Professori via da quelle cattedre


IMPREPARATI, SENZA INTERESSI E CAPACITÀ EDUCATIVA, POCO CARISMATICI. UN FILOSOFO E PSICOANALISTA TRACCIA UN RITRATTO IMPIETOSO DEI DOCENTI:
"MOLTI ANDREBBERO CACCIATI". COLLOQUIO CON UMBERTO GALIMBERTI

di Roberto Di Caro L'espresso 16 ottobre 2003

Apriti cielo, a scrivere degli insegnanti ciò che tutti vedono! Che sono cioè malpagati, maltrattati, poco considerati da studenti e genitori, soggetti a frustrazione, stati d´ansia, attacchi di panico e crisi depressive, in una parola ´burnout´, scoppiati. Basata sui risultati di un´indagine della Fondazione Iard su 1.252 docenti dalle elementari alla secondaria superiore, l´inchiesta di copertina de "L´espresso" della scorsa settimana, ´È scoppiato il professore´, ha scatenato un vespaio di polemiche e dato luogo a un´interrogazione parlamentare ai ministri di Istruzione, Salute e Welfare, ispirata dai cinque grandi sindacati della scuola.

Doveroso, dunque, riprendere e vagliare prove a carico e a discarico: non ultima, una sequela di spezzoni di riforma della scuola che sembrano fatti apposta per impedire ai docenti di fare il loro lavoro. E giacché psiche e scuola è terreno minato, abbiamo interpellato Umberto Galimberti, uso a far brillare tutte le mine in cui s´imbatte nella sua attività di filosofo, psicoanalista, editorialista di ´Repubblica´ e tenutario di una seguitissima rubrica di lettere su ´D´.

Professor Galimberti, gli insegnanti la leggono, le scrivono, citano suoi brani nei titoli dei temi, s´infuriano quando li critica. Scusi, ma lei ha mai fatto scuola? Università a parte, intendo.
"Eccome. Medie, istituto tecnico, magistrali e liceo. Pubbliche e private. Per 15 anni, dal 1963 al ´79. Certo, da allora è cambiata l´intera antropologia, degli studenti come degli insegnanti".

E cos´è rimasto uguale?
"L´assoluta assenza negli insegnanti di capacità e interessi di tipo educativo. Un tempo erano almeno in grado di garantire un´istruzione, oggi neppure questo".

Una dichiarazione di guerra. Può chiarire la differenza tra educazione e istruzione?
"Istruzione è fornire un sapere, educazione è prendersi cura di processi di apprendimento individuali che confliggono con crisi adolescenziali e stati di famiglia. Infatti la scuola che funziona meglio è la elementare: perché lì chi insegna fa la mamma".

Ci pagano due soldi, replicano gli insegnanti, e pretendono che facciamo anche gli psicologi?
"Male! È proprio ciò che devono essere. Un ragazzino viene lasciato dalla morosa, patisce blocco emotivo, pensiero fisso, disistima di sé e cosa vuole che faccia, che apra il libro di fisica? Non scherziamo. Aveva ragione Freud quando, nel 1910, scriveva: ´La scuola secondaria non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppure sgradevoli, dello sviluppo´".

Facile a dirsi...
"Anche a farsi. Faticoso, semmai. A Venezia, dove insegno, io passo tutti i mercoledì dalle 15 alle 19 a seguire i percorsi d´inefficienza dei miei studenti che vanno male a un esame. Si ottengono bei risultati".

Mica gli farà l´analisi?
"Intanto gli insegno un metodo di studio. 1. A leggere un libro; 2. Rileggerlo riassumendo per capitoli, così impari il linguaggio e la sintesi; 3. Fidarti di te e studiare i riassunti. Io l´ho imparato a vent´anni al Goethe Institut di Monaco. Ma non ho mai incontrato un insegnante che spiegasse ai suoi allievi come si studia".

Va bene, dovrebbero essere psicologi e non sanno né vogliono diventarlo. E poi?
"Gli studenti imparano per fascinazione, per coinvolgimento emotivo. Lo sapeva già San Paolo: ´Non intratur in veritatem nisi per caritatem´, non si accede alla verità se non attraverso un contesto d´amore. Vale per fisica o biologia, mica solo per le scienze umane. Dunque, se un professore non è carismatico non può trasmettere alcun sapere: mi spiace, ma la cultura adolescenziale funziona così".

Cosa gli facciamo, l´esame di fascino?
"Test di personalità, certo. Capacità comunicative e di comprensione. Per vedere se è abbastanza forte da reggere sessanta occhi su di lui e se è capace di seguire il percorso psicologico di un ragazzo".

E la preparazione?
"Certo, conta anche quella. Ma per come la valutano adesso, voto di tesi ed esame di abilitazione, tanto vale lasciar perdere".

Test di personalità, lei dice. Ma quali? Ce ne sono dozzine. E poi chi valuta?
"Mi rendo conto delle difficoltà. In alternativa, uno lo si può far insegnare due anni e poi vedere se è bravo o no: come parla, spiega, interloquisce. In una ditta si capisce dopo tre settimane chi vale e chi no: non si sa perché si sa, ma si sa".

