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Per una strategia di riforma Conversazione con Enrico Panini, segretario generale della Cgil Scuola a cura di Velia Di Pietra
Nelle elezioni delle Rappresentanze
sindacali unitarie (Rsu), su circa un milione di aventi diritto al voto
la percentuale dei votanti ha raggiunto più del 80% (per il
Cnpi, nel 1996, aveva votato il 71% degli aventi diritto); per quanto riguarda
i risultati (disponibili, al momento in cui scriviamo, relativamente al
99,21% dei voti espressi), la Cgil Scuola diventa il primo sindacato e
aumenta i voti sia rispetto al Cnpi che rispetto alla rappresentatività
sull’insieme degli iscritti alle organizzazioni sindacali (1998). La Uil
Scuola aumenta i consensi e la rappresentatività; la Cisl Scuola
conferma pressappoco il risultato del Cnpi ma subisce un calo in termini
di rappresentatività. Il sindacato che perde sia rispetto al Cnpi
sia in termini di rappresentatività è lo Snals e solo parte
di questi voti vanno alla Gilda che aumenta i consensi ma non in modo consistente
se si tiene presente che intercetta anche i voti di formazioni di destra
che non si sono presentate a queste elezioni. L’altro dato rilevante è
che su 10.800 scuole soltanto in poche decine non si è votato o
non si è raggiunto il quorum...
Vogliamo riflettere su
tutto ciò e, soprattutto, sul significato politico di questo risultato,
in rapporto ai processi di riforma, con Enrico Panini, segretario generale
della Cgil Scuola.
Quali
sono gli aspetti più significativi di queste elezioni e dei risultati
raggiunti?
Primo elemento: la percentuale
dei votanti è alta e questo dato non era scontato; alla vigilia
delle elezioni molti temevano una scelta “pro-Collegio” e quindi di indifferenza
per la istituzione di uno strumento di contrattazione nella scuola. Nel
settore del pubblico impiego si era già votato per le Rsu nel 1998
e in molte situazioni già si praticava la contrattazione integrativa;
nella scuola invece si è votato senza un’esperienza del genere.
Secondo elemento: il sindacalismo
confederale va oltre il 60% dei consensi, quindi va avanti rispetto ai
dati del Cnpi di circa 10 punti, e viene sconfitto il tentativo di ridimensionarlo,
operazione portata avanti da Cobas-Gilda e da altri. Il sindacalismo confederale
va avanti in modo significativo nella fase più complicata della
propria vita: ricordiamo tutti che l’anno 2000 è iniziato con una
contestazione diffusa a un pezzo del contratto ed è proseguito con
le incertezze della sinistra per quanto riguarda i processi di riforma,
con tutto ciò che ne è seguito. Si è votato in un
momento in cui la tensione salariale era alle stelle ma il fronte autonomo
non si è rafforzato - considerando per autonomo tutto ciò
che non afferisce alle confederazioni Cgil, Cisl e Uil - e al suo
interno continua a prevalere lo Snals; ma in esso si determina anche
una situazione esplosiva perché da un lato i Cobas, pur non
raggiungendo la soglia che li ammette alla contrattazione, intercettano
fette consistenti di elettorato (vedi Pisa dove diventano il
primo sindacato) e dall’altro la Gilda intercetta una parte dell’elettorato
moderato-conservatore ma “non sfonda”. Un problema di alleanze e di possibili
dinamiche perciò si porrà dentro il fronte variegato del
mondo autonomo. Il risultato della Cgil Scuola, infine, è storico.
Vince chi è stato additato come il nemico da battere per tutta la
campagna elettorale da quasi tutte le altre sigle. Paga la coerenza dei
comportamenti e l’aver investito davvero sulla democrazia nella scuola.
C’è
qualche relazione tra la vittoria dei Cobas a Pisa - l’unica provincia
- con il fatto che lì sia stata attuata l’autonomia con un anno
di anticipo e in totale assenza di un progetto di riforma scolastica?
