Da un seminario sull’esame
di Stato
a cura di Sara Carbone
Nei prossimi giorni si
insedieranno le Commissioni di esame di Stato per l’anno scolastico 1999-2000.
L’esperienza dello scorso anno ha stimolato una diffusa riflessione sull’andamento
dell’esame e sugli esiti dello stesso. Anche il Cidi ha discusso in varie
occasioni del nuovo esame di Stato: un momento particolare di approfondimento
è rappresentato dal seminario svoltosi a Palermo nel dicembre scorso,
con il concorso di vari Cidi territoriali, di esperti e di esponenti dell’Amministrazione.
Dei lavori di quel seminario,
articolati in riflessioni su aspetti globali - a partire dall’esperienza
maturata - e specifici - circa i “passaggi” più critici e di più
difficile applicazione (Consiglio di classe, terza prova, colloquio, valutazione)
- riportiamo qui una sintesi.
Il nuovo esame di Stato:
perché?
Cristina Morrocchi, presidente
del Cidi di Palermo, nell’aprire i lavori, ha sottolineato le motivazioni
di fondo che hanno portato alla condivisione del nuovo modello di esame:
più aderente alla scuola che cambia, alle esigenze degli studenti,
in coerenza con la complessiva riforma della scuola e l’inserimento della
scuola italiana nei parametri della scuola europea.
In particolare, è
stato condiviso il ripristino del lavoro su tutto il sapere della scuola,
con l’eliminazione di quel diffuso senso di terno al lotto che dava, nel
vecchio esame, il sorteggio delle discipline e che divideva gli alunni
in fortunati e sfortunati e il sapere in materie da ricordare e da dimenticare.
Il nuovo esame ha determinato
numerosi effetti positivi:
-
dal ruolo della collegialità,
a tutti i livelli, alla ricerca, all’organizzazione del lavoro, ma soprattutto
alla definizione dell’indispensabile e forte ruolo del Consiglio di classe
per una programmazione degli esami legata alla costruzione condivisa del
profilo formativo dello studente e dei tempi e dei modi per strutturarlo,
provarlo, verificarlo durante l’ultimo anno;
-
dalla pluralità, all’articolazione
e all’individualizzazione delle prove, alla rilevazione e valutazione delle
competenze acquisite. Non è semplice passare dalla scuola delle
conoscenze alla scuola delle competenze culturali, e per questo va recuperato
tutto il cammino di esperienze e di ricerche didattiche fatto dalla scuola
in questi anni: si pensi al tanto lavoro sulla operatività - Lombardo
Radice esprimeva con questo termine il concetto di un saper fare colto,
un saper fare della mente prima che delle mani -, sul livello organizzativo
della ricerca didattica, dai dipartimenti disciplinari, centrati sui saperi,
agli organi di programmazione operativa dei curricoli, ai laboratori territoriali.
Ciò ha comportato e comporta un’ulterire riflessione sugli statuti
delle discipline in rapporto alla contemporaneità e al mondo di
significati degli studenti, per operare scelte che, attribuendo senso ai
contenuti, attivino le intelligenze e riescano a promuovere processi di
identità. La competenza culturale rappresenta il filo rosso che
lega ciò che si apprende al come lo si utilizza, dentro e fuori
dalla scuola, per la conquista di un’identità sociale che
sia riconosciuta e spendibile. E questa competenza va costruita anche nel
dialogo con la formazione professionale più qualificata;
-
la rilevanza data alle lingue
straniere;
-
la possibilità di usare
strumenti multimediali e come dimostrazione di competenze e come dimostrazione
di valorizzazione di operatività intellettuali, forse ancora non
entrate nel mondo della scuola a pieno titolo, ma vicine al mondo degli
studenti, al mondo del lavoro;
-
un sistema di valutazione trasparente
che renda la stessa più sicura e affidabile anche nella certificazione.
Come dice Delors, imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere
insieme, imparare ad essere: il rapporto tra conoscenze e competenze si
esplicita non solo nell’acquisizione di un modo di vita ma anche nella
possibilità di conseguire certificazioni utili a far riconoscere
le competenze acquisite.
I problemi emersi
Adriana Tocco, presidente
del Cidi di Napoli, nel presentare a Pasquale Capo, direttore generale
all’Istruzione professionale, le questioni emerse nei vari Cidi, ha sottolineato
l’importanza di trasformare comportamenti e culture consolidati nella scuola
che la norma non può da sola attuare: anzi, l'avvio di provvedimenti
riformatori, specialmente se di grande portata, oltre a essere lento, rischia
di creare non pochi malintesi e, a volte, gravi fraintendimenti. E nel
primo anno ce ne sono stati e molti. È stato necessario - e su questo
ha concordato anche Pasquale Capo - uno sforzo di chiarimento e di puntualizzazione
da parte dell'Amministrazione, ma anche di riflessione da parte dei docenti
perché se chi ben comincia è alla metà dell'opera,
chi invece comincia male non si limita a stare a zero, ma rischia di compromettere
irrimediabilmente tutto: le modalità sbagliate si radicano subito
e spesso diventano norma consolidata, come è in parte accaduto per
il vecchio esame di maturità, la cui primissima versione non era
lo scandalo che è poi diventato.
