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Per una valutazione descrittiva di processo e di prodotto di Paolo Citran
Sommario: Qualche osservazione
su vari momenti e modalità dell’esame di Stato.
Chi in tutta la propria esistenza
di insegnante si è sempre battuto per un tipo di valutazione che
cercasse di essere di carattere qualitativo e ha sempre fatto uso del voto
per mero dovere d’ufficio e quasi contro coscienza, non può essere
entusiasta di questo nuovo esame di Stato - che pure presenta aspetti riconoscibili
come positivi - per via di quell’ossessione della quantificazione che incombe
pesantemente su di esso.
Anche in campo didattico-docimologico
sarebbe necessario arrivare a un approccio, per così dire, descrittivo-fenomenologico
di tipo qualitativo piuttosto che quantitativo, e cioè in direzione
esattamente opposta a quella propostaci dal nuovo esame di Stato, con tutta
la sua cabala numerologica.
Occorrerebbe una fenomenologia
dei percorsi effettuati dallo studente, una fenomenologia degli esiti e
delle competenze acquisite, una fenomenologia, quindi una descrizione,
delle modalità in cui le conoscenze e le competeznze hanno potuto
esprimersi in diversi momenti e quindi, anche nel momento finale, di un
curriculum scolastico.
Il precedente esame di maturità,
con tutti i suoi rilevanti difetti, aveva il vantaggio di fornire, in maniera
più o meno adeguata e coerente, dei momenti che lasciavano spazi
(almeno per quegli insegnanti che volevano fare bene le cose) per una descrizione
sintetica dei processi e del cosiddetto prodotto di un curriculum scolastico;
oggi abbiamo solo la descrizione di un lavoro fatto dagli insegnanti genericamente
in relazione alla classe (la quale descrizione può anche ridursi
a una generica sommatoria di interventi individuali e poco coordinati)
e un numero convenzionale (quello che rappresenta il credito scolastico-formativo)
che non ci permette di capire quali aspetti qualitativi significhi e contemporaneamente
nasconda piuttosto che rivelare, non essendo trasparente il passaggio dal
significato (processo e prodotto) al segno/significante (il numero).
Posta questa premessa, piuttosto
che pretendere di fare un discorso organico sul nuovo esame di Stato, presentiamo
qui una serie di osservazioni-flash che hanno il vantaggio di essere collegate
a esperienze di presidente e di commissario, esperienze sia personali di
chi scrive, sia indirettamente rilevate in quello che può essere
l’osservatorio delle esperienze altrui:
Il lavoro del Consiglio
di classe ed il feedback esercitato su di esso
Pare scontato rilevare un
effetto boomerang. In realtà questo effetto retroattivo è
molto legato alla concreta realtà dei Consigli di classe: a volte
l’effetto può essere positivo “costringendo” docenti e studenti
a lavorare in modo piuttosto nuovo rispetto alla prassi “media” della secondaria
superiore, in maniera fortemente collegiale.
Quando però questo
non si verifichi o si verifichi in maniera insufficiente, per motivi soggettivi
e oggettivi (resistenze a una prassi d’insegnamento marcatamente collegiale,
situazioni di instabilità del corpo docente, altre situazioni particolari)
il danno ricade facilmente proprio sugli studenti, per cui alla fine si
corre il rischio di valutare in sede di assegnazione dei punteggi più
il team dei docenti che il lavoro degli studenti.
Il passaggio dell’informazione
dal Consiglio di classe alla commissione
La relazione del Consiglio
di classe sulla classe stessa rappresenta un’indicazione importante per
la commissione. Ha tuttavia il difetto di indicare in maniera relativamente
generica i percorsi effettuati a livello di classe, senza alcun riferimento
al profilo scolastico dei singoli allievi.
Da questo punto di vista,
pur con molte ambiguità e passaggi dal qualitativo al quantitativo
e viceversa (il voto trasformato in giudizio, poi di nuovo in voto - la
coda del giudizio sia per il profilo generale che per la singola disciplina
-, poi di nuovo in giudizio, poi di nuovo in voto), con il vecchio esame
“Misasi” la commissione aveva un profilo scolastico individualizzato fatto
più o meno bene: oggi formalmente alla commissione non risulta niente
sul piano qualitativo, se non quanto eventualmente e discrezionalmente
comunicato dai membri interni della commissione. Il profilo scolastico
è trasformato in un numero (quello che rappresenta il credito scolastico)
che sul piano qualitativo delle competenze e delle conoscenze, nonché
sul piano dei “condizionamenti” cognitivi ed extracognitivi, nulla ci dice,
trasformando quasi magicamente con criteri ineffabili la qualità
in quantità. La commissione sostanzialmente lavora in modo abbastanza
meccanico con dei numeri, come se questo garantisse una qualche oggettività,
mentre fornisce solo un’apparenza di oggettività (comunque si tratta
di definire che cosa considerare livello minimo accettabile, che cosa considerare
eccellenza ecc.: il che di fatto è lasciato all’arbitrio della commissione).
