnologie (e dunque l'urgenza di rinnovare il sapere scolastico unitamente alla necessità di dare a tutti un più solido bagaglio di conoscenze e competenze), sono ragioni che hanno diffusamente - e non da ora - fatto crescere, anche nel nostro Paese, la consapevolezza che la scuola e la formazione professionale debbano essere riformate per mettere i giovani in condizione di fronteggiare le trasformazioni sociali, tecnologiche e produttive.
Lo stesso ministro Moratti, già nelle dichiarazioni programmatiche alla Camera, di queste ragioni si era fatta portatrice, tanto da argomentare la sospensione della riforma dei cicli con la necessità di verificare se le soluzioni proposte dal precedente Governo fossero le più condivise, dentro e fuori la scuola, e le più adatte alle esigenze del Paese.
La scuola - ha sostenuto in più occasioni il Ministro dell'istruzione - è troppo importante per far partire una riforma che non sia la migliore possibile: la sfida perciò valeva l'attesa!
E mentre la scuola rimaneva nel guado, al ministero si lavorava alacremente e nel più assoluto riserbo per approntare materia sufficiente (studi e sondaggi) capace di orientare il ministro sulle decisioni politiche da prendere.
Finalmente l'11 gennaio il ministro Moratti presenta la bozza di disegno di Legge al Consiglio dei ministri: "Norme generali sull'istruzione e livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale".
Da non credere: la proposta ripropone esattamente l'esistente! Con qualche peggioramento però.

    1) L'anticipo di qualche mese dell'avvio della scuola elementare - che non risolve il problema dei diplomi a 18 anni, né quello della cosiddetta "onda anomala", la quale inizierebbe così addirittura dal 1° anno della scuola elementare -, destruttura il percorso, pedagogicamente consolidato, della scuola dell'infanzia: con buona pace di tutte le dichiarazioni fatte in precedenza circa il valore e l'importanza della scuola dai tre ai sei anni.
    2) Le indicazioni sulle finalità della scuola primaria, quale "l'acquisizione e lo sviluppo delle conoscenze e delle abilità di base fino alle prime sistemazioni logico-critiche" e quelle della scuola secondaria di primo grado là dove si dice che la scuola media "cura la dimensione sistematica delle discipline e sviluppa, progressivamente, le competenze e le capacità di scelta individuali fornendo strumenti adeguati alla prosecuzione delle attività di istruzione e di formazione", sono indicazioni che, nella loro schematicità e semplicità, ripropongono un impianto curricolare precedente ai programmi del 1979 per la scuola media e del 1985 per la scuola elementare.
Il ministro Moratti infatti non ha tenuto conto che la scuola di questo Paese è molto più avanti di quanto verrebbe proposto nel suo disegno di legge.
Quando nella scuola sono state introdotte riforme o innovazioni (i programmi della scuola media, della elementare, dell'infanzia, il progetto Brocca), queste portavano a sintesi le esperienze migliori che circolavano dentro le scuole: la spinta all'innovazione è sempre venuta dalla scuola stessa. Nella proposta del ministro Moratti invece si azzera quanto della migliore tradizione scolastica è divenuto progetto, patrimonio consolidato di riflessione e di azione didattica.
    3) La scelta al termine della scuola media fra due distinti percorsi, quello dei Licei e quello dell'Istruzione e della Formazione professionale, riporta a una idea di scuola e di cultura che una volta si definiva reazionaria e classista (e qui don Milani insegna davvero!).
Nascosta dietro a una ipotetica "libertà di scelta" a seconda delle individuali vocazioni - non tutti sono nati per studiare -, la scelta dei due percorsi al termine della terza media chiede alla società e alla scuola di prendere atto delle differenze sociali e culturali che esistono in "natura" per sancirne la inamovibilità.
Eppure non è difficile capire che si è liberi di scegliere fra diverse opportunità formative quando si possiedono strumenti culturali adeguati al "peso" della scelta che si compie: e quella di decidere del proprio futuro è probabilmente la scelta "più pesante" che ciascun individuo si trova a fare nel corso della vita.
Allora c'è da pensare che la scelta precoce tra due sistemi così separati, che non risponde certamente all'aumentato bisogno di istruzione e formazione per tutti e per tutto l'arco della vita, vuole rispondere a logiche e a interessi di parte, quelle stesse logiche che fan sì che nel disegno di Legge del ministro Moratti non si faccia mai riferimento all'obbligo scolastico.

