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Riforma dell'università e riforma della scuola: due pesi e due misure? di G.C.
L’Università ha manifestato
più compattezza, nell’accogliere le proposte di riforma, rispetto
a una scuola divisa e priva di voci autorevoli.
Come mai la riforma dell’Università
proposta dall’Ulivo (il cosiddetto modello 3+2) attuata a partire dall’anno
accademico 2001/2002, mentre la riforma dei cicli (il cosiddetto modello
7+5) è stata rinviata sine die? Non sono, forse, il frutto della
medesima impostazione culturale e politica?
Occorre riconoscere che
nei confronti della riforma universitaria, avviata con lavori della
commissione Martinelli e poi sviluppata dal tandem Berlinguer (Guerzoni)-Zecchino,
si è manifestato nel Paese un consenso maggiore rispetto alla parallela
riforma dei cicli scolastici (predisposta dal tandem Berlinguer-De Mauro).
Basti pensare, nel primo
caso, all’apprezzamento manifestato dalla Crui (Conferenza dei rettori
delle università italiane) e, da ultimo, al via libera espresso
dal Rettore del prestigioso Politecnico di Milano, Adriano De Maio.
Sull’altro lato, invece,
il mondo della scuola è apparso incerto e diviso, con alcuni sindacati
(Cisl, Gilda, Snals) fieramente avversi alla legge 30/2000 (anche se non
sempre sono apparse chiare le motivazioni) e con il Consiglio nazionale
della Pubblica Istruzione posizionato su un imbarazzante parere negativo
(a fronte di un orientamento positivo delle associazioni professionali
storiche dei docenti: Aimc, Cidi, Mce, Uciim).
La riforma dell’università
è sembrata una via obbligata per far fronte alla scadente produttività
degli attuali corsi (solo il 30% dei laureati, tempi medi di completamento
degli studi di 7-8 anni, scarsa corrispondenza tra i profili formativi
e le nuove esigenze del mondo produttivo e della ricerca). La soluzione
del doppio livello d uscita (laurea triennale di base, laurea specialistica
quinquennale ed eventuali master successivi) è assai diffusa negli
altri Paesi europei ed è apparsa una soluzione praticabile e migliorativa
del modello precedente (laurea “secca” di 4 o 5 anni). Inoltre, le singole
università (ormai largamente autonome) hanno avuto almeno due anni
di tempo a disposizione per misurarsi concretamente con l’elaborazione
dei nuovi curricoli di studio.
Maggiori difficoltà
(e ritardi) per la riforma della scuola
Se si guarda a questi
stessi passaggi sul versante della riforma scolastica si potranno meglio
capire le differenze e le difficoltà incontrate:
- Non da tutti è
stata condivisa la diagnosi sui punti deboli dell’attuale sistema (perché
intervenire a fondo sulla scuola di base, quando – almeno in apparenza
– i nodi maggiori si riscontrano nel settore secondario?).
- Non è apparsa
chiara la matrice culturale del progetto, che qualcuno ha considerato foriero
di un abbassamento di profilo culturale (la scuola della socializzazione)
e altri tutto piegato sulle ragioni del mercato e delle nuove tecnologie.
- Sono sembrati incerti
e vaghi i riferimenti ai modelli europei (quello inglese? quello scandinavo?
quello spagnolo?) e la proposta “forte” di una uscita a 18 anni dal sistema
scolastico (largamente condivisa a livello sociale) ha fatto intravedere
una quantità enorme di problemi pratici (riduzione del percorso
scolastico, soprannumero di docenti, “onda anomala”).
- I tempi di attuazione
della riforma, a partire dalla scuola di base, sono risultati troppo affrettati
(con curricoli appena definiti, senza una proposta sugli organici funzionali
del personale docente, con un piano di formazione tutto da attuare).
Così la scuola
è rimasta a guardare lo scontro strumentale tra chi voleva accelerare
i tempi (per realizzare un “utile” politico) e chi intendeva buttare tutto
all’aria (per lucrare sul malessere dei docenti).
Ma, soprattutto, le scuole
non sono state messe nelle condizioni (con un piano di attuazione graduale
e relativi incentivi) di entrare in una logica di tipo operativo e progettuale
(quali curricoli predisporre, come organizzare i team dei docenti, come
migliorare gli ambienti di apprendimento), come nel frattempo ha fatto
l’Università.
Discutere teoricamente
sulla migliore riforma possibile, si sa, non ha mai portato a nessun risultato
concreto. Di questo dovrà essere consapevole il nuovo ministro dell’Istruzione,
quando deciderà di muovere qualche pedina importante sulle scacchiere
del sistema formativo e di coinvolgere (come è stato preannunciato)
insegnanti, genitori, studenti ed esperti nella elaborazione di nuove proposte.
numero 10/2001
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