da Il Corriere della Sera


Il criminologo: «Aiutate la fantasia dei ragazzi, non regalate videogiochi violenti»

I piccoli bulli delle elementari: vittima quasi un bimbo su due

Fenomeno in crescita. A Milano e Napoli il maggior numero di episodi


ROMA - Se la prendono con il più debole. Quello che non ha lo zainetto giusto, quello con gli occhiali spessi che parla poco, quello che durante la ricreazione mangia un panino con la sottiletta e non la pizzetta rossa del bar davanti a scuola. Quello che a pallone finisce sempre in porta perché «tu non ci sai fare». Se la prendono con il diverso. E a quell’età essere cattivi è facile, quasi naturale senza quei filtri, dall’educazione al semplice accontentarsi del quieto vivere, che negli adulti frenano gli istinti e a volte anche i desideri. E’ un fenomeno in crescita quello del bullismo tra i banchi di scuola. Dalla media delle tante ricerche condotte su base locale viene fuori che il 41 per cento dei bambini delle elementari ne è stato vittima almeno una volta. Alle medie si scende al 36 per cento, e in tutte e due i casi i valori più alti si registrano a Milano e Napoli. Uno dei lavori più recenti, realizzato in provincia di Trento dall’associazione Villa Sant’Ignazio, ha preso in esame le scuole superiori: 50 per cento. «Anche se a quell’età il bullismo non esiste più», dice Carlo Serra, professore di Criminologia minorile all’Università di Roma 3, che all’argomento ha dedicato più di un libro.

L’ETÀ - Di bullismo, secondo gran parte degli esperti, si può parlare tra i sei e i dodici anni, il periodo delle elementari più i primi due anni delle medie. Passata quella soglia si passa alla devianza vera e propria. E la differenza non è da poco: «Nel primo caso - spiega Serra - siamo davanti a episodi sporadici, nel secondo a un comportamento costante, consolidato. Ciò non toglie che chi a dieci anni gioca a fare il piccolo boss a quattordici possa diventare deviante e a 25 magari un criminale. Possa, ripeto, ma non è detto che vada a finire proprio così». Secondo uno studio fatto in Danimarca nel 1997, il sessanta per cento dei bulli, una volta cresciuto, ha compiuto crimini più o meno gravi. Non solo: il 40 per cento è stato giudicato da un tribunale penale almeno tre volte. Calma però, la Danimarca è messa peggio di noi: come in tutti i Paesi scandinavi, i bambini sono molto autonomi e questo è un terreno fertile per le piccole gang.


L’ORIGINE - Da cosa nascono questi atteggiamenti? Alcune cause sono quasi scontate: la televisione violenta, i videogiochi violenti, mamma e papà che non ci sono mai e non hanno tempo di trasmettere modelli positivi. Non a caso gli episodi sono più frequenti nelle zone degradate dove spesso tutto questo pesa di più. Ma c’è anche un altro elemento da tener presente. «I bambini - osserva Serra - hanno bisogno di affermare la propria presenza. A pochi mesi lo fanno sul piano fisico e toccano tutto quello che capita a tiro. Quando diventano più grandicelli "io ci sono" lo dicono sul piano relazionale: vogliono accorgersi e dimostrare che i propri comportamenti cambiano i comportamenti degli altri. E fare il bullo, purtroppo, funziona».


LE SOLUZIONI - Cosa può fare un genitore o un insegnante? La cosa più difficile è accorgersi di cosa sta succedendo perché spesso il bambino si vergogna, a volte viene minacciato, quasi sempre non dice una parola. Proprio il silenzio deve essere un campanello d’allarme. «Con chi è stato vittima di questi episodi - spiega Serra - bisogna fare due cose: minimizzare il singolo fatto ed esaltare le loro qualità. "Ti hanno preso in giro è vero, ma l’altro giorno hai fatto un bel gol, l’altra settimana hai preso un bel voto" e così via».
E con il bullo? «L’importante è farlo ragionare sul proprio atteggiamento. Basta un semplice trucco: dirgli che nei panni dello "sfigato" ci poteva essere lui, oppure suo fratello». Ma senza esagerare: nella maggioranza dei casi sono problemi che spariscono con la crescita. «L’importante è dare strumenti che facciano sviluppare la fantasia dei ragazzi. Al prossimo compleanno, invece del solito videogioco tutto spari e botte, regalate un bel libro di Verne».

