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Editoriale - Insegnare a insegnare - di Emma Colonna
È tempo di concorsi. Centinaia di migliaia di giovani e meno giovani sono impegnati, con qualche speranza ma anche con molta ansia, nella preparazione. E in numerose città d’Italia c’è un Cidi che organizza corsi di preparazione ai concorsi. Un po’ dovunque quindi ci si è buttati a capofitto in questa esperienza. Superato il primo impatto però, e le non poche difficoltà organizzative della fase di avvio rispetto a una domanda la cui portata era sicuramente prevedibile ma la cui entità effettiva si è andata delineando momento per momento, è cresciuto sempre di più in noi, insieme alla consapevolezza della consistenza del fenomeno, lo sgomento per l'enorme responsabilità di cui ci siamo caricati. Siamo di fronte a dei laureati, quindi dobbiamo presupporre che i contenuti disciplinari siano già posseduti da tutti in partenza. E allora, che cosa chiedono a noi, e perché - come ci dicono molti di loro - scelgono non a caso i nostri corsi rispetto a altri tenuti, per esempio, da docenti universitari? Perché - ci dicono - siamo gente di scuola, e quindi ci viene chiesto di insegnare a fare scuola, non a prescindere dal contenuto disciplinare, ma attraverso quel contenuto stesso. Inoltre, ci viene chiesto di insegnare come partecipare a un concorso (saper scrivere un testo corretto, rispettare le consegne, essere completi ma non prolissi ecc.) e anche di riuscire a valorizzare tutte le conoscenze di ognuno e a organizzarle o riorganizzarle nell'ottica del concorso. Non a caso la prima fondamentale richiesta di ogni corsista è una bibliografia ragionata ma essenziale. Infine, ci viene chiesto di insegnare le cose che facciamo a scuola tutti i giorni: selezionare i contenuti; correggere e valutare; valorizzare le capacità di tutti; in breve, insegnare la cultura della scuola. Ai colleghi che abbiamo impegnato come docenti dei corsi quindi diciamo: questa esperienza ha un grande valore culturale perché da essa uscirà, per forza di cose, la fisionomia della scuola italiana dei prossimi anni. Lo spessore culturale dei futuri insegnanti dipende probabilmente dall'università che hanno frequentato, ma la loro professionalità si formerà sicuramente, per una parte non secondaria, in questo passaggio. Facciamo quindi il nostro lavoro, e facciamolo bene. Ai candidati al concorso diciamo: frequentare un qualsiasi corso, che sia il più valido, il più ricco, il più completo, non serve a niente se non ci si mette a studiare. Un buon corso serve a orientare e organizzare lo studio, a non disperdere le energie, a non lasciarsi prendere dal panico, ad avere dei momenti di verifica del proprio lavoro, a confrontarlo con gli altri. Però per superare un concorso (e soprattutto di queste dimensioni) non ci sono scorciatoie: bisogna studiare e essere bravi. Noi (a parte qualche deficit organizzativo, di cui speriamo ci abbiate già perdonato) stiamo facendo del nostro meglio per aiutarvi in questo sforzo. Al ministro della Pubblica Istruzione ed ai componenti delle commissioni, invece, diciamo: su questa tornata concorsuale, così attesa e così importante, c'è un enorme investimento di energie umane e di risorse individuali e collettive: facciamo in modo che essa si svolga nella massima serietà, rigore, trasparenza e efficienza: quelli che supereranno questo concorso dovranno essere davvero i più bravi. Di loro la nostra scuola ha bisogno. Infine a noi stessi, ai Cidi, diciamo: abbiamo fatto bene a buttarci a capofitto in questa avventura. Guardiamo a questo impegno come a un'occasione anche per noi, come a un'opportunità per dare nuova linfa alla nostra organizzazione; facciamo cioè dell'iscrizione al Cidi dei giovani che frequentano i nostri corsi un fatto non formale ma la costruzione di una nuova appartenenza e in prospettiva di un rinnovamento di tutto il Cidi. In conclusione, mi sia consentita qualche considerazione più generale. Per comprendere la portata di questo fenomeno non basta solo dire che i dieci anni che ci separano dai precedenti concorsi sono tanti. Bisogna chiedersi infatti come mai uomini e donne che in qualche caso hanno già un altro lavoro tentano comunque il concorso nella scuola. E' proprio vero che la figura dell’insegnante è dimessa, povera e non considerata? Forse la figura sì (è addirittura logora in certi casi), però il ruolo no: esso conserva una sua incontestabile, antica dignità, che gli viene da molto lontano, dall'inizio della storia, e che niente potrà mai cancellare. Il nostro è un lavoro dipendente ma non è un lavoro esecutivo. L'insegnante è un intellettuale che organizza autonomamente il proprio lavoro in costante rapporto con gli altri. E ci fa molto piacere, a noi che lo facciamo con passione da anni, che siano in tanti a voler fare questo mestiere. |