La questione dell'obbligo scolastico
Il termine - si dice - è obsoleto, meglio dire diritto-dovere all'istruzione e alla formazione (per alcuni fino a 19 anni, per altri fino a 18, per altri ancora fino a 17), ma in percorsi separati e distinti già dalla fine della terza media!.
L'obbligo scolastico - oggi di 10 anni, solo transitoriamente di 9 anni (Legge 20 gennaio 1999, n.9) - è un obbligo costituzionale, un diritto di civiltà: il termine è perciò attualissimo e richiama l'impegno della nostra Repubblica, e quindi della scuola (scuola!), a far conseguire a tutti i ragazzi e le ragazze gli stessi traguardi formativi per dare a ciascuno quella base comune di cultura e di istruzione senza la quale non c'è libertà, non c'è responsabilità, non c'è dignità.
Ed è un termine modernissimo perché risponde, o cerca di rispondere, alle complesse sfide delle società moderne, che richiedono innanzitutto un Paese più attrezzato culturalmente, più competente, più forte di fronte alle competizioni del mercato internazionale, ma anche più forte nel riaffermare i valori della vita.
Spetta allora alla scuola la responsabilità di garantire a tutti un'esperienza conoscitiva "disinteressata" e "compiuta" - che non può essere interrotta prima del biennio superiore - sulla quale poter costruire fondamenta solide per gli studi successivi, per la successiva formazione, per l'apprendimento lungo il corso della vita.
Non è una fissazione ideologica del Cidi quella di chiedere un obbligo fino al termine del biennio della scuola superiore: gli insegnanti sanno bene che l'apprendimento che serve alla vita, al lavoro, agli studi successivi deve maturare e consolidarsi attraverso l'incontro con i saperi "secondari" in una età in cui è realisticamente possibile comprendere e condividere quello che si studia. L'apprendimento, quello duraturo e costruttivo, passa solo attraverso questo tipo di esperienza e ha bisogno di tempi lunghi, non di scorciatoie: collocare perciò la scelta fra i due percorsi in una fase in cui non è ancora avvenuto il pieno consolidamento delle conoscenze e delle competenze di base necessarie, non solo lede il diritto all'istruzione - e per ciò stesso i diritti di cittadinanza - ma non fa neppure un buon servizio al mondo produttivo.
Questo fatto dovrebbe perciò preoccupare anche la parte più avanzata degli imprenditori di questo Paese: una parte di Confindustria sa bene che nella società della conoscenza il lavoro tende a incorporare sempre di più cognizioni e competenze di base forti e pienamente consolidate, senza le quali le professionalità raggiunte risulteranno sempre deboli, incapaci di tener conto dei cambiamenti di lungo periodo nel mercato del lavoro, nelle tecnologie, nella vita delle persone.
L'ultimo punto: il disegno di legge prevede che dai 15 ai 18 anni gli studenti possano svolgere la propria attività formativa con "periodi di tirocinio e stage presso le imprese": è la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, che non prevede contratti e retribuzioni come per l'apprendistato, ma semplici convenzioni tra scuola e impresa.
"Quali saranno - si chiede Nicola Tranfaglia in un articolo comparso sull'Unità - le garanzie di cui potranno disporre i giovani e la scuola medesima di fronte alla tentazione delle imprese di utilizzare la forza lavoro dei quindicenni-diciottenni per i propri obiettivi immediati e senza tener conto delle esigenze formative di quei giovani?"
Peccato! Disegnare un grande progetto di riforma sarebbe nell'interesse del Paese: i giovani, tutti i giovani, nessuno escluso, meriterebbero di più di queste soluzioni dettate esclusivamente da logiche di bottega che, proiettando sul terreno della scuola, come in altri terreni, il respiro corto di una società sempre più segmentata, danno corpo all'antica tesi di Trasimaco: "Il giusto è l'utile del più forte" (I libro della Repubblica di Platone).

numero 3/2002


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