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Forum - Quale idea di scuola?
con Nadia Masini, Silvano Tagliagambe, Bruno Forte, Alberto Oliverio, Alba Sasso*
La prossima attuazione
dell’autonomia scolastica, già al secondo anno di sperimentazione,
l’approvazione di vari altri provvedimenti tra cui, fondamentale, la legge
di riordino dei cicli scolastici, pongono il problema del significato complessivo
del processo di trasformazione in corso. Nel momento in cui si apre la
decisiva partita di quali contenuti riempire quella che per ora è
solo la cornice del nuovo ordinamento, nasce prioritaria la domanda fondamentale:
qual è l’idea di scuola che il processo di riforma sta delineando
e a quali domande sociali intende rispondere?
Abbiamo invitato a discuterne
in redazione alcuni dei protagonisti del dibattito che si è aperto
nel Paese.
Una scuola capace di dare a ciascuno
molto, anche se in modo differenziato
Nadia
Masini. L’idea alla base dell’intero processo riformatore è
di creare un nuovo sistema di istruzione e formazione capace di corrispondere
all’esigenza sia di estendere e qualificare l’offerta formativa per ciascuno
nell’arco della vita, sia di assicurare a ciascuno il diritto al successo
formativo. Quando negli anni sessanta con l’importante scelta della scuola
media unica si è aperto il processo della scolarizzazione di massa
che raccoglieva l’esigenza sociale di assicurare a tutti un livello più
elevato e adeguato di istruzione, il problema emerso ma non affrontato,
era come alla scuola di massa far corrispondere la qualità che consentisse
a ciascuno di raggiungere il successo formativo. La scuola per tutti e
per ciascuno è uno dei punti da affrontare nell’attuale processo
di innovazione: pensiamo a una scuola che consenta, proprio perché
scuola per ciascuno, di riconoscere la diversità di ciascuno. Infatti,
è difficile poter assicurare a ciascuno il successo formativo se
non si affronta il riconoscimento delle diversità. Questo richiede
la rottura di una gestione (più che di un governo) uniforme che
presuppone la stessa risposta a domande assolutamente diverse, e una scuola
non eterodiretta che nello stesso tempo condivida e abbia come traguardo
un’idea di eguaglianza di opportunità. Infatti, l’autonomia, volta
a creare le condizioni in cui esercitare tale diritto, non può essere
intesa come il “fai-da-te”: essa agisce in un quadro di regole che tengono
insieme non solo il carattere nazionale del nostro sistema di formazione
ma anche la possibilità di raggiungere obiettivi che siano comuni
e condivisi. La riforma dei cicli - una riforma
di ordinamento - dovrebbe consentire di creare la condizione per dare all’intero
percorso formativo quel carattere di organicità di impianto che
superi le attuali separatezze, le discontinuità, le varie “parti”
riformate secondo principi e con criteri diversi, che sono alla base di
molta parte degli attuali problemi. Ma
è anche lo strumento che agisce in un quadro di altre scelte, già
normate, volte ad allargare le opportunità formative secondo il
principio di integrazione - per esempio, tra la scuola e gli altri luoghi
di formazione -, tenuto conto che dopo l’innalzamento dell’obbligo di istruzione
è previsto un obbligo formativo che si realizza in percorsi diversi
ma con un tratto comune di formazione culturale.
Oggi
ragioniamo quindi su una scuola che riconoscendo la diversità assume
con molta più decisione alcune funzioni essenziali per garantire
questo diritto, in particolare le funzioni forti di orientamento.
Queste presuppongono una didattica che fin dalla scuola dell’infanzia aiuti
a far emergere le vocazioni, le attitudini, i bisogni, le esigenze individuali.
Il presupposto di tale innovazione è una scuola che abbia qualità,
dalla qualità del personale che vi opera alle condizioni materiali
nelle quali si svolge il percorso di apprendimento e insegnamento. Il tema
dei diritti non è estraneo a questo obiettivo: se
al centro c’è il soggetto di diritto della formazione, allora è
quello il punto di riferimento, è il diritto all’apprendimento che
deve orientare il tipo di insegnamento. La qualità è
una condizione perché questi obiettivi, che ridefiniscono anche
socialmente il senso della funzione della scuola, possano essere assicurati.