Per quanto riguarda i “numeri” (i voti) utilizzati dai Consigli di classe,
anche qui ci troviamo davanti a comportamenti differenziati dei docenti
nell’impiego di una gamma più o meno ampia di voti.
Tutti questi elementi possono
rivelarsi pregiudizievoli per una valutazione equa e trasparente.
La commissione
Nella commissione, dato
il forte individualismo che caratterizza la nostra categoria, si ritrovano
soggetti che agiscono al di sopra delle righe, e il presidente, se è
sufficientemente equilibrato per non uscire anche lui dalle righe, sarà
probabilmente costretto a un’opera di mediazione perenne tra commissari
“rigoristi” e commissari “lassisti”. Se poi sarà il presidente stesso
colui che rappresente posizioni poco equilibrate è assai probabile
che lo squilibrato modo di giudicare si rifletterà iniquamente sui
tabelloni finali, differenziando iniquamente gli esiti da commissione a
commissione.
I docenti che fanno parte
di una commissione hanno a volte scarso senso della collegialità,
al punto che qualcuno prende come un’offesa personale l’invito ad omogeneizzarsi
rispetto ai criteri di valutazione e alle modalità di interrogazione,
rifiutando spesso anche l’equilibrata indicazione di utilizzare tutta la
gamma dei punteggi positivi disponibili.
Prima del colloquio
Un momento preliminare al
colloquio dovrebbe essere quello della definizione delle modalità
di svolgimento del colloquio stesso. In particolare andranno evitati certi
protagonismi da prime donne (anche se spesso esercitati da colleghi e non
da colleghe), che avvertono ogni proposta non del tutto coincidente con
la propria predisposizione mentale come un’offesa personale, a se stessi
e alla propria professionalità. Così,per non appesantire
il colloquio e per cercare anche di costruirlo “su misura” in relazione
al singolo candidato, si dovrebbe predisporre una scaletta (flessibile
e modificabile in relazione all’andamento del colloquio) che indichi su
quali discipline concentrare il colloquio (per esempio, sarà opportuno
non puntare troppo e persino non formulare domande in una disciplina determinata
quando le altre prove abbiano fornito sufficienti elementi di giudizio)
e definisca l’ordine degli interventi. Alla qual cosa non tutti si adattano.
L’inizio del colloquio
Il colloquio partirà
-
da un cosiddetto approfondimento,
più o meno pluridisciplinare, a cui può non corrispondere
una particolare elaborazione personale,
e che spesso si traduce in una serie di argomenti più o meno collegati
( o scollegati) - sono i nostri ragazzi in grado di sopportare il peso
della pluridisciplinarità?;
-
da un approfondimento collegato
a una tesina;
-
da un approfondimento collegato
alla scaletta analitica di una “tesina fantasma” in quanto non consegnata
alla commissione;
-
da un prodotto multimediale;
-
dal risultato del lavoro
di un’area di progetto.
Nel caso a) (del cosiddetto
approfondimento personale) assisteremo nella maggior parte dei casi a un’esposizione,
spesso assai poco personalizzata, di uno o più temi scelti (spesso
non si sa bene in base a quali criteri). Ciò fa pensare maggiormente
auspicabile la scelta della “tesina” o del prodotto multimediale. La tesina
non dovrà essere troppo voluminosa, dovrà essere preferibilmente
pluridisciplinare, dovrà essere monitorata continuativamente durante
l’anno scolastico da un docente tutor, dovrà essere esaminata dalla
commissione, che esprimerà un giudizio attento, cercando anche di
valutare senza pregiudiziali il lavoro (personalizzato, mera copiatura)
tenendo conto anche delle informazioni che dovrebbero essere fornite dal
docente tutor.
