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Scuola e cittadinanza


Meno scuola per tutti
di Benedetto Vertecchi

Fruire di un periodo consistente di educazione scolastica nella prima parte della vita costituisce oggi una condizione comune per la popolazione dei Paesi industrializzati. È il caso tuttavia di ricordare che alle origini dello sviluppo dei sistemi scolastici si possono individuare due diverse esigenze: la prima è di carattere immateriale, e costituisce una conseguenza dell’affermarsi della riforma luterana in larga parte dell’Europa del Nord; l’altra si collega ai processi di modernizzazione conseguenti alle trasformazioni sociali ed economiche indotte dalla rivoluzione industriale. Nel primo caso di trattava di stabilire le condizioni per un esercizio effettivo del diritto-dovere del cristiano di leggere e interpretare i testi sacri: l’alfabetismo veniva dunque a costituire un requisito per far parte in modo consapevole della comunità cristiana; nel secondo caso è stata invece prevalente una spinta utilitaristica, perché possedere un certo repertorio di conoscenze consentiva di godere di migliori condizioni di vita. In termini agostiniani, potremmo concludere che la spinta all’istruzione si collega ad un’ansia di cittadinanza, per la città di Dio o per quella degli uomini.
Se dalle spinte originarie passiamo a considerare le ragioni che hanno condotto, con qualche sfasatura temporale fra i diversi Paesi, al formarsi dei sistemi scolastici fra l’Ottocento e il Novecento, vediamo che l’attenzione al precisarsi di un profilo di cittadinanza ha costituito un criterio di regolazione per le scelte politiche. Il progresso dell’istruzione si è collegato di volta in volta ad obiettivi di sviluppo democratico (per esempio, in Francia dopo la Comune o nei Paesi che sono passati attraverso esperienze rivoluzionarie) o di contenimento della mobilità sociale (e questo è stato l’intento, in Italia, della riforma Gentile, riassumibile nello slogan “poche scuole, ma buone”). Tratto comune delle politiche scolastiche orientate alla cittadinanza è stato di generalizzare il possesso di un repertorio di competenze fondamentali, necessario per la partecipazione consapevole alla vita democratica dei singoli Paesi. In altre parole, allo sviluppo della scuola ha corrisposto una nozione più intensa del diritto di cittadinanza, non riducibile alla sola enunciazione di un principio, ma considerato nel suo effettivo manifestarsi in determinate condizioni storiche. Al contrario, al contenimento della mobilità sociale hanno corrisposto politiche dell’istruzione orientate alla differenziazione dei profili culturali: e ciò non solo (come è giusto che sia per consentire l’emergere degli interessi e delle attitudini individuali) in momenti terminali dei percorsi, ma in tratti precoci. Parte della popolazione è stata posta in grado di partecipare ai fenomeni in atto, e di comprenderne le implicazioni sociali, culturali ed economiche, mentre una parte più consistente è rimasta in una posizione marginale, nella quale ha subito gli effetti di decisioni che non è stata in grado di comprendere.
La questione dei due modelli dello sviluppo del sistema scolastico è quanto mai d’attualità in Italia, con il precisarsi del disegno politico della Destra. Per quasi quarant’anni, dopo la riforma della scuola media, il sistema scolastico italiano è apparso orientato, anche se con esitazioni e scelte non sempre adeguate, a una progressiva riduzione dello svantaggio sociale nell’accesso all’istruzione. Ciò ha comportato che una quota di risorse proporzionalmente maggiore che in altri Paesi è stata dedicata allo sviluppo dell’istruzione di base, al recupero degli allievi in difficoltà, all’ampliamento dell’offerta scolastica in termini di servizi. Il progetto della Destra capovolge questa concezione dello sviluppo: si prendono a pretesto i costi degli interventi nella scuola di base (a cominciare da quelli per il personale) per avviare una manovra che tende, in termini quantitativi e qualitativi, a ridurre l’offerta di istruzione. Ciò equivale ad accettare che i destini educativi della popolazione siano definiti non nella scuola, ma attraverso l’ulteriore rinforzo dei fattori del condizionamento sociale. È come dire che l’aspetto più debole della politica scolastica degli ultimi decenni, ossia l’insufficiente contrasto delle differenze che si determinano fra gli allievi in conseguenza delle condizioni socioculturali delle famiglie, viene ora assunto come criterio regolativo del funzionamento della scuola. La logica di un simile progetto non può essere individuata sul piano tecnico (del resto, le soluzioni finora annunciate hanno un che di arcaico, in palese contrasto con le linee evolutive prevalenti in campo internazionale), ma solo su quello politico: all’attenuazione dell’incidenza di un repertorio simbolico nell’istruzione di base corrisponde una minore capacità interpretativa del reale, e perciò una crescente passività nei confronti dei messaggi provenienti dai mezzi di comunicazione. In breve, siamo di fronte ad un progetto teso a realizzare una cittadinanza diminuita.

numero 1/2002


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