No. Credo che le cause siano
da ricercare nelle dinamiche politiche interne alla città. Certamente
iniziare una sperimentazione senza creare adeguate condizioni di contesto
per sostenerla ha favorito atteggiamenti di divaricazione e di protesta.
Spesso i Cobas hanno organizzato liste che raccoglievano la protesta
comunque e quindi, in situazioni di disagio, sono andati avanti...
Sulla
base dei risultati è possibile fare qualche considerazione circa
gli orientamenti dei docenti rispetto ai processi di riforma scolastica?
I dati elettorali devono
essere analizzati attentamente per ordine di scuola, per aree territoriali
e per regioni; sono dati importanti perché riguardano un milione
di persone. Sono convinto dell’importanza che le candidature hanno avuto
nelle elezioni delle Rsu, cioè dell’affidamento a un gruppo di persone
di un pezzo della propria vita lavorativa perché firmino contratti
in nome e per conto degli altri lavoratori. C’è però anche
un peso - che i sondaggi quantificano attorno al 40-45% - che riguarda
il gradimento della lista e cioè la quantità di persone che
dichiarano di votare comunque un certo sindacato a prescindere dai candidati:
su questo i sondaggi ci dicono che mentre alcune organizzazioni hanno uno
zoccolo in percentuale molto alto, per esempio, quello di Gilda e Cobas
è attorno al 55-60%, le altre organizzazioni, compresa la
Cgil Scuola, hanno uno zoccolo intorno al 25%. Quindi, pur tenendo conto
di questo elemento di personalizzazione del voto, emerge che il fronte
della protesta contro i processi di innovazione non viene premiato
da questa consultazione; infatti la Cgil Scuola e la Uil Scuola, sindacati
che in campagna elettorale hanno sostenuto i processi di riforma, sono
andati avanti e hanno intercettato un voto in uscita da altre organizzazioni
o che non è approdato ad altre organizzazioni. Lo scontro sulle
riforme è stato un elemento così forte durante la campagna
elettorale che è utile tenerlo presente per l’analisi sull’andamento
del voto, perché si può sostenere tutto e il contrario di
tutto, ma era chiaro all’elettorato che la Cgil e la Uil sostenevano i
processi di riforma e che altri soggetti invece erano contrari ai cicli
ed esprimevano comunque posizioni di grandissima perplessità sull’autonomia
e su altri cambiamenti.
Emerge,
quindi, secondo te, più un disagio verso alcune modalità
di attuazione e alcune priorità (per esempio, l’autonomia senza
riordino dei cicli) che un’opposizione ai processi di riforma? Insomma,
l’avvio del processo di riordino dei cicli, con la presentazione del piano
di attuazione, ha favorito o no una ripresa di fiducia e di credibilità
nelle istituzioni?
Secondo me sì! Peraltro
noi abbiamo commissionato a un’agenzia specializzata un sondaggio sull’atteggiamento
degli insegnanti rispetto alla riforma dei cicli e, pur presa “con le molle”,
la cosa che emerge è che il 60% della categoria è d’accordo
con il riordino dei cicli; questo non significa che è d’accordo
in assoluto con questa riforma, tuttavia risponde: «Sono per cambiare
la scuola italiana, non sono per mantenere l’attuale assetto», e
alla domanda: «Se tu avessi una richiesta da presentare al ministro,
qual è fra queste quella più forte?», solo il 7% risponde:
«Rinviare l’applicazione». Gli insegnanti chiedono garanzie
sugli organici, sulle fasce d’età: un insegnante di scuola media
non vuole essere costretto a insegnare a un bambino di scuola elementare
ma, in generale, i docenti non sono contrari al cambiamento e non potrebbero
esserlo perché l’insegnamento non è per niente un lavoro
statico.
Gli
avvenimenti del febbraio dello scorso anno, la contestazione del “concorsone”,
hanno lasciato il segno. In che modo queste elezioni possono favorire un
processo di ricomposizione, e quali errori sono da evitare in futuro?