Lorenzo Salvia

LA PSICOLOGA


«Il capo e due compagni Così si muove la banda»

Anna Oliverio Ferraris: «Lavorare su autostima e aggressività, sensibilizzare anche i testimoni»


MILANO - Chi sono i bulli? «Bambini forti fisicamente, con una famiglia repressiva o violenta alle spalle. In genere non agiscono mai da soli, ma in tre: il capo e i suoi luogotenenti». Risponde Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell’età evolutiva.
Perché si comportano così?
«Un bullo vuole primeggiare. Cerca gratificazione. Vince sugli altri con il suo comportamento, è avallato da due compagni, e allora insiste con l’unica strategia che è riuscito a elaborare».
E le vittime chi sono?
«Ne esistono di due tipi: passive e provocatrici. Le prime sono rappresentate da bambini timidi, riservati, timorosi, insicuri, spesso con una caratteristica fisica che li differenzia dagli altri: capelli rossi, orecchie a sventola, un cognome insolito. Le seconde sono i bambini molto irrequieti, irritanti, aggressivi, ma meno forti: provocano gli altri e finiscono con l’avere la peggio».
I dispetti sono atti di bullismo?
«No. È importante distinguere lo stuzzicare gli amici dal tormento vero e proprio. Il bullismo implica la persecuzione».
Sono più bulli i bambini o le bambine?
«Su questo tema qualche anno fa l’università di Firenze, in particolare la professoressa Ada Fonzi, ha svolto uno studio nazionale. L’indagine distingueva un bullismo fisico da un bullismo verbale. Di quest’ultimo fanno più pratica le bambine, con insulti o pettegolezzi che gettano discredito sulle compagne. Il bullismo fisico resta il più diffuso e i protagonisti sono i ragazzini».
La vittima non può mai avere scampo davanti al suo aggressore?
«In realtà oltre al bullo e alla vittima c’è un terzo elemento: i testimoni. Sono importanti perché dal loro intervento dipende la sorte della vittima. Non bisogna trascurarli e anzi bisogna sensibilizzarli per arginare questi fenomeni».
Come si può fare azione preventiva in classe?
«L’ideale sarebbe avere uno psicologo a scuola. In sua assenza, gli insegnanti dovrebbero sforzarsi di essere iperattenti e sensibili. Magari approfittando di un fatto di cronaca per affrontare il tema, leggendo un piccolo racconto o guardando un film da ridiscutere insieme».
Di che cosa hanno bisogno vittima e bullo?
«La vittima deve essere aiutata a sviluppare l’autostima. Il bullo a orientare la sua aggressività verso forme di gratificazioni diverse, si tratti di un’arte marziale, uno sport, o una qualsiasi attività che gli faccia riconoscere la sua potenziale creatività».

Elvira Serra

L’ORIGINE


Quell’«intimo amico» che diventa teppista solidale con il branco

di GIORGIO DE RIENZO


Benché non si trovi nei dizionari storici, «bullo» è parola antica che risale al Rinascimento. Un tal Tommaso Garzoni, grande erudito nato a Bagnacavallo, la usò in una sua opera monumentale, «La piazza universale di tutte le professioni del mondo» pubblicata a Venezia nel 1585: qui era affiancata a «bravazzi, spadaccini e sgherri di piazza». Il primo a registrare questo termine in un Dizionario è Alfredo Panzini: lo dice voce romanesca (derivata dal settentrionale «bulo») che sta per «smargiasso, bravaccio, teppista». Il significato della parola dunque si attacca all’inizio a un’idea di violenza organizzata. Poi però nel Novecento si attenua: indica per lo più soltanto un giovane arrogante, se non addirittura un gagà pacchiano. Non solo. Nel secolo scorso si trova attestato in letteratura (da Pasolini) persino un vezzeggiativo: «bulletto di provincia». Resta comunque nella parola un concetto di isolamento ed estraneità, di cattiveria o quanto meno di brutta stravaganza. Eppure il termine dovrebbe avere, secondo gli studiosi, un’etimologia gentile. Arriverebbe dal germanico dell’alto Medioevo «bule» che vuol dire «intimo amico». Tutto muta e tutto ritorna nel mondo del possibile della parola. Per come passa oggi nelle cronache questo vocabolo, l’etimologia diventa più pertinente: infatti i «bulli» vanno in «branco» e sono molto solidali tra loro nell’affrontare a muso duro gli altri. Nelle proprie azioni di «bullismo» hanno comportamenti omertosi.