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Scuola di base: una riforma da “costruire”
editoriale - di Giancarlo Cerini

La scuola di base di sette anni, che – a grandi linee – prende il posto delle attuali scuole elementare e media, rappresenta senz’altro uno degli esiti più innovativi del riordino dei cicli (ora Legge dello Stato n. 30 del 10 febbraio 2000).
Il profilo del nuovo ciclo, però, è appena abbozzato: ancora un’intuizione, piuttosto che un disegno compiuto. C’è tuttavia una ricerca “nobile” alle radici della scuola di base unitaria (basti pensare a Ciari, Laporta, Pontecorvo) e ci sono state numerose esperienze innovative in Italia e, ancor più, in Europa (specie nei Paesi scandinavi). Ma ci sono, soprattutto, convincenti motivazioni culturali e sociali: si tratta, infatti, di rendere più coerente e solida la formazione di base, che deve garantire la padronanza dei linguaggi e delle abilità fondamentali (i saperi procedurali) e una prima organizzazione dei saperi sul mondo (le conoscenze “dichiarative”). Sappiamo anche che la formazione obbligatoria non si esaurisce nella scuola di base, ma implica che tutti i ragazzi frequentino almeno per due anni le scuole superiori, come gradino forte che sostiene i successivi percorsi differenziati, ma obbligatori, fino a 18 anni (scelta tra le più avanzate in Europa, che depone a favore della valenza democratica del riordino dei cicli).
Questo profilo unitario dai 3 ai 18 anni, di grande suggestione pedagogica, ha un punto di cerniera decisivo nella nuova scuola di base settennale. Questa chiama in causa le migliori tradizioni della scuola elementare e media, ma chiede anche di reinterpretarne le funzioni: un ambiente di apprendimento che stimoli motivazioni, curiosità e partecipazione, ma che offra solidi alfabeti e codici per rappresentare il mondo, comprenderlo, comunicarlo.
C’è oggi un’aspettativa di maggior sicurezza sui livelli di alfabetizzazione funzionale (in merito a fondamentali abilità logico-linguistiche) che non può essere elusa. La socializzazione e l’accoglienza non sono più sufficienti a interpretare il ruolo della scuola di base nella formazione dei cittadini, perché oggi si tratta di insegnare ai ragazzi a muoversi in uno spazio culturale sempre più complesso e ricco di segni, oggetti, immagini, tecnologie.
Ma proprio per questo occorre un’interpretazione evoluta dei modelli di apprendimento, del valore “gnoseologico” (formativo) delle discipline di studio (cioè del loro effettivo promuovere processi cognitivi), delle necessarie coerenze sul piano metodologico (ove una didattica laboratoriale, operativa, di stile cooperativo si fa nettamente preferire a didattiche unilaterali, povere e trasmissive).
Da queste premesse può nascere una strategia di coinvolgimento dal basso, che metta al riparo la riforma dai prevedibili contraccolpi delle vicende politiche nazionali e locali.
Ci sono indirizzi politici da assumere, commissioni di esperti da attivare, nodi importanti da sciogliere. Quale sarà l’articolazione interna del settennio? Quale l’impianto curricolare? E la collocazione professionale degli insegnanti? Le strutture edilizie? Questioni assai concrete, da interpretare con molta saggezza, senza rinunciare ai compiti di indirizzo nazionale che sono propri del governo centrale anche in epoca di autonomia e federalismo.

numero 7-8/2000


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