Penso che adesso abbiamo
una risorsa in più: avere infatti circa 40.000 delegati eletti nelle
scuole significa contare per ogni passaggio contrattuale su referenti preziosissimi,
che non sono sostitutivi delle assemblee e della consultazione, ma hanno
una diversa agilità e quindi sono più facilmente consultabili.
Inoltre, il segnale che viene fuori da queste elezioni è, a mio
avviso, che non c’è una indisponibilità a ragionare anche
di politiche salariali innovative, ma che si pone il problema di condividerne
gli strumenti e le scelte. L’errore di fondo sulla vicenda dello articolo
29 (progressione di carriera), è stato di dare per scontato che
l’accordo integrativo fosse la logica conseguenza del Contratto di lavoro
e che quindi non ci fosse bisogno di una nuova consultazione della categoria.
Così non è stato e questo è stato un errore fondamentale
che porta a concludere che ogni qual volta si fa un contratto si deve fare
un referendum, che bisogna darsi i tempi necessari per discutere con i
lavoratori, che non esistono più scelte solo nazionali su
questi problemi, e tanto più con l’attuazione dell’autonomia scolastica:
a livello nazionale si devono fissare i criteri che poi si articolano a
livello di scuola; altrimenti si continua a mantenere un’impalcatura di
stampo burocratico-centralistico, analoga a quella del ministero, che si
vuole invece superare, e si continua a parlare di una generica professionalità
che dovrebbe andare bene dalla Valle d’Aosta a Pantelleria.
Quello
che emerge è in sostanza che gli insegnanti vogliono essere protagonisti
e partecipare in prima persona alle scelte da fare. Ma in che misura l’iniziativa
sindacale è in grado di rispondere a questa esigenza che implica,
oltre che una dimensione sindacale, quella culturale e professionale. C’è
la preoccupazione che nei rapporti tra Rsu e Collegio dei docenti
l’aspetto sindacale-vertenziale prenda il sopravvento su quello culturale-professionale...
A mio avviso, nella pratica
concreta, non si porrà alcun problema di invadenza di competenze
tra Rsu e Collegio dei docenti. Il pregio delle Rsu è che i soggetti
che contrattano vivono nello stesso luogo dove vivono e lavorano le persone
che le hanno votate; questo determina un clima per cui se una Rsu
o un dirigente scolastico fossero tentati di occupare spazi che competono
ad altri soggetti, questi sarebbero i primi a intervenire e a contrastare
tale invadenza.
Invece è possibile
che in alcuni Collegi continuino pratiche sindacali che invadono lo spazio
contrattuale delle Rsu e questo non va bene. Sulle Rsu può scaricarsi,
inizialmente, un eccesso di conflittualità, cioè quella che
nel Collegio è sopita oppure emerge dai verbali o da ripetute votazioni.
A mio avviso c’è innanzitutto la necessità di sedimentare
questa nuova situazione, infatti non si può pretendere che
sin dall’inizio tutto proceda nel migliore dei modi; inoltre occorrerà
riflettere con gli eletti Rsu su come gestire la conflittualità
e sugli ambiti e le modalità contrattuali. Noi abbiamo fatto un
patto con i nostri candidati che, se eletti, non sarebbero stati lasciati
soli ma li avremmo sostenuti con corsi di formazione, con l’individuazione
degli specifici ambiti contrattuali: insomma, abbiamo promesso di fare
un pezzo di strada insieme.
Infine, Rsu, autonomia scolastica,
decentramento del ministero, direzioni generali regionali: siamo in presenza
di un effettivo decentramento di poteri e il nostro sindacato che,
come tutti gli altri, ha costruito i propri livelli decisionali rispetto
a quelli di una Amministrazione centralizzata, ha oggi l’urgenza e la necessità
di cambiare il proprio baricentro e fare i conti con nuove energie, nuove
risorse e nuovi livelli di elaborazione e di contrattazione.