Oggi, ancor più di ieri, la scuola è soggetto primario che
deve riaffermare la funzione della formazione come centrale e discriminante
rispetto sia all’esercizio dei diritti individuali, sia all’affermazione
dei diritti generali. Cambia, quindi, la funzione della scuola oggi.
Scuole capaci di progettare e di lavorare
in stretta connessione con il territorio
Silvano
Tagliagambe. Anch’io credo che quello della domanda di istruzione
personalizzata sia uno degli elementi qualificanti della domanda sociale
alla quale la scuola deve rispondere. Accanto a questo però metterei
come cardine del processo di riforma un altro elemento per me fondamentale:
il passaggio a un’idea di scuola come progetto,
inteso non come libertà incondizionata, forma di creatività
assoluta ma come capacità di muoversi in modo coerente e organizzato
all’interno di un insieme di vincoli chiari. Concepire la scuola
come progetto significa che il centro deve trasmettere alla periferia esclusivamente
questo sistema di vincoli, non più contenuti e programmi ma dei
vincoli traducibili in obiettivi, intorno ai quali la scuola deve muoversi,
definendo uno spazio ampio di libertà degli insegnanti per costruire
il progetto formativo.
Questa concezione della
scuola come progetto comporta automaticamente una ridefinizione organizzativa
e didattica: gli insegnanti, che finora attraverso la mediazione dei programmi
si sono rapportati al centro che emanava le direttive, devono sentirsi
parte di una comunità in cui si lavori insieme sulla base di una
conoscenza di sfondo condivisa e di obiettivi comuni.
Naturalmente la conoscenza
condivisa e la comunità orientata sugli obiettivi non devono essere
un modo per rinchiudersi all’interno di spazi ristretti; il
pericolo insito nell’autonomia è, infatti, di venir intesa come
localismo, che sarebbe la negazione delle spinte di apertura della scuola
alle esigenze del mondo moderno. Devono invece essere coniugate
con un processo di conoscenza e comunicazione estesa: la scuola, che lavora
all’interno di una comunità locale e opera in stretta connessione
con il territorio, per non essere rinchiusa all’interno di una logica puramente
localistica deve disporre di strumenti, linguaggi, mezzi e capacità
effettive per aprirsi al modo esterno e dialogare con un ambiente il più
possibile esteso. Le nuove tecnologie e le reti sono il mezzo efficace
e concreto che permette questo tipo di comunicazione; anzi, la collaborazione
in rete è oggi l’unico strumento che ci consente di avviare la scuola
verso quello che con un eufemismo brutto ma efficace si chiama processo
di glocalizzazione, perché risponde all’esigenza di coniugare
la componente di radicamento nel locale - senza la quale si perdono identità
e capacità di azione effettiva - con la necessità di aprirsi
alle istanze della globalità in uno scenario il più possibile
vasto.
Quest’idea di scuola come
progetto comporta un diverso rapporto tra docenti e una diversa gestione
della didattica, una didattica che impari a misurarsi con i grandi temi
e con la pluralità di prospettive e angolature che la loro trattazione
richiede: temi come lo sviluppo sostenibile, la città, l’energia,
le biotecnologie, la bioetica sono tutti esempi di temi che è impossibile
affrontare se non si impara a instaurare un lavoro di cooperazione effettiva
tra matrici disciplinari e competenze differenti.
Ma una scuola come comunità
deve saper instaurare anche un diverso rapporto tra studenti e docenti,
fatto di dialogo, all’interno del quale non vedo nessun pericolo nel fatto
che gli studenti possano portare positivamente delle competenze e delle
abilità rispetto alle quali siano in una posizione eventualmente
di livello superiore rispetto a quelle degli stessi insegnanti. Mi riferisco
all’agilità e alla prontezza maggiori che gli studenti hanno nella
competenza informatica, da cui può derivare una nuova cooperazione
con gli insegnanti.
Un diverso posizionamento tra idea di
centro e di periferia
Bruno
Forte. Una metafora ha guidato sin qui il cammino della scuola,
la metafora del tempio che implicava ritualità, sacralità,
quindi distanza dal mondo considerato profano. Questa metafora è
ancora presente, anche se oggi viene sostituita un po’ meccanicisticamente
con un’altra metafora, parimenti chiusa, quella del mercato implicante
il consumo, quasi che la scuola possa rappresentarsi come una sorta di
supermarket nel quale ciascuno individualmente consuma quello che vuole,
prende quello che gli serve. Entrambe le metafore contengono un’idea individuale
di scuola, mentre essa è per sua natura un luogo sociale, una comunità.