In ogni caso l’approfondimento
o la tesina non dovranno essere prese come un rito obbligato poco rilevante
ai fini della valutazione complessiva, ma dovrà essere elemento
portante di questa valutazione. Già prima del nuovo esame, in commissioni
sperimentali, molti commissari snobbavano la tesina attribuendole scarso
valore con la motivazione che non è garantito che sia stato proprio
il candidato o la candidata a produrla. Questa sembra una presa di posizione
scorretta e ingiusta, anche perché dalla prova orale si può
far emergere facilmente se il candidato abbia o meno svolto un lavoro personalizzato.
Soprattutto nelle maturità
sperimentali il candidato sarà impegnato a inizio esame a esporre
qualcosa del lavoro svolto nell’ambito dell’area di progetto.
Le annotazioni generali
che si possono fare sono le stesse dei casi sopra citati, con l’osservazione
aggiuntiva che l’area di progetto è una gran bella cosa, ma non
si capisce in quali momenti del tempo-scuola vi si dovrebbe lavorare: sostanzialmente
presuppone un consistente numero di ore aggiuntive rispetto a quelle pur
numericamente consistenti di attività curricolari, e non sembra
molto sensato che un’attività che entra appieno nel curricolo debbe
essere svolta in orario extracurricolare. (Oggi, ma solo oggi, si può
ricorrere alla flessibilità prevista per l’autonomia).
Un altro caso è quello
delle tesine fantasma, cioè la pratica di fornire alla commissione
delle scalette così schematiche che non permettono ai commissari
di capire che cosa effettivamente abbiano fatto, letto, approntato i candidati.
Per un esame “laico”
La preparazione e le acquisite
competenze che dobbiamo valutare non devono essere considerate sulla base
di un presunto modello oggettivo, ideale, perfetto e iperuranico. Le competenze
a cui guardare non sono in mente dei. Occorre appunto un esame “laico”
che rifiuti paradigmi ideali, metafisici, cosiddetti oggettivi.
Dobbiamo essere capaci di
relativizzare la nostra valutazione delle prestazioni del candidato, sapendo
apprezzare il suo percorso formativo, quello che effettivamente il candidato
è in grado di dare: questo comporta l’utilizzo sereno della scala
dei punteggi positivi in tutta la sua gamma. Non si può pensare
a un ideale astratto di competenza e di eccellenza, ma storicizzare l’esame
come tale, collocandolo all’interno della scuola di massa che non tollera
gli effetti perversi di un aristocratismo intellettuale che può
esser proprio solo di una scuola d’élite.
L’esame conclusivo di una
scuola di qualità non guarderà a una qualità assoluta,
ma a una qualità relativa al contesto, alle esperienze, ai percorsi
effettivamente realizzati, valorizzando i processi sperimentali e i percorsi
effettuati da ciascuno e le competenze acquisite su questa base, sfuggendo
agli estremi sia del lassismo che dell’aristocraticismo anacronistico
che faceva a suo tempo auspicare a Gentile «poche scuole ma buone».
Insomma, l’esame di Stato
dev’essere il termine di un percorso di promozione, dove la promozione
formale sia corrispettivo di una promozione culturale nella quale non ci
siano risultati dogmaticamente pensati come obiettivi universali, ma competenze
realmente acquisite in maniera variamente differenziata sia per varietà
di livelli qualitativi che in una scala di livelli quantitativi più
o meno elevati.
Se la dispersione scolastica
è qualcosa che va combattuto, non sarà alla fine di un percorso
formativo che si dovrà effettuare una selezione rilevante, magari
ricorrendo all’effetto Sadik, che si realizza quando grosso modo il credito
formativo è meno di 8 (quando anche tutte le prove sufficienti portano
a un punteggio inferiore a 60). Si dovrà piuttosto pensare a un
precedente orientamento in itinere, a modalità efficaci di compensazione
in corso d’opera. Non è alla fine di un lungo percorso che si può
tranquillamente dire: tu hai sbagliato strada; per il candidato tra l’altro
l’effetto potrebbe essere rovinoso sul piano personale. Pertanto è
da considerare aberrante una scuola che dopo cinque anni si accorge che
quel ragazzo o quella ragazza avrebbero dovuto seguire un’altra strada,
passando da un pietismo iniziale a un assurdo rigorismo, per così
dire, a conclusione dei lavori, senza aver compiuto in itinere un percorso
di promozione autentica.
numero 6/2000
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