Questi i punti problematici
emersi:
-
l'attribuzione del credito
formativo, che è stato nel primo anno un elemento di confusione.
È vero che la normativa attribuisce un punteggio minimo ad attività
svolte fuori dalla scuola e assegna al Consiglio di classe il compito di
valutarne la coerenza con gli obiettivi educativi e formativi del tipo
di Istituto, tuttavia il principio della valutazione di qualcosa di esterno
all'attività scolastica introduce elementi gravi di disparità.
Le prime avvisaglie si sono avute laddove in alcune scuole si è
valutato di tutto e si è verificata da parte delle famiglie la caccia
alla certificazione di qualunque tipo, e allora via a corsi di vela, di
tennis ecc. Nei casi migliori il credito formativo è stato
profondamente ingiusto, quando ha verificato competenze certe, per esempio,
- è il caso più frequente - nella conoscenza di lingue straniere,
perché ha finito con il valutare due volte tali conoscenze; nei
casi peggiori è stato una pura invenzione, sempre però riservata
a gruppi sociali in grado di certificare tali invenzioni. Per salvare la
filosofia che è dietro a tale istituto si potrebbe certificare il
credito, senza però attribuire un punteggio, valorizzando invece
al massimo quanto si fa anche di extracurricolare all'intemo della scuola,
premiando chi è in grado, ha le capacità e la volontà
di cogliere le opportunità che l'Istituzione offre e che sono perciò
a disposizione di tutti;
-
il credito scolastico per
gli alunni che abbiano riportato debiti scolastici. La legge attribuisce
a essi il punteggio minimo della fascia in cui si trovano, il che penalizza
chi in quella fascia è inserito senza aver riportato debiti.
D'altra parte la proposta di lasciare chi abbia riportato un debito al
punteggio minimo in assoluto non è accettabile, perché esistono
talvolta carenze tecniche in una disciplina compensate da eccellenze in
altre. Le ipotesi si sono differenziate nelle varie sedi di dicussione:
c'è chi ha proposto di istituire un tetto di debiti, superato il
quale l'alunno resta al punteggio minino in assoluto o individuare un meccanismo
giuridico che consenta la valutazione della media reale. A tale proposito
da parte di alcuni si è anche osservato che non tutte le discipline
hanno lo stesso peso nella vita scolastica di un giovane. Probabilmente
il punto più dolente è la questione dell'Educazione fisica
che, essendo veramente (è uno dei pochi casi) un'educazione, non
dovrebbe essere valutabile con una votazione, potrebbe invece fornire indicazioni
utilissime alla valutazione complessiva della personalità in termini
di autocontrollo, coordinazione, capacità di lavorare in un gruppo,
orientamento, autodisciplina;
-
la cultura della valutazione,
che sarà efficace solo quando ai docenti sarà chiaro che
il Consiglio di classe valuta insieme, quando il lavoro collegiale diventerà
prassi quotidiana. E in tale dimensione collegiale dovrà essere
l’intero Consiglio ad assumersi alcune responsabilità serie, per
esempio, quella di non attribuire il debito a chi sia valutato complessivamente
idoneo alla classe successiva al di là dell'incidente di percorso
o della difficoltà tecnica in una disciplina e per converso non
ammettere alla classe successiva con un gran numero di debiti scolastici.
