Evitare la logica dell’adeguamento
formale alla norma e approfondire invece l’analisi di ciò che si
è fatto nell’ultimo anno di corso sui punti nodali dei percorsi
disciplinari realizzati.
L’esperienza del nuovo esame
di Stato ha confermato che la gestione della terza prova costituisce un
impegno particolarmente complesso da assolvere.
Se da un lato il buon senso
si è confermato guida sicura dei docenti, portandoli a evitare i
voli pindarici delle prime proposte circolate nelle scuole, dall’altro
le prove che sono state proposte hanno mostrato troppa disomogeneità.
Ne è conseguito uno squilibrio fortissimo nella difficoltà,
peraltro ben evidenziato dall’analisi degli esiti condotta a livello nazionale
dal Cede, che ha registrato una distribuzione dei risultati inversa a quella
gaussiana prevista, con la maggioranza dei punteggi corrispondente ai valori
più alti e più bassi.
È utile interrogarsi
sul perché di queste difficoltà, non tanto – non solo – per
migliorare tecnicamente la prova d’esame, quanto perché le riflessioni
necessarie rimandano, con una necessità nuova, al problema della
qualità dell’intero percorso scolastico e del lavoro docente.
Carattere inter-pluri-disciplinare
della prova
La natura della terza prova
è, come sappiamo, pluridisciplinare. Le commissioni potevano interpretare
il mandato in maniera diversa, tuttavia non è una forzatura individuare
due scelte generali che hanno guidato la costruzione delle verifiche. Da
un lato si sono cercati testi o spunti interdisciplinari da cui derivare
domande sui domini disciplinari coinvolti. Nell’altro si è scelta
la strada della prova strutturata su discipline non necessariamente interrelate.
Eppure, come visto, l’analisi rivela esiti contraddittori in entrambi i
casi, con prove globalmente troppo difficili o troppo facili.
È allora legittima
la domanda: non sarà che le diverse tipologie, nella sostanza, sono
la stessa cosa?
Le commissioni che hanno
scelto la chiave trasversale si sono dovute muovere in pratica in un sentiero
molto stretto, tra la consapevolezza che i temi interdisciplinari realmente
praticabili dovevano essere abbastanza concreti, circoscritti a discipline
affini, e l’esigenza di correlarsi alle simulazioni svolte durante l’anno
scolastico. Se hanno corrisposto perfettamente a queste, le prove sono
risultate facili perché appiattite su esperienze già fatte;
se non hanno corrisposto, estremamente difficili.
D’altro canto la prova strutturata
prevedeva domande a risposta multipla o aperta ma comunque con l’indicazione
della concisione. In pratica con le semplificazioni della fase transitoria,
poche domande su pochi ambiti, e di rapida risposta: non so che cosa ci
si aspettasse.
In pratica sia la prova
su traccia interdisciplinare che la prova strutturata pluridisciplinare
sono diventate prove del tutto analoghe, caratterizzate da esiti equivalenti.
Questa conclusione non ha
solo un carattere contingente ma assume un valore generale: c’è
una coerenza e coesione nella preparazione degli allievi che rende assimilabili,
non complementari come si vorrebbe, le diverse metodologie di valutazione.
Se a regime la terza prova coinvolgerà tutte le tipologie, come
si recita nel regolamento, potrebbe non essere complessa ma complicata
e artificiosa.
Eppure c’è qualcosa
di profondamente nuovo nelle difficoltà del lavoro delle commissioni,
di là dall’interpretazione tecnico-burocratica del nuovo esame.
L’esito di queste tensioni
non è facile prevederlo: sappiamo che qualunque fattore di disturbo
di un equilibrio può essere rapidamente metabolizzato e riassorbito,
oppure, più raramente, evolvere verso un nuovo stato d’equilibrio.
Tuttavia la terza prova non consiste in un testo nazionale, non chiede
alla commissione la solita fatica del rivestire le valutazioni ragionevoli
con i panni razionali delle varie griglie oggi di moda – impegno sempre
più improbo con le rigidità di punteggio introdotte. Questa
era già routine d’esame (una prassi che la stragrande maggioranza
dei docenti applica, per sua fortuna, solo in tale occasione). In quest’impegno
si può forse vedere un aspetto importante della professionalità
docente, ma non certo il carattere saliente della quotidianità del
lavoro docente.