Una
comunità di apprendimento corrisponde a questo: si impara insieme;
la scuola è strutturalmente diversa dall’idea individuale, e ciò
non significa che non debba puntare all’individualizzazione dell’insegnamento
attraverso percorsi differenziati, ma questo avviene dentro una comunità
sociale, dentro un tessuto, un “clima” sociale. Se la scuola
è un sistema non esiste una periferia, ma tanti centri, è
una realtà policentrica, che va opportunamente correlata e messa
in rete in una logica forte di dialogicità, di confronto, di interazioni
e relazioni di scambio. Allora vorrei proporre la metafora dell’organismo
vivente che si inserisce all’interno di una geografia urbana o, meglio,
di un’ecologia urbana. Il problema oggi è
passare all’idea di una scuola istituente, cioè di una scuola che
dal basso costruisce, istituisce se stessa, si dà un profilo, un’identità,
perché la scuola fondamentalmente è un luogo di pratiche
e di interazione tra pari, in cui i ragazzi sono fonte essi stessi del
loro apprendimento e il profilo professionale dei docenti diventa il profilo
di coloro che istituiscono la condizione di regia e quindi creano condizioni
promettenti perché ciò possa avvenire; e imparano essi stessi,
docenti, dalle pratiche: un’idea della pratica professionale come fonte
di ricerca e di formazione per lo sviluppo. Nel ragionare poi intorno al
tema scuola è importante posizionare un fatto: la scuola si colloca
a un certo punto, cioè c’è qualcosa di fondamentale che avviene
prima della scuola; non dimentichiamo mai che uno degli apprendimenti fondamentali,
l’imparare a parlare, non avviene a scuola perché probabilmente
se avvenisse a scuola non avverrebbe mai; il problema è che avviene
all’interno di una forte dinamica di interazione, di immersione negli scambi
che sono affettivi, emozionali, relazionali, informali. La scuola deve
tener conto di tutto questo patrimonio elaborato prima di sé, fuori
da sé; è un patrimonio che i ragazzi portano, quello che
chiamiamo teorie ingenue sulla realtà, rappresentazioni su sé,
degli altri e del mondo, e sono rappresentazioni da sistematizzare, problematizzare,
far interagire in questo luogo plurale che è appunto la scuola.
E, ancora, c’è una vita che continua durante la scuola, di cui essa
non può non tener conto e sono gli apprendimenti in ambienti altri
nei quali il bambino, il ragazzo, il giovane vivono e fanno esperienza:
sono apprendimenti sicuramente maturativi e sta alla scuola dunque il compito
di sistematizzare e problematizzare. Poi la scuola finisce, a un certo
punto, grazie a Dio, ma continuano o dovrebbero continuare i suoi effetti
positivi avendo sollecitato quella curiosità, quella voglia di continuare
a imparare. Da ciò, direi che la scuola
debba formare a un’idea parziale, non finita, di qualcosa che continua,
all’esigenza di continuare a cercare, dando gli strumenti per saper cercare,
sapersi orientare. Questo orientamento che continua finché
uno vive, nelle diverse stagioni della vita meriterebbe un approfondimento.
C’è poi un problema
del contesto in cui la scuola si trova ed è il contesto della città,
del paesaggio urbano. La scuola sta dentro la città perché
altrimenti non potrebbe sviluppare quei diritti e doveri di cittadinanza
che sono fondamentali oggi: qui si gioca tutto il grande tema del successo
delle persone, non solo successo scolastico ma personale, formativo, professionale,
identitario come uomo/donna e cittadino. Allora, se
il contesto fa testo, è sbagliato puntare tutto sulla sola scuola;
la scuola va vista dentro le dinamiche sociali, culturali, civili, le dinamiche
di una pedagogia della città, e sarà ricca o povera
non soltanto se essa è buona o cattiva scuola, ma se è in
grado di interagire con un contesto avvertito, attento, in grado di alimentare
l’offerta formativa scolastica; nello stesso tempo l’offerta formativa
scolastica potrà entrare in circolo e valorizzare tutta la città.