Chiedere un giudizio agli studenti, come già fanno in alcune scuole?
"Perché no? Se un professore è bravo, gli studenti lo dicono. All´università siamo ogni anno sottoposti al responso di cento domande rivolte su ciascuno di noi agli studenti: peccato che non sia prevista non solo la licenziabilità del docente bocciato, ma neppure la pubblicità del risultato: resta tutto nel cassetto del preside. Certo, non può essere l´unico criterio. Come disse Emanuele Severino: ´Se si lagnano che le mie lezioni sono difficili, s´arrangino´".

E chi dovrebbe giudicare? Una commissione di psicologi?
"No, lasciamoli perdere, troppo specializzati. Meglio altri colleghi, riconosciuti bravi. Il punto è che non puoi mandare in malora una generazione per conservare il posto a qualche professore".

Scusi, ma su cento insegnanti quanti ne salva?
"Ah, oggi un allievo è fortunato se nel pool di nove docenti di una secondaria ne trova uno in grado di fargli da modello nella fase in cui esce dalla famiglia e deve costruirsi un´identità attraverso il riconoscimento di qualcuno all´esterno. Questa operazione di riconoscimento è il compito dell´insegnante. Se fallisce, il ragazzo va a costruirsi la sua identità nel gruppo, nel bullismo, nelle mode, altrove".

Licenzierebbe i docenti con una personalità giudicata inadeguata a educare?
"Certo che li caccerei: se sei alto un metro e cinquanta non puoi fare il corazziere. Si salverebbero anche le loro biografie, tanto si mettono in mutua per malattia. C´è chi ha l´anima grande e comprensiva, chi rattrappita e ossessiva. Se si ammalano psicologicamente vuol dire che la loro psiche non regge la situazione: non sono adatti a fare quel mestiere".

L´indagine Iard elenca una ´lista dei dolori´ dei professori...
"Sì, l´ho vista. 55 su 100 lamentano il mancato riconoscimento sociale: non avrei dubbi, sono quelli che hanno sbagliato mestiere. Se sei bravo, il riconoscimento ce l´hai, i genitori ti apprezzano e gli alunni ti stanno dietro finché non hai ottant´anni o finché non li cacci".

Forse intendono riconoscimento della società...
"Può darsi. Ma di cosa si stupiscono, visto che la scuola è percepita come noia e depressione? Di nuovo, però, serve il dato di personalità, non gli inutili Siss, i corsi di aggiornamento varati dalla Moratti, due anni di conferenze e buon pro ti faccia".

Lagnanza numero due: classi numerose.
"Su questo hanno ragione. Perché un processo educativo abbia luogo non puoi avere più di 15 studenti per classe".

Non meno di 30, ha decretato il ministro Moratti.
"E ha così escluso la condizione di partenza dell´educazione. Complimenti!".

Vivaddio, non è tutta colpa dei prof. E gli altri spezzoni di riforma varati da centro-sinistra e centro-destra?
"Il nuovo esame di maturità con una commissione interna è una stupidaggine: o lo fai sostenere con commissari esterni o lo elimini. Ancora: i debiti si pagano subito, non con quindici giorni di recupero a settembre. E nei crediti non rientrano dipingere, suonare, fare sport o volontariato, come ha introdotto quattro anni fa una riformina di marca veltroniana".

Terza lagnanza: retribuzione insoddisfacente. Con lo stipendio che lo Stato dà a chi deve formare le nuove generazioni, educare è opera di puro volontariato.
"Sì, non possono comprarsi neanche un libro: così leggono solo quelli di testo che gli danno in omaggio. Li si selezioni con test di personalità, e li si paghi il doppio".

Quarto: conflittualità coi colleghi.
"Sospetto che quei 32 su 100 siano i bravi docenti appesantiti da una massa di inutili impegni burocratici, con la sensazione di vivere tra un branco di colleghi idioti".

Quinto: difficile rapporto con i genitori.
"Ah, lo credo. I genitori delegano tutto alla scuola salvo poi iperproteggere i figli attraverso una valanga di ricorsi al Tar. E l´insegnante, dio in cattedra per cinque ore al giorno, vive come un dramma l´ora di ricevimento dei genitori: non regge il confronto di personalità con chi è psicologicamente più attrezzato di lui".

Perché più attrezzato?
"Perché il genitore vive in una società adulta, l´insegnante in un mondo infantile che inevitabilmente lo fa regredire. Per questo me ne sono andato dalla scuola: per paura della regressione. Non ha mai badato a come parlano i professori? O con il tono sentenzioso di chi pontifica ex cathedra, o con quello caramelloso dei bambini. Mai col tono normale di una persona padrona di sé".

Il 25 per cento dichiara difficoltà nel rapporto con gli studenti.
"Almeno loro un rapporto ce l´hanno, gli altri 75 non so. Ma è difficile trasmettere sapere a una generazione che guarda sempre fuori dalla finestra, appiattita in un eterno presente, demotivata dalla mancanza di futuro, disorientata da un eccesso di informazioni non codificate via Internet e tv, povera di codici interpretativi. No, su questo esonero da responsabilità i professori: chi mai ha insegnato loro a gestire una tal ridda di contraddizioni?".