Rispetto a questo stato
di cose, la terza prova si colloca come una salutare discontinuità.
Anche se è stata
la multidisciplinarità a catturare maggiormente l’attenzione e a
scatenare fantasie interpretative, la discontinuità profonda, potenzialmente
significativa, sta nell’aver affidato alla commissione stessa la responsabilità
della costruzione dello strumento. Un incarico forse stridente con il carattere
“nazionale” dell’esame, ma allo stesso tempo una prassi quotidiana – questa
davvero – dei docenti. Da qui nascono le reali difficoltà, che è
fondamentale capire, prima ancora che risolvere: troppo spesso in tempi
recenti la voglia di soluzioni rapide ha spinto nella scuola all’elusione
dei problemi.
Quale trasversalità?
Sappiamo che per scegliere
gli strumenti di misurazione adatti occorre conoscere le caratteristiche
dell’oggetto della misura. La necessità da parte delle commissioni
di prendere atto della storia della classe, attraverso il documento del
15 maggio, si iscrive in questa norma generale. Sappiamo anche che la misurazione
ha valore se la variabile che scegliamo di seguire è proporzionale
alla variazione globale dell’oggetto (per esempio, il peso è una
buona misura della crescita del neonato, mentre non lo è più
per un individuo adulto). Ecco una prima questione da risolvere: che cosa
valutare nella preparazione degli allievi che sia un campione significativo,
direttamente legato alla loro crescita?
L’acquisizione delle abilità
trasversali sarebbe la risposta migliore, ma lo specialismo tuttora dilagante
negli ultimi anni della scuola superiore non può condurre ad acquisizioni
di questo tipo, se non per i soliti allievi che le possiedono per loro
conto. Ne siamo così coscienti che si sono introdotti argomenti
ad hoc per svolgere le simulazioni della terza prova e avere alla fine
qualcosa di trasversale da valutare.
Quest’espediente non è
affatto nuovo nel problema della misura: corrisponde, in effetti, all’adeguamento
dell’oggetto da misurare allo strumento di misura. Legittimo ed efficace
per alcuni scopi (per esempio, per identificare il tragitto di una trasformazione
organica è utile la modifica del campione con l’aggiunta di atomi
di carbonio radioattivo, rilevabile con il contatore Geiger), non lo è
certo per la valutazione di un processo se questo risulta snaturato, oppure
se si sviluppa in maniera totalmente indipendente.
Purtroppo nelle terze prove
si è concretamente valutato una singola unità didattica interdisciplinare,
quasi predefinita e perfettamente riconoscibile dagli allievi, credendo
di campionare la loro preparazione. L’uomo è l’unico animale che
sa prendere decisioni da campioni d’esperienza perché questa è
una pratica d’astrazione dai casi singoli.
Il Cede conosce il problema,
infatti sta lavorando intorno alla valutazione d’acquisizioni di “secondo
livello” per trovare misurazioni significative della globalità del
processo educativo. Tuttavia le iniziali proposte in merito alle terze
prove sono apparse difficilmente praticabili, perché del tutto estranee
ai reali percorsi scolastici. Se volessimo adeguare l’insegnamento a un’idea
così “accademica” di trasversalità, saremmo in pratica costretti
a risolvere il problema dell’integrazione delle discipline – fondamentale
per ridare coesione e senso all’apprendimento – con l’introduzione di nuove
discipline di confine. Questo, in effetti, è il fenomeno che sta
caratterizzando il mondo della ricerca, ma riportarlo direttamente nella
scuola significa negarle specificità, lasciando nella sostanza inalterato
il suo modello specialistico, solo ammodernato nella facciata.
Se le discipline sono finestre
sul mondo la trasversalità che interessa la scuola è quella
che ricerca un orizzonte a 360°, un obiettivo che si allontana se sovrapponiamo
più finestre sulla stessa parete. Si costruisce piuttosto tenendo
le finestre ben aperte e collocate su tutte le pareti, per poi coltivare
nei ragazzi e nelle ragazze quelle capacità di combinazione e rielaborazione
delle diverse prospettive, che sole possono garantire la ricomposizione
dell’intero orizzonte. Queste sono abilità d’astrazione che si collocano
nel profondo delle discipline, non al di sopra.
