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Una lingua da salvare di Elvira Federici
A qualche mese dalla diffusione
del manifesto “In difesa dell’italiano”, è vivo il dibattito sulla
nostra lingua: l’evoluzione-involuzione linguistica è fenomeno controllabile?
La rivista “I&O” nel
numero 3-4 2001 tenta lodevolmente una riflessione sull’iniziativa della
quale, dal luglio scorso, è stato possibile leggere notizie sui
maggiori quotidiani, dopo che un gruppo di parlamentari, cui si sono aggiunti
giornalisti, scrittori, poeti, ha dato vita ad un’associazione denominata
“La Bella Lingua” e diffuso il manifesto: In difesa dell’italiano.
Fa di più: con una serie di domande mirate apre un dibattito sulla
legittimità di una difesa della lingua, sulla natura delle offese
che può aver subito, sui possibili colpevoli, sui soggetti in condizione
di difenderla; infine, sul ruolo che in questo può giocare la scuola.
Nel manifesto, che ha tra
i primi firmatari Saverio Vertone e Luigi Manconi, si sostiene che la nostra
lingua, non diversamente dalle grandi lingue dell’Europa -inglese a parte-
è minacciata «dal disinteresse di chi la parla e la scrive
(…) dalla ripresa dei dialetti, dall’insorgenza dei gerghi corporativi
e dall’avanzata del pidgin English». Diventa dunque necessario
un movimento di resistenza attiva contro l’inquinamento della lingua.
Il documento, che ha il
pregio di descrivere con accenti al tempo stesso amorosi ed esatti la nostra
lingua, individua, forse genericamente, il pericolo più forte in
«chi si augura la sua rapida estinzione per poter approdare, quanto
prima, a un mondo globalizzato, dove la comunicazione corrente sia affidata
ai dialetti e quella culturale al basic English.»
Secondo gli estensori del
manifesto «il colpevole è il plagio culturale» che,
come le previsioni che si autorealizzano, accelera le tendenze della globalizzazione.
E tuttavia, in un’impresa
come questa, la difesa dell’italiano, tanto necessaria quanto bisognosa
di un’attenta valutazione, non aiuta l’ipotesi di un Moloch senza volto,
di una impersonale «idolatria per tutto ciò che è globale
o locale»: se di una battaglia politica si tratta – a questo richiama
il manifesto – sarà utile ancorare la riflessione ai soggetti, alle
responsabilità, ai contesti.
I pareri che “I&O” riporta
girano in effetti intorno alla questione delle questioni: se cioè
intorno ad una lingua, organismo vivo e come tale soggetto a trasformazioni
- tanto più vivo in quanto flessibile e disposto a trasformarsi-tradirsi
- sia possibile costruire argini.
Il paradosso delle lingue
(proprio come per quelli che le parlano) sta proprio nel difficile equilibrio
tra stabilità e cambiamento: se una lingua è troppo stabile,
poco permeabile alle novità, si cristallizza e, tutt’al più
sopravvive in aree di nicchia; se si trasforma, adattandosi ai cambiamenti
imposti dai parlanti e nella misura in cui cambiano i parlanti stessi,
diventa molto spesso un’altra lingua, valga per tutti l’esempio del sardo,
la lingua più prossima al latino, e dell’italiano, appunto. (E,
senza la scrittura, che fissa regole, forme, canoni avremmo isolato con
difficoltà il latino dal continuum che porta alle lingue
romanze).
Quale l’orizzonte culturale
del “parlante” oggi?
Il limite concettuale ad
una qualsivoglia azione sistematica sulla lingua è lo stesso che
riguarda fenomeni che non sono alla portata del nostro controllo: i movimenti
tellurici come le migrazioni umane.
Ma, per i primi come per
le seconde, un compito umano è proprio quello di prendersi cura
di ciò che è umano. Se le trasformazioni in vista sono radicali
e rischiano di essere devastanti, è necessario predisporre misure
di sicurezza efficaci, forme di manutenzione continua.
E se ammettiamo che la nostra
lingua corra dei pericoli soprattutto per effetto del dilagare del basic
English, della banalità comunicativa di mass media, dj,
pubblicitari e conduttori televisivi; del politichese, del proliferare
dei gerghi professionali, della perdita di prestigio rispetto a lingue
che consentono più ampia comunicazione, allora sono possibili interventi
di natura politica, interventi legislativi – in numerosi Paesi europei
questo già accade- volti alla tutela delle forme, alla promozione
del patrimonio linguistico, al riconoscimento dell’italiano come lingua
ufficiale dello Stato e all’interno dell’Unione Europea. Per questo,
in modo diverso, potrebbero impegnarsi istituzioni come l’Accademia della
Crusca, la Società “Dante Alighieri”, gli Istituti di cultura all’estero.
E, come suggerisce il linguista Carlo Alberto Mastrelli anche un
osservatorio con un gruppo di garanti …)
Ma, se consideriamo i fenomeni
elencati, più che una causa, una conseguenza dei rischi che corre
la nostra lingua, allora dobbiamo interrogarci sui soggetti che parlano-scrivono
e sul mutato orizzonte culturale in cui si muovono.