La domanda è un´altra: chi e come potrebbe insegnarlo?
"Forse una specializzazione universitaria in Psicologia dell´età evolutiva da frequentare dopo la propria facoltà, come per diventare chirurgo servono anni di specializzazione dopo la laurea in Medicina. Per testare se l´individuo ha la necessaria vocazione, passione nel gergo laico. E fornirgli le competenze psicologiche per gestire un materiale incandescente come vite e emozioni degli adolescenti".

Significa bloccare per tre anni l´accesso all’insegnamento.
"Significa procedere nel nostro paese alla costruzione di una classe insegnante. Compito, mi pare, non più prorogabile".


-------------------------------------------------
15 anni di precariato, 2 di psicofarmaci
Parla Francesca S., insegnante milanese di 43 anni, vittima del burnout
di Fiamma Tinelli


Appartamento milanese, un sabato di ottobre. I fogli stampati da Internet occupano il tavolo in ordine sparso, in mezzo a pacchetti di sigarette e qualche tazzina da caffè. Le pagine sono molte, l´argomento uno solo: "Quando ho sentito parlare di burnout mi sono messa a fare ricerche su Internet". Francesca S., 43 anni, vicentina, docente di matematica in un istituto di Milano, ha i capelli biondi e un sorriso gentile. Si siede davanti al computer la sera, dopo cena: vuole saperne di più sullo stress che colpisce molti insegnanti. Perché nel burnout, la sindrome dei ´professori scoppiati´, lei c´è dentro fino al collo: prende degli psicofarmaci, è in cura da uno psicoterapeuta.
Com´è cominciata? Con 15 anni di precariato, forse, che metterebbero l´ansia anche a un monaco buddista. Ma gli anni bui, per Francesca, sono stati gli ultimi tre. "Insegno in un istituto tecnico industriale, in periferia. Stipendio base: 1.180 euro al mese, perché il calcolo del precariato non è ancora stato fatto, pur essendo passata di ruolo quattro anni fa. Insegnare mi è sempre piaciuto. Quello che non va è la scuola per come è organizzata: sorda, immobile, ipocrita", racconta lei, cercando la posizione giusta sul divano. La tensione comincia a farsi sentire durante l´ultimo incarico prima dell´attuale, in una scuola fuori città. Pendolarismo, un preside "che urla invece di parlare", le prime notti in bianco: "Non mi addormentavo prima delle tre, mi sono guardata per settimane tutti i film della notte. Passerà, pensavo".
Nel 2001, il trasferimento a Milano. Dovrebbe andare meglio, ma non è così. "La mia è una scuola difficile", dice, mentre le mani giocano con l´accendino. "I ragazzi hanno alle spalle famiglie fantasma, gira anche della droga. Ho cercato di parlarne con i colleghi, il preside, ma loro si chiedono solo: ´facciamo i trimestri o i quadrimestri?´. Di come stanno gli studenti, delle responsabilità sempre maggiori della nostra categoria, niente". Francesca parla con amarezza, ma ti guarda dritto negli occhi: si vede che è una donna combattiva. "Pochi mesi dopo che ero arrivata, era dicembre, una ragazza si è ammalata: meningite. Vengono controllati i suoi compagni di classe, ma il preside dà direttive precise: la cosa non deve trapelare. Non voleva si parlasse male della ´sua´ scuola. Il nostro istituto conta centinaia di studenti. Si incontrano nell´intervallo, si vedono fuori. L´ho fatto notare. E sono stata isolata. Completamente".
Una mattina di febbraio, Francesca sale in macchina per andare al lavoro. A metà strada comincia a mancarle il respiro, la vista si annebbia, il cuore batte all´impazzata. Attacco di panico in piena regola. Le settimane successive, gli attacchi continuano. Così, si rivolge a uno psichiatra. "Mi ha prescritto dei farmaci antipanico, un antidepressivo. E mi ha indirizzato verso un bravo psicoterapeuta", racconta mentre si accende un´altra sigaretta. "Guardi che non sono la sola: una mia collega mi ha confidato di essere arrivata tardi il primo giorno di scuola per una crisi di pianto irrefrenabile". Parlarne apertamente, però è impossibile. "Sa quanti insegnanti sono in crisi? Ma nessuno lo ammette, altrimenti i colleghi ti trattano come fossi appestato. E per il resto del mondo, siamo quelli che ´lavorano solo mezza giornata´".

Poche settimane fa, Francesca trova in sala professori un volantino appiccicato con lo scotch. "Parlava di prevenzione al burnout. Non ho mai scoperto chi l´avesse appeso, di certo non la segreteria. Sono andata da loro per chiedere se c´era una qualche circolare sull´argomento: non sapevano neanche di cosa stessi parlando". Prima di quel giorno, Francesca non sapeva che il suo malessere avesse un nome. "Ora sto meglio, la psicoterapia fa bene. Ma finché non si smetterà di far finta di nulla, la stabilità della scuola sarà a rischio".