E questo avviene soltanto in una visione di disponibilità, in cui
la scuola tende a valorizzare tutto quanto il giovane sa o sa fare o se
vive responsabilmente l'esperienza scolastica;
-
il peso attribuito al curricolo
nella valutazione complessiva. Ad alcuni il 20% appare troppo poco,
altri osservano che non si può attribuire un peso maggiore in presenza
di una grandissima diversificazione di Istituti privati, che spesso hanno
presentato tutti gli alunni con crediti altissimi. Da questo punto di vista
è opportuna una maggiore attenzione nella composizione delle commissioni
di esame;
-
la terza prova, soprattutto
per quanto riguarda la modalità e i tempi. Le domande, in numero
congruo, dovrebbero essere corredate di risposte-criterio e i tempi andrebbero
calibrati scientificamente, molto brevi, per esempio, se si tratta di domande
a risposta chiusa. Tale tipo di prova esige un diverso modo di lavorare
a monte, perché non si possono mettere gli studenti di fronte a
prove alle quali non sono stati preparati e non basta per questo qualche
simulazione effettuata nel corso dell'anno scolastico, specialmente laddove
si pongono questioni che richiedono competenze interdisciplinari. L’interdisciplinarità,
infatti, è un'abilità di ritorno, non è una disciplina
che si insegna, richiede dunque un modo di lavorare, in cui gli insegnanti,
senza perdere la specificità dei codici disciplinari delle materie
di competenza, siano in grado di trovare e suggerire connessioni e relazioni
tra i vari contenuti;
-
il colloquio. Nella scorsa
sessione spesso il colloquio è stato solo compensativo degli scritti,
e questo se è certamente un limite, può però essere
spiegato con le difficoltà connesse al fatto che i momenti iniziali,
sperimentali, presentano sempre delle difficoltà. Ma ciò
che richiede un chiarimento forte, anzi una raccomandazione, è l’interpretazione
della norma, in realtà in sé chiara, che prevede che il candidato
inizi la prova con un argomento a sua scelta. La norma non parla di tesine,
troppo presenti nell’esperienza effettuata. È opportuno certamente
dare inizio all'esame con un argomento approfondito particolarmente dal
candidato o con un percorso da lui indicato, ma il colloquio deve proseguire
anche su altre piste, e inoltre il percorso proposto per essere tale dovrà
aver avuto durante l'anno una consistenza reale senza collegamenti di scarso
valore culturale e stiracchiati. (E qui gli esempi potrebbero essere molti
ma è preferibile attribuire le anomalie alle difficoltà iniziali).
Per questi aspetti assume importanza strategica il documento del Consiglio
di classe, non mero adempimento burocratico, ma reale chiave di comprensione
della vita e della crescita della piccola comunità educativa costituita
dal gruppo classe. Nel documento, oltre alla descrizione e al commento
di ciò che si è realmente fatto, dovrebbero essere allegate
le simulazioni, e in tal senso alcuni Consigli hanno già operato.
In questo modo la commissione esterna viene guidata con naturalezza a una
verifica adeguata della preparazione degli alunni.
Le risposte
I vari interventi che si
sono articolati nella giornata hanno sottolineato, soprattutto l’intervento
del direttore generale Capo, come la riforma dell’esame, ritenuta minore,
sia in realtà una grande riforma, un tassello decisivo delle trasformazioni
in atto, coerente con il quadro generale delle innovazioni. L’altro aspetto
emerso negli interventi, e sottolineato da Alba Sasso nelle conclusioni,
è che questo nuovo modello di esame richiede un diverso e innovato
modo di lavorare a scuola e la persistenza del “vecchio” impedisce in alcune
situazioni il cambiamento profondo: ma forse questo esame induce anche
a portare a termine il processo di riforma, sollecita la definizione dei
saperi della scuola.
In questi mesi le varie
norme aggiuntive e esplicative sull’esame e la stessa ordinanza ministeriale
sulla modalità di svolgimento hanno fatto per la gran parte chiarezza
su dubbi e perplessità, ma sicuramente il nodo che rimane ancora
scoperto è la questione della valutazione.
Come sottolineato in più
interventi, specialmente da Benedetto Vertecchi, questo esame chiede alla
scuola e chiede agli insegnanti non solo un nuovo modo di lavorare, ma
soprattutto un nuovo modo di valutare, ingabbiato in griglie rigide. La
scuola secondaria superiore, a differenza della scuola media ed elementare,
in questi anni non è stata toccata dal dibattito sulla valutazione
e per questo la procedura messa in atto dal modello d’esame ha colto impreparati
i docenti.
I risultati delle indagini
effettuate dal Cede mostrano, a livello quantitativo, come il sistema si
aggiusta rispetto alla norma: dalla prima prova alla seconda la distribuzione
dei voti comincia a modificarsi, dalla seconda alla terza si modifica ancora
di più, al colloquio la curva diviene assai anomala, poggiata in
alto, condizione difficile da comprendere in condizione di normalità,
ma mediante successivi procedimenti che affinano la scomposizione della
varianza, soprattutto delle varie sezioni, si deduce che la capacità
di aggiustamento del sistema alla norma è stato forte. Però,
come ha sottolineato Vertecchi, non è sempre detto che il risultato
formale debba coincidere con il risultato vero, ma in una società
avanzata la qualità della certificazione è un elemento di
democrazia e di progresso; in mancanza del quale si verificano fenomeni
di condizionamento sociale che rispondono ad altre logiche, diverse da
quelle che il processo di formazione scolastica persegue.
numero 6/2000
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