La scuola deve considerare il paesaggio
culturale mutato per indicarne chiavi di lettura
Alberto
Oliverio. L’età degli studenti rappresenta spesso un
problema per gli insegnanti; nella fase preadolescenziale i progetti trovano
una più facile implementazione, perché è in essa che
nascono i problemi. Vado spesso in Istituti, anche tecnici, e mi rendo
conto della difficoltà enorme che hanno i docenti nell’interagire
con questi ragazzi. Ci può essere il progetto, ma la difficoltà
poi di interrelarsi con gli studenti è notevole. A proposito del
localismo, molti ragazzi sono delocalizzati, molte famiglie sono delocalizzate,
le scuole sono plurietniche. Evocare la realtà locale non è
un fatto semplice, le cose che possono aggregare
i ragazzi sono, spesso, identità di tipo trasversale: il mercato,
le passioni giovanili, le mode giovanili, il modo di parlare e così
via... Un punto che viene spesso sollevato è la invasività
delle forme di cultura e di intelligenza, che Raffaele Simone1 definisce
simultanee, che rappresentano il concorrente numero uno della scuola. Ciò
che i docenti devono fare è in qualche modo venire a patti con queste
culture giovanili e con il modo di assorbire problemi o idee o mode. La
scuola dovrebbe sollecitare i ragazzi ad analizzare l’ambiente in cui vivono,
l’influenza dei media, di Internet, dei videoclip. Sviluppare, tutto sommato,
un’analisi della cultura simultanea è un aspetto da considerare.
Noi cerchiamo di potenziare la sequenzialità, la logica, l’analisi
e non di competere con la concorrenza fortissima anche esterna che è
quella del bagno della cultura olistica. Se dovessi dare un’indicazione
sarebbe quella di cercare di coniugare l’analisi di questa cultura olistica,
simultanea, con l’approccio interdisciplinare che spesso è stato
sottolineato; varie competenze nell’ambito della scuola potrebbero soffermarsi
su questi aspetti che sono cari ai ragazzi e che costituiranno sempre di
più il collante interetnico. Nel nostro Paese non siamo stati ancora
investiti in maniera massiccia da questo aspetto della scuola, cioè
da culture, religioni, etnie diverse; in Paesi come l’Inghilterra e più
di recente la Francia, questo rappresenta un problema prevalente: trovare
un collante tra ragazzi con tradizioni familiari completamente diverse
che non hanno radici locali e vogliono asserire i loro valori, diventa
un problema notevole. Già nella scuola di base si presentano
le richieste di etnie diverse e anche di religioni diverse, contestazioni
rispetto a culture dominanti o ai problemi dominanti che vengono insegnati.
Uno degli aspetti che deve considerare la scuola è il paesaggio
mutato, non per battere la strada in concorrenza della simultaneità,
dei nuovi media e così via, ma per indicarne una chiave di lettura.
Tener conto di quanto nella scuola si
è elaborato e sperimentato in questi anni
Alba
Sasso. Le cose che diceva Nadia Masini rimandano a un’idea di
scuola sulla quale bisogna ancora lavorare: una scuola come strumento di
decondizionamento sociale, come strumento per il successo formativo, che
riesca a coniugare democrazia e qualità, una scuola insieme di massa
e di qualità. Perché ritorno a questa questione? Perché
oggi, in questo paesaggio mutato di cui parlava Oliverio, bisogna vedere
come la scuola si rapporta a questo mutamento. A
che cosa serve oggi la scuola? Serve a piegarsi a quelle che sono le culture
nuove? A rincorrere gli altri luoghi della formazione? A riprodurre il
suo modo di essere, le sue consuetudini ecc.? Qui il problema
è molto delicato; un elemento di conservatorismo - mi rendo conto
che dico una cosa in controtendenza - nel processo di formazione deve esserci
conservazione degli aspetti più rilevanti e significativi del patrimonio
culturale e di valori che hanno contribuito a dare identità al nostro
Paese. Molte volte mi interrogo - come penso facciano tanti - sul perché
delle riforme: perché dobbiamo cambiare la scuola? Miglioriamo gli
ingranaggi, facciamo funzionare meglio quello che abbiamo e poi sia quello
che deve essere. Certo, so che non ci possiamo accontentare di questo.
È indubbio che ci troviamo di fronte a un crocevia difficile: per
parlare di che cos’è la scuola oggi, bisogna ragionare di che cos’è
la scuola rispetto a un sistema produttivo, a come cambiano i lavori, all’innovazione
tecnologica, a una riflessione culturale che oggi non c’è a sufficienza.
