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Valutare significa soltanto misurare? di Rosalba Conserva
Valutare significa iniziare
un percorso in cui accanto a criteri “esterni”, verificabili e misurabili,
ce ne sono altri “interni” altrettanto importanti. Molto dipende
dall’esperienza dell’insegnante e dalla qualità della sua relazione
con gli allievi e non è detto che una rilevazione “scientifica”
sia in ogni caso più attendibile.
Le considerazioni che farò,
suddivise per punti, non hanno la pretesa di aggiungere niente di nuovo
in materia di valutazione, in quanto richiamano più semplicemente
modi di pensare largamente condivisi.
La valutazione di una qualsiasi
prova si basa sul presupposto che sia stata fissata preliminarmente una
soglia di accettabilità, sulla base di criteri esterni e convenzionali.
I limiti sono anche interni a chi la prova la valuterà: pur essendo
un esperto della materia su cui la prova si basa, chi valuta possiede infatti
capacità più o meno sviluppate di percepire e apprezzare
differenze, natura e consistenza di eventuali errori. Un insegnante di
scuola queste cose le sa bene, e conosce inoltre i limiti della strumentazione
di cui dispone per valutare.
Le materie di studio offrono
differenti opportunità, e quindi vincoli definiti sia dai contenuti,
sia dal tempo-scuola che a ogni materia viene assegnato. Per esempio, chi
ha una cattedra-orario di dieci ore settimanali in una sola classe (lettere
nel biennio di un Istituto tecnico: italiano, storia e geografia) ha modo
di affinare la capacità di osservare grandi e piccoli cambiamenti
negli allievi, e dispone, oltre che di un tempo cospicuo, di una varietà
di contesti entro cui collocare una molteplicità di prove: dalla
conversazione informale a questionari rigidamente strutturati. Ciò
non è paragonabile (se non per i criteri generali del punteggio)
alle situazioni in cui le ore per classe sono poche, per esempio tre, e
dove, per necessità, alle lunghe interrogazioni orali saranno preferite
veloci verifiche scritte.
Nel valutare “persone” gli
insegnanti si confrontano con “oggetti” - i programmi, gli obiettivi, le
nozioni -, ed è per questo che è possibile definire criteri
di valutazione generali.
Manterremo la distinzione
tra ciò che sarebbe azzardato definire ‘competenza’ (per esempio
la sensibilità ai prodotti dell'arte) e ciò che lo è
in senso proprio (per esempio, saper usare il Cad), eppure non avremo del
tutto evitato margini di aleatorietà. Anche quando una prova
è “oggettiva” - ed è tale perché i criteri di valutazione
sono stati esplicitati e perché il suo oggetto si presta a una misurazione
univoca - saranno tuttavia “soggettivi” la scelta della prova e il tempo
e il luogo del suo svolgimento.
Da qui, l'importanza della
cura del contesto: una prova potrà risultare sbagliata perché,
per esempio, è stata collocata nel giorno sbagliato.
Nel dare informazioni all'allievo,
la valutazione informa allo stesso tempo l'insegnante: entrambi - a differenti
livelli di responsabilità - traggono dal risultato della prova indicazioni
sul “che fare dopo”. La correzione potrebbe infatti riguardare anche il
procedimento della correzione; e se un insegnante vuole una tempestiva
conferma di come ha valutato può far valutare le prove da un collega:
per fare un solo esempio, potrebbe aver enfatizzato aspetti che altri ritengono
secondari.
Come avviene in qualsiasi
luogo dove si impara o si pratica un mestiere, anche a scuola ogni conoscenza
(ogni competenza) è chiusa e aperta allo stesso tempo: non è
solo un “fatto” che documenta una maggiore o minore padronanza rispetto
a uno standard, ma è anche un processo sottoposto a continui correttivi,
e sulla base di parametri e di valori non soltanto esterni (l’evoluzione
dei “saperi” e delle tecnologie, riforme parziali o generali) ma anche
autoreferenziali, non sempre coincidenti perciò con quelli che in
una società costituiscono il senso comune.
Di qui la resistenza della
scuola ad adattarsi ai cambiamenti della società e alle riforme.
Vale la pena ricordare che
siamo predisposti (culturalmente) non a combinare e far convivere il vecchio
con il nuovo, ma a ragionare in termini di opposizione (o, o), e quindi
o a rifiutare o a sostituire le nuove metodologie, piuttosto che ad accostarle
a metodologie lungamente collaudate.