Misurare non è
valutare
Il problema dello strumento
ne implica un altro. Le teorie dell’errore distinguono i concetti di precisione
e d’accuratezza. Per precisione si intende il livello d’incertezza causato
dagli errori di lettura dell’apparecchio, mentre l’accuratezza risponde
del possibile errore insito nell’apparecchio stesso. Un esempio semplice
è una classe che è chiamata a decidere che ore sono leggendo
l’orologio alla parete da cui sia stato tolto il quadrante. Sentiti tutti
i pareri degli allievi si potrà concludere, per esempio, che sono
le 11 e 22 minuti, un minuto più o un minuto meno, ma in realtà
può benissimo essere già mezzogiorno se l’orologio va indietro
oppure è fermo. Solo con quest’ottica globale possiamo porci il
problema della valutazione della misura.
La commissione si trova
di fronte a un impegno analogo, dal momento che deve tenere conto non solo
della gamma dei punteggi della prova ma anche della sua adeguatezza rispetto
agli obiettivi. La valutazione avrà aspetti quantitativi, in cui
si potranno applicare utilmente griglie o altro, ma dovrà integrarli
con valutazioni di natura più qualitativa. La capacità di
interpretare correttamente il documento del Consiglio di classe insieme
con quella di quest’ultimo di rendere trasparente il proprio lavoro entrano
negli esiti della prova. Come si vede c’è di nuovo un dovere di
comprendere che si combina con il misurare.
Altra caratteristica generale
della misura è che a ogni elaborazione dei risultati l’incertezza
può solo espandersi. Ne consegue che le commissioni, chiamate a
distribuire i livelli di sufficienza su una gamma di punteggi estesa come
quella attuale – aspetto già discusso da Armellini su “Insegnare”
(n. 1/2000, p. 33) – si comportano come un allievo che alla conclusione
della lezione, guardando l’orologio senza quadrante della parete, affermasse
che sono esattamente le 11, 22 minuti e 45 secondi...
Alla terza prova va riconosciuto
il grande merito di rendere legittime queste considerazioni già
nella fase “tecnica” di predisposizione dell’esame. Potrebbe cioè
contribuire a mettere in crisi la classica schizofrenia del docente-commissario:
figura esterna alla classe quando predisponeva e valutava la prova, interna
quando aggiustava i risultati rispetto alla sua esperienza e alle sue attese.
Che fare?
Come possiamo migliorare
il nuovo esame? Intanto non scommettere sul suo effetto di retroazione:
l’esperienza ci assicura che nell’incertezza trionfa la logica dell’adeguamento,
con occultamento di tutti gli attriti senza che nella sostanza vi sia alcun
cambiamento.
Quindi puntare sulla visibilità
del lavoro della classe, sulla comprensione delle scelte del Consiglio
di classe e sulla capacità della commissione di essere in continuità
con quel lavoro.
Una risposta non elusiva
alle difficoltà prevedibili e registrate nel primo anno di applicazione,
parte dall’analisi del luogo dove le terze prove hanno origine: l’ultimo
anno del corso. Dal progetto didattico, quello che normalmente non esiste,
visto che non si può scomodare il “progetto” per quella rincorsa
ai programmi ministeriali, verso i quali al quinto anno si è assiomaticamente
indietro. Né può essere seriamente sostenuta le tesi di inserire
opportuni modelli interdisciplinari. Questa è la cultura dell’adeguamento
che non sposta la sostanza dei problemi.
Il punto è che una
prova d’esame pluridisciplinare non può ridursi a un questionario,
più o meno corposo, di domande sui programmi attualmente svolti
senza sconfinare in un esame nozionistico, ripetizione di un modello che
speriamo superato per sempre. E neppure a una traccia interdisciplinare
adatta a una scuola dei sogni.
Occorre porre mano con coraggio
ai percorsi disciplinari, caratterizzando l’ultimo anno come il segmento
terminale di un percorso a spirale. In esso ci dovremmo concentrare sui
nodi e sui passaggi fondamentali delle discipline, ma con strumenti concettuali
ben diversi, alla ricerca delle “regole prospettiche” con le quali esse
vedono il mondo.
Non sopra ma dentro le discipline
possiamo far emergere la loro valenza formativa e trasversale, conducendo
gli studenti lungo quell’intreccio di radici che tutte le connette.
Solo se saremo legittimati
a pretendere buone risposte, avremo anche buone domande da porre.
numero 6/2000