Dove sono i luoghi della riflessione culturale? E l’università?
Il sapere della scuola dove si costruisce? In rapporto a quale elaborazione
del sapere? Rispetto a quale sistema di valori? Qual è l’identità
che deve, oggi, costruire la scuola? E allora è
necessario fare uno sforzo per capire intanto che cosa ha fatto la scuola
in questi anni. A queste domande, che noi oggi ci poniamo, in qualche modo
la scuola ha già risposto: male, bene, comunque scegliendo sempre...
(c’è una metafora che noi usavamo al Cidi: gli insegnanti hanno
proceduto come le talpe, scavando silenziosamente nuovi cunicoli...). Rispetto
a ogni bisogno si è cercato di capire, di elaborare nuove strategie
didattiche, si sono fatte delle scelte, si sono seguite alcune strade.
Adesso è il momento di ragionare su queste elaborazioni, su che
cosa hanno prodotto, per esempio, i programmi della media, gli orientamenti
della materna, la riforma dell’elementare, le sperimentazioni della superiore,
insomma in che modo tutte queste questioni si sono confrontate anche con
soggetti, bambini e ragazzi del mondo di oggi, profondamente mutati; perché
ha ragione Simone quando dice che è cambiata la loro intelligenza.
Nel momento in cui vogliamo ridefinire il ruolo della scuola e il suo sapere
dobbiamo fare i conti con questo serbatoio di pensiero, di operatività,
di scelte, di modo di lavorare che la scuola ha prodotto, perché
altrimenti corriamo il rischio di andare verso un “nuovo” rispetto al quale
i soggetti che devono portare avanti le riforme non sono in grado di farlo.
Con una cosa occorre fare i conti e cioè con la sostenibilità
da parte dei docenti del processo di riforma. In altre parole è
necessario capire fin dove e in che modo l’innovazione possa essere sostenuta,
anche rispetto a una cultura della scuola che bene o male è andata
avanti. Bisogna, insomma, tener conto della cultura degli insegnanti, di
quello che è stato prodotto, del loro modo di lavorare. È
da qui che bisogna partire con una riflessione ampia, dentro e fuori la
scuola.
Assicurare, attraverso alcuni saperi,
le competenze che aiutino ciascuno a scegliere
Nadia
Masini. È bene sottolineare un dato che è emerso
anche negli interventi: se è sempre più lontana l’idea di
una scuola come luogo di trasmissione di un sapere che è dato e
non viene rinnovato e se è vero che dall’altra parte c’è
una società che è in un’evoluzione certamente molto più
veloce, che ha caratteri di cambiamento forte, allora la questione dei
contenuti e dei saperi diventa una questione discriminante. La scuola non
può essere il luogo di trasmissione di un sapere che è astratto
perché non guarda alla realtà nella quale ciascuno di noi
si pone. Il tema dell’autonomia e il cambiamento dell’ordinamento, fermo
restando la necessità di raggiungere e innalzare il livello culturale,
hanno sollecitato la riflessione su come privilegiare, rispetto all’obiettivo
del “sapere tanto”, quello delle “competenze forti”; se per competenze
intendiamo, la capacità di utilizzare le conoscenze, questo oggi
riconiuga diversamente il rapporto tra le varie forme del sapere: saper
essere, saper fare, saper scegliere ecc.. Questo tocca indubbiamente l’assetto
epistemologico della nostra scuola; non si tratta di un’innovazione di
qualche parte del programma ma di ripensare a quali siano le conoscenze
che sono irrinunciabili in quanto devono essere patrimonio di ciascuno.
Il concetto di diversità non è un concetto di riduzione.
Se assumessimo il concetto di diversità come fissazione dell’esistente
allora manterremmo alla scuola una funzione di classificazione sociale:
si continua a mantenere costante il rapporto tra l’appartenenza sociale,
il tipo di percorso scolastico e il tipo di scelte successive.
Ma se noi vogliamo alimentare lo sviluppo di una società democratica,
il primo presupposto è offrire opportunità, e pari opportunità.