Prendiamo, per esempio gli
esercizi che generano la memoria stabile, esplicita della nozioni, e che
sono un residuo della scuola tradizionale, dove, con l’obbligo di "esporre
il contenuto" (discorsi speculari a quelli del libro o alla spiegazione
orale dell'insegnante), si induceva negli allievi l'idea che sapere qualcosa
significa ricordarla. Noi oggi preferiamo prove di verifica meno ‘banali’
- fare confronti, esporre un giudizio, scrivere un commento -, tuttavia
ancor oggi per prove come queste, di livello superiore, occorrerà
richiamare e utilizzare nozioni, magari attraverso l’esercizio di capacità
discorsive, anche con una tradizionale interrogazione orale.
Alla scientificità
del metodo di rilevazione (quale che sia il tipo di prova) non è
estraneo un giudizio (un pre-giudizio) che l'insegnante potrà aver
maturato per via intuitiva: le due valutazioni potranno non coincidere,
e non è detto che una rilevazione “scientifica” sia più attendibile
dell’ altra.
Succede spesso che l'insegnante
valuti sulla base di veloci computi per lo più inconsapevoli. L'attendibilità
di questo giudizio, frutto dell’intuizione e dell’esperienza, non è
nella dimostrazione esplicita dei passaggi che lo hanno determinato, ma
coincide piuttosto con l'onestà dell'insegnante, e testimonia la
qualità della sua relazione con gli allievi e con la scuola in generale.
Gli insegnanti valutano
continuamente altri ma non sono abituati ad essere valutati a loro volta.
Ciò può essere visto come un vantaggio: il vantaggio di una
serenità nel lavoro che in altri luoghi di lavoro è sconosciuta.
Ma proprio perché non sono né ricattabili né punibili
(anche se metà degli studenti di una classe ha un punteggio negativo,
l'insegnate non viene licenziato), sono vincolati a un obbligo ben più
grande: quello di sottoporre la pratica educativa a continui confronti,
e di dubitare sempre della neutralità del giudizio.
È certamente utile
che un insegnante separi la propria responsabilità da quella di
chi è sottoposto a valutazione: se dubitasse ad ogni passo di aver
fatto tutto ciò (o gran parte di ciò) che poteva fare affinché
gli allievi sappiano quello che a loro (una “storia” fatta solo di numeri),
chiede, dovrebbe astenersi dal valutare. Questo dubbio però è
bene che resti nello sfondo, e che possa richiamarlo alla consapevolezza
quando, da un segnale che le cose non vanno, dovrà correggere il
proprio lavoro, dovrà modificare la propria “mappa descrittiva”
degli allievi.
Una mappa, non il territorio
Una descrizione dell'alunno
in termini di voti è infatti una mappa, non è il territorio.
Credo che solo dall'accettare la parzialità delle nostre descrizioni
di 'territori umani' verrà un atteggiamento rassicurante (per noi,
e quindi per loro).
Pur se convenzionale, una
mappa tuttavia può porsi a una distanza maggiore o minore dal territorio,
e può essere costruita allo scopo di 'bombardarlo' oppure allo scopo
di conoscerlo per prendersene cura. Accorciare questa distanza e rendere
la mappa uno strumento di lavoro a vantaggio di tutti, è nelle nostre
possibilità, è tutto ciò che possiamo fare. Quanto
al “giudizio perfetto e giusto” - una cosa che non è di questo mondo
-, potrà essere meno imperfetto o quasi giusto se riferito sia al
contesto entro cui la prova viene collocata, sia alla storia dell'intero
anno scolastico.
Ogni insegnante registra
i voti (una “storia” fatta soltanto di numeri) nel suo registro personale,
mentre le prove - fogli legati da una fascetta - vengono depositate nell'archivio
della scuola, a disposizione di un ipotetico ispettore. Dovrebbero invece
essere a portata di mano di insegnanti e allievi.
A Trieste, mi diceva qualcuno,
era in uso un quaderno di scuola comune a tutte le scuole del vecchio impero
austro-ungarico, e che, caduto l’impero, le scuole di Trieste mantennero
per qualche tempo. Un quaderno dalla copertina blu e i fogli spillati nel
lato più corto (come i vecchi album da disegno), dove erano predisposte
- numerate e intitolate - le pagine per la brutta e quelle, a seguire,
della bella copia. Un quaderno “ufficiale”, che testimoniava la “storia”
di un anno scolastico e poi dei successivi, e che veniva preso dall'armadio
di classe e lì rimesso dopo la correzione.
Credo molto nei piccoli
cambiamenti, e questo - il quaderno di Trieste - ha per giunta il pregio
di non richiedere né sforzi di immaginazione, né grandi spese
per il materiale, né spese per l'aggiornamento degli insegnanti.
Richiede soltanto che in ogni aula ci sia un piccolo armadio.
numero 4/2001
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