Se i cambiamenti della lingua
dicono il cambiamento della vita, delle relazioni, della comunicazione,
delle fonti di autorità della conoscenza e della cultura, dei canali
privilegiati dell’informazione allora, accanto agli interventi proposti,
sicuramente utili e positivi, occorre pensare a come – e dove- farsi carico
di questo mutamento e prendersi cura dei bisogni linguistici dei soggetti
in esso implicati.
Le copiose ricerche sociolinguistiche
sulle tendenze evolutive della lingua italiana segnalano la progressiva
prevalenza del paradigma del parlato sullo scritto, che trasferisce nelle
strutture linguistiche dell’italiano standard, modellato sul paradigma
della scrittura, le sue caratteristiche tipiche: fluidità, interscambiabilità
di elementi morfologici, lessicali o sintattici, labilità dei nessi,
affidati frequentemente ai deittici, ridondanza e indeterminatezza data
da riempitivi e ripetizioni. (D’altra parte l’espressività lessicale
dei dialetti, lingue parlate per eccellenza, si è andata perdendo
sotto la spinta dell’italiano standard, con il quale i dialetti ormai si
mescolano come registri della stessa lingua).
Se si scompagina la sintassi...
Un terremoto che scompagina
soprattutto la sintassi – quella che nel manifesto In difesa dell’italiano
è considerata la maggiore ricchezza dell’italiano e che viene comunque
indicata come “la struttura ossea di qualsiasi linguaggio”.
Ci avviciniamo così
al problema già sollevato da Raffaele Simone nel tracciare un bilancio
delle 10 Tesi per un’educazione linguistica democratica, vent’anni
dopo la loro redazione, e più sistematicamente nel suo ultimo libro
: il modello proposizionale, principale portato della cultura alfabetica,
gerarchico, consequenziale, “sintatticamente articolato”, cede il passo
a quello non articolato, simultaneo, destrutturato. Che questo stia accadendo
è incontrovertibile; di quale natura sia questo accadimento è
difficile dire: si può interpretare come una catastrofe culturale
destinata a divorarsi tutte le forme del pensiero occidentale o piuttosto
come ad un cambiamento - secondo un paradigma di contaminazione e di inclusione-
che sta nelle cose e del quale dobbiamo cogliere gli sviluppi e valorizzare
le tendenze positive.
Perché dimenticare,
d’altra parte, che a fronte di una lingua che perde di incisività
sono incredibilmente aumentati i soggetti che prendono la parola? Troppo
facile una bella lingua letteraria per una ristretta comunità di
letterati !
Quanti, prima delle “devastazioni”
massmediologiche e della globalizzazione avevano diritto di parola? Qual
era il campo di azione-comunicazione, interazione, scambio dei dialetti?
Quanti possedevano il controllo
effettivo della efficiente macchina ordinatrice del pensiero che è
la sintassi?
Non più di oggi,
forse; solo che gli altri tacevano. Non si arrogavano il diritto di prendere
la parola o non avevano spazi per proferirla.
La lingua che effettivamente
si parla e si scrive è l’oggetto e il fine della educazione linguistica
La scuola è stata
la prima – e mi riferisco al lungo percorso in senso democratico che l’ha
caratterizzata- a promuovere il diritto di tutti alla parola.
La televisione, ahimé,
non è stata da meno!
Questo per segnalare a quale
incrocio di dinamiche sociali e culturali la scuola si colloca e per provare
ad indicare insieme i limiti della portata del suo intervento e la sua
responsabilità.
Lo spazio della scuola come
luogo privilegiato per l’accesso ai saperi si è infinitamente ridimensionato
a fronte di un consumo planetario di conoscenze, informazioni, esperienze
raccolte per esposizione, in forma olistica, non riflessa né riflessiva
e di una crescità esponenziale dei consumatori stessi.
Il suo compito è,
per così dire, di “processare” con l’aiuto di dispositivi storicamente
e culturalmente strutturati come le discipline quel tipo di conoscenze
fornendo per esse un filtro metacognitivo che permetta la sistemazione,
la riorganizzazione, la gerarchizzazione delle stesse.
In questo compito il ruolo
della lingua – elemento strutturante del pensiero e dell’esperienza- è
in primo piano- solo però se l’insegnamento si fa radicalmente
carico della sua valenza comunicativa e della sua capacità di produrre
senso. Se ci si rende davvero conto che attraverso il bisogno di prendere
la parola, per mezzo di una lingua sintatticamente agile, semanticamente
ricca, pragmaticamente aderente al contesto sia nell’oralità che
nella scrittura, si può agire sulla chiarezza e l’articolazione
del pensiero.
La lingua che effettivamente
si parla e si scrive dovrebbe essere insieme l’oggetto ed il fine di una
buona educazione linguistica, che sottopone alla riflessione dei parlanti
le sue forme, le sue varianti, i suoi “errori”. Di massimo aiuto la letteratura
come deposito di forme e terreno di sperimentazione e innovazione, ma anche
come catalizzatore affettivo che aiuta a specchiarci nella - bella - lingua
che parliamo.
numero 6-7/2001
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