La funzione della scuola non è quella di insegnare tutto ma di assicurare,
attraverso un possesso forte di alcuni saperi, quelle competenze che poi
aiutano ciascuno a scegliere. Collegato a questo poi c’è anche un
altro problema che vorrei fosse considerato e che in qualche modo sta venendo
fuori dalle analisi che sono state compiute, la velocità con la
quale, per esempio, si ricrea una specie di analfabetismo di ritorno; occorre
ragionare su delle strutture portanti che siano molto più forti
di quelle del passato. C’è bisogno di una formazione per tutto l’arco
della vita, questo presuppone che ciascuno abbia gli strumenti per questa
formazione permanente... e allora il ragionare per obiettivi, il ragionare
sulle competenze, il ragionare su quali sono i nuclei fondanti e le conoscenze
irrinunciabili ed essenziali è il modo attraverso il quale poi si
capisce qual è la funzione che oggi va riassegnata alla scuola;
la trasversalità delle competenze non è una questione da
convegno, diventa un elemento assolutamente importante rispetto agli obiettivi
e rispetto al rapporto con le forme del sapere, con le conoscenze, con
quei linguaggi che tradizionalmente si alimentavano fuori dalla scuola
e che oggi essa deve reinterpretare e scegliere di porre al proprio interno.
La formazione non può essere solo una cosa
che riguarda la scuola, se assumiamo il principio che i luoghi della formazione
sono diversi, è bene rafforzarli tutti quanti, altrimenti non vinciamo
la sfida di assicurare a ciascuno le pari opportunità.
Alle domande: quali scelte culturali? quali saperi in una scuola rinnovata?
La risposta sta esattamente nel ragionamento appena fatto. Seconda questione:
superare le ripetitività. È uno dei nodi che tocca la riforma
dei cicli e che va completamente declinato; non nasce da un’esigenza di
semplificazione ma dipende da come riaffrontiamo l’intero percorso formativo,
con una diversa scansione degli obiettivi e quindi dei contenuti. La scuola
è un soggetto attivo in un contesto sociale di cambiamento complesso,
globalizzato, diversificato; deve svolgere una funzione anche di interpretazione,
possibilmente di governo, dello sviluppo di processi, non deve subirli
e poi rincorrerli.
Nel dare senso e contenuto
agli strumenti dell’autonomia, oltre che evidentemente al nuovo assetto
ordinamentale, si rompe il principio dell’egualitarismo, anche dei programmi.
Programmi uguali per tutti? Questo cozza esattamente con quello che abbiamo
detto fino a ora; nel momento in cui stabilisco la base fondante di alcuni
contenuti irrinunciabili ed essenziali ho bisogno di creare dei percorsi,
ecco allora che l’autonomia diventa una condizione necessaria perché
dà libertà e responsabilità alle scuole, e quindi
a chi vi opera, di scegliere intenzionalmente in rapporto a un’attenta
lettura dei bisogni ma anche a obiettivi che devono essere comuni; perciò
la scuola dell’autonomia, la scuola della libertà è la scuola
della responsabilità. È importante per coloro che vi operano
avere una conoscenza precisa di quello che sta accadendo, a questo proposito
diventa un elemento importante la valutazione. Non
sarà un caso che non si sia mai tentato di valutare ciò che
avviene nel nostro sistema formativo, ma perché probabilmente non
si è mai pensato di chiarire dove si vuole andare, quale nuova funzione
assegnare alla formazione; non si realizzano degli obiettivi
senza intenzionalità, la responsabilità non è un concetto
etico astratto, è una questione molto concreta, per essere accettata
ha bisogno di condizioni, di strumenti, di condivisione di obiettivi, di
valutazione, di conoscenza. Ecco, questo è uno dei terreni fondamentali
sui quali ragionare... e poi scegliere.
Dotare la scuola di capacità
“selettiva”, come “circuito esperto”
Silvano
Tagliagambe. Vorrei tornare sul tema “locale-globale”. La nostra
società si sta ristrutturando sotto forma di ologramma in cui ogni
contesto locale tende sempre più a riprodurre la complessità
del globale, come diceva Alberto Oliverio; proprio per questo, vale la
pena di cominciare a lavorare sul locale non per costruire forme di identità
e di appartenenza facili e immediate, ma per creare opportunità
nuove: la formazione di categorie e modalità di orientamento diverse.
Tuttavia, nonostante la
complessità del locale, si deve fare un’ operazione di fuoriuscita
anche dal contesto di più immediato riferimento; in questa direzione
la costruzione di reti ci può aiutare.