I
processi di riforma, la richiesta di protagonismo da parte dei docenti,
rendono necessario affrontare il problema della professione docente nella
sua complessità e nelle sue articolazioni culturali, professionali
e sindacali. Non ti sembra, quindi, necessario e urgente ricercare nuove
forme di collaborazione tra sindacato e associazionismo professionale -
tra noi e voi - che pur agendo su terreni distinti, ma non separati, perseguono
obiettivi di riforma democratica?
Per quanto riguarda i processi
di riforma, il sindacato è un interlocutore, alla pari di altri;
è un soggetto competente a intervenire e a esprimere un proprio
orientamento; questo significa che le riforme e i vari provvedimenti vanno
discussi con la pluralità dei soggetti sindacali e associativi presenti
nella scuola e, secondo me, questo è un fatto positivo. Certo, è
necessario ricercare forme permanenti di collaborazione abbandonando
una certa episodicità nei rapporti fin qui tenuti e costituendo
a tutti livelli sedi di dibattito (forum, tavoli di consultazione permanenti
e quant’altro) in cui ci si possa confrontare sistematicamente su specifiche
tematiche. Ciò significa che per tutti i processi riguardanti l’innovazione
dovrebbero istituirsi sedi di approfondimento e si dovrebbero definire
posizioni congiunte, sempre nel rispetto dei rispettivi punti di vista.
Secondo me, sulle questioni contrattuali l’associazionismo deve essere
coinvolto, fermo restando che è compito del sindacato firmare
i contratti.
Nei prossimi mesi dovremo
elaborare la piattaforma contrattuale 2002-2005, che avrà fra gli
altri compiti quello di affrontare tutti gli aspetti contrattuali che derivano
dal riordino dei cicli scolastici: orari di insegnamento, mobilità
professionale, formazione iniziale di livello universitario, retribuzioni
e quant’altro. È necessario quindi iniziare a confrontarsi e aprire
un grande dibattito perché il processo di riforma pone al
centro una riflessione sul profilo dell’insegnante che implica aspetti
sia contrattuali sia professionali, riguardanti in primo luogo la libertà
di insegnamento e la possibilità di elaborare un codice deontologico.
Sono convinto che fare
sindacato senza una cultura professionale significa impoverire gli strumenti
contrattuali e, d’altra parte, una cultura professionale che non fosse
in grado di fare i conti con le ricadute di carattere contrattuale rischia
di rimanere un fatto astratto. Occorre un patto politico fra i sindacati
e l’associazionismo sulla contrattazione. La scuola è oggi più
che mai terreno di scontro politico e culturale: le vicende sui libri di
testo, le questioni riguardanti la regionalizzazione dell’istruzione, intesa
come passaggio «dalla scuola della Repubblica alla scuola dell’assessore»,
le spinte verso una deregulation confermano questo dato e il modo più
forte per battere manovre di questo tipo è dimostrare che questa
scuola può essere riformata migliorando i suoi livelli di qualità
e di intervento rispetto al successo scolastico.
Allora
qual è il federalismo che può evitare che la scuola dell’autonomia
diventi, come tu dici, «la scuola dell’assessore»?
La scuola italiana deve
stare dentro un sistema nazionale di istruzione, cioè occorre
un centro nazionale molto più snello dell’attuale, che non gestisca
il personale, ma che sia in grado di perseguire alcuni obiettivi del sistema
scuola: progetto di scuola, obiettivi formativi, curricoli, standard
di valutazione e una serie di altre coordinate nazionali. Tutto il resto
è materia di decentramento che è fondamentale per avvicinare
l’istruzione ai cittadini ma anche alle dinamiche del territorio. Sono
contrario al modello di regionalizzazione che Formigoni vuole applicare
in Lombardia, poiché ha come unico obiettivo il controllo del personale
della scuola e dei programmi di insegnamento.
Quali
sono le prossime scadenze contrattuali?
È stata firmata a
dicembre un’intesa con il Governo che, oltre a rendere disponibili consistenti
risorse economiche, segna chiaramente l’intenzione di portare a compimento
i processi di riforma con il massimo coinvolgimento del personale. Per
esempio, sul riordino dei cicli si dice: il governo si impegna a consultare
la categoria a partire dalle proposte dei nuovi curricoli.