L’altro aspetto su cui riflettere
è quello - sollevato da Nadia Masini - della necessità di
passare dall’idea della scuola come accumulazione, in gran parte anche
indiscriminata, a un’idea - sostenuta già da Postman - della funzione
della scuola e dei centri formativi come selezione: la
sfida, cioè, che la scuola deve vincere è quella di riuscire
a dotare sia gli insegnanti che gli studenti di capacità selettive;
però bisogna capire che la selezione è sempre più
un aspetto collegato all’organizzazione. Accogliendo la metafora
di Bruno Forte della scuola come organismo vivente, vorrei sottolineare
che uno degli aspetti evidenziati nello studio degli organismi viventi
è che essi hanno capacità selettiva proprio perché
hanno un’organizzazione forte; anzi, la caratteristica fondamentale degli
organismi viventi è appunto l’autopoiesi, cioè la capacità
di conservare e riprodurre la loro organizzazione, ed è questa capacità
che dà loro la capacità di selezionare i dati, la materia,
i flussi informativi ecc. Sottolineare questo aspetto è fondamentale
perché quando si critica l’idea dell’autoreferenzialità della
scuola non ci si rende conto che l’autoreferenzialità - come tutte
le parole che si riferiscono ai valori - ha una doppia connotazione assiologica:
negativa se viene interpretata come chiusura, positiva se viene considerata
invece come richiamo alla struttura intrinseca specifica che deve caratterizzare
la scuola rispetto a ogni altra agenzia formativa. La
scuola non è un’agenzia formativa qualunque, ha una sua missione,
un suo profilo, una sua identità, una sua organizzazione precisa,
e proprio in funzione di quest’identità, di questa missione, di
quest’organizzazione va individuata la capacità selettiva;
essa, infatti, non esiste in astratto, ma è sempre collegata a modalità
di organizzazione, quindi sono le modalità di organizzazione intrinseche
della scuola che debbono individuare e indicare quali siano le specificità
della selezione che essa deve operare rispetto alla accumulazione indiscriminata
cui sembrava essere condannata.
È necessario un passaggio
dalla scuola come “spugna” che deve assorbire indiscriminatamente esigenze
sociali e contenuti senza nessun riguardo per la sua specifica missione
e per il suo specifico profilo organizzativo, a una scuola come “sistema
autopoietico”, che proprio perché ha un’identità e una struttura
molto forte riesce a selezionare i propri contenuti in vista di obiettivi
chiaramente precisati.
La scuola dovrebbe rompere
il circuito perverso: editore-autore-insegnante, all’interno del quale
l’insegnante è visto sempre come il terminale di informazioni che
vanno semplicemente trasmesse agli studenti tramite la mediazione di un
libro di testo pensato e confezionato altrove. Sarebbe opportuno che esso
si trasformasse in un circuito “esperto” che produce non dei libri di testo
ma dei semilavorati, dei frames molto generali attorno ai quali ci si possa
muovere. Per definizione i frames sono dei copioni, degli scenari che danno
luogo a opzioni e possibilità realizzative diverse; a realizzare
questo passaggio (dal frame al copione specifico) dovrebbe essere l’insegnante
nel rapporto con gli studenti. Ovviamente il “copione” non può non
avere forme di collegamento con lo scenario che viene realizzato nel lavoro
didattico; per questo c’è bisogno di un’interazione tra chi aveva
in testa una certa idea di materiale didattico e chi poi riesce ad approfondirla,
a confezionarla, a portarla a compimento nel lavoro didattico effettivo.
Attraverso le reti è possibile costruire
una forma di organizzazione, meno episodica e casuale, tra l’esperto che
confeziona il copione e l’insegnante che ne realizza l’applicazione nella
classe. Da questo punto di vista il lavoro in rete può
costituire un’utile forma di ripensamento del rapporto tra insegnanti ed
esperti, tra scuola e centri di ricerca, università, case editrici.
La posta elettronica, per esempio, è uno strumento di interazione
rapida, snella, molto informale che dà anche luogo a forme di linguaggio
misto tra il verbale e lo scritto.
Per quanto riguarda il discorso
che Simone sviluppa nel suo recente libro, va ripresa l’idea di utilizzare
quei linguaggi che mettono gli studenti anche in condizione di “essere
capaci di”, essere in grado di fare delle cose e non solo di sapere. Del
resto già Kierkegaard ai suoi tempi parlava della differenza tra
la comunicazione di “sapere”, che era trasmessa attraverso linguaggi verbali,
e la comunicazione di “potere”, inteso come poter fare, che era basata
sul mostrare, sull’immergersi nei contesti.
Una scuola secondo Costituzione fondata
su significati comuni e condivisi
Bruno
Forte. Tra le tante sollecitazioni riprendo una suggestione
di Alba molto interessante, cioè l’idea che c’è un patrimonio
culturale umano e professionale che la scuola ha sviluppato e che, non
essendoci un apparato di documentazione, non si riesce a sistematizzare,
a veicolare, a comunicare in modo significativo. Questo problema riguarda
anche noi come associazioni professionali. Noi non siamo in grado oggi
di imparare dalle scuole; riteniamo di dover inventare
- nel senso di rinvenire - dei saperi sulla scuola o per la scuola, dimenticando
che la scuola stessa è fonte, che in essa esistono patrimoni di
esperienza, di costruzione di percorsi, di iniziative, di capacità
creativa. Occorre sperimentare una narrazione scolastica iscritta all’interno
della più ampia narrazione comunitaria.
L’altro tema che vorrei
riprendere è quello dell’uomo “locale” e dell’uomo “planetario”.
Non c’è contrasto tra le due dimensioni: occorre formare un uomo
“situato”, cioè un soggetto che sta in una situazione caratterizzata
nel suo microcosmo da dati e indici di pluralità, di complessità
ecc. e nel contempo, attraverso una sistematizzazione di questi dati, portarlo
alla dimensione di uomo planetario. Mi piacerebbe pensare alla scuola come
unione nella quale si costruiscono legami inter e intra.
Vorrei sollevare il problema
dei significati. Noi oggi viviamo nel nostro contesto una sfida etica che
attraversa tutti i mondi, tutte le esperienze, tutte le situazioni umane.
E la scuola non può non affrontare questo problema: c’è un
problema di scienza e c’è un problema di coscienza, cioè
di scienza costruita insieme, di significati negoziati nella realtà
che diventino patrimonio comune. Questo rimanda al senso dello stare a
scuola, del mandare i figli a scuola, dell’insegnare nella scuola, al problema
della motivazione che riguarda i professionisti per un verso, gli studenti
per un altro. Il fenomeno della dispersione ricca, per esempio, è
legato al tema della motivazione.
Ma il problema dei significati
umani rimanda a quello dell’etica, della responsabilità; dall’etica
della obbedienza, che è un’etica dell’uniformità, - vorrei
dire con Don Milani che l’obbedienza non è più una virtù
- bisogna passare all’etica della responsabilità, adulta, professionale,
genitoriale, sociale, degli stessi ragazzi. La scuola deve sviluppare
quest’etica della responsabilità che è un’etica plurale.
Per che cosa formare? Abbiamo
in mente un modello sociale di tolleranza, di neutralità etica,
in cui qualunque punto di vista e comportamento viene accettato purché
non dia fastidio all’altro - come, per esempio, il modello olandese - oppure
abbiamo in mente un modello di convivenza democratica - così come
profilato nella nostra Carta costituzionale? Se segue il dettato costituzionale
la nostra scuola deve promuovere un’interazione su significati comuni e
condivisi che vanno riproposti, reinterpretati e anche rivissuti all’interno
del percorso scolastico, perché diventino contenuti, stili, modi,
apprendimento cooperativo.
Un altro nodo dell’etica
della responsabilità è il rapporto tra passato presente e
futuro. La scuola non può non essere un
luogo di memoria, altrimenti non educherebbe alla riscoperta dei significati,
al senso di appartenenza alla famiglia umana; senza la memoria la scuola
non potrebbe fare i conti con il presente di cui i ragazzi, ma anche gli
insegnanti, sono portatori. Il presente va visto in modo promettente:
un presente da decostruire, da ricomporre, da risignificare pensando al
futuro in termini di progetto collettivo nel quale si incontrano realtà,
speranze e utopie.
E qui vorrei introdurre
il tema della politicità; è giunto il tempo di rompere questo
tabù di una scuola apolitica, perché la scuola è portatrice
di una responsabilità del futuro, che è appunto una responsabilità
politica.
Rispetto al tema dei saperi
segnalo delle parole-chiave indicative. La