Abbiamo iniziato il confronto
sul secondo biennio contrattuale già a metà gennaio; le risorse
disponibili sono quelle dell’inflazione programmata, uguali per tutte le
categorie, la maggior parte delle risorse dell’ex art. 29 e altri
3.500 miliardi per tutto il triennio. Questa somma rappresenta l’avvio
di una fase nuova che consentirà di raggiungere i parametri europei
in due momenti: la prima, entro il contesto del contratto economico biennale
in corso, la seconda, entro il contratto 2002-2005, in cui il governo si
è impegnato a regolare i nuovi istituti contrattuali funzionali
all’attuazione della riforma dei cicli, oltre che a perseguire una equiparazione
a livello europeo della retribuzione e dello sviluppo di carriera. In merito
a ciò dovremo discutere le proposte da fare; nessuno oggi ha la
ricetta, però raggiungere l’Europa significa affrontare questi
problemi.
Potrà
determinarsi qualche sfasatura con l’attuazione del riordino dei cicli
in cui si definirà, comunque, una nuova professionalità?
Teniamo presente che dal
1° settembre 2001 il riordino dei cicli andrà in attuazione
nelle prime due classi del primo ciclo: da questo deriveranno delle conseguenze
sulla professionalità, sulla formazione, sull’orario, sull’inquadramento
ecc. Ci saranno però tempi diversi di applicazione per quanto riguarda
le persone direttamente coinvolte. La durata quadriennale del contratto
è temporalmente utile anche per regolare gli assestamenti successivi
alla prima applicazione della legge sul riordino dei cicli e degli istituti
contrattuali conseguenti.
Questa intesa consentirà
al docente di ogni ordine di scuola di passare nel rapporto di lavoro,
in tempi certi, da impiegato dello Stato a professionista dell’istruzione;
questo è il mutamento radicale reso possibile da una dinamica contrattuale
radicalmente diversa. Per esempio, la continuità scolastica tra
materna, elementare e media è stata un’esigenza sempre posta ma
mai risolta perché tutti gli strumenti normativi impedivano di affrontarla;
oggi la continuità può essere contrattualmente disciplinata
e implica flessibilità, maggiore responsabilità, insieme
a maggiore libertà progettuale.
Puoi
dirci qualcosa sugli ultimi accordi economici sottoscritti con il governo?
Gli aumenti saranno definiti
dal contratto e ci sono ancora troppe variabili per poter dare una cifra
attendibile. È certo che l’aumento per tutti i docenti sarà
superiore a quello delle altre categorie pubbliche. Oltre a questo, contestualmente,
Cgil, Cisl, Uil e Snals, con il documento del 20 settembre, hanno proposto
che una parte delle risorse ex articolo 29 vengano destinate alle scuole
per retribuire gli impegni professionali, decisi a livello di singola scuola
e connessi all’attuazione dell’autonomia scolastica. Questo non è
la riproposizione dell’articolo 29, ma significa che il lavoro che si decide
di fare nella scuola dell’autonomia deve essere retribuito. Quindi l’articolo
29 non esiste più, se ne parla soltanto come riferimento,
e si azzera così una concezione astratta di professionalità,
indifferente al contesto territoriale. Dare risorse in più alle
scuole significa retribuire le prestazioni, quello che concretamente le
persone fanno a scuola sulla base dei progetti e delle scelte del Collegio
dei docenti. Sarebbe davvero strano che, in regime di autonomia, il Contratto
di lavoro si occupasse esclusivamente di retribuire gli insegnanti per
quanto riguarda la prestazione definita a livello nazionale e non di garantire
anche risorse per retribuire ciò che le scuole, in autonomia, decidono
di fare.
Peraltro, teniamo conto
che le scuole oggi hanno a disposizione circa 40.000 lire nette al mese
per ogni docente o Ata per retribuire il lavoro deciso nell’Istituto. Una
pochezza non più giustificabile!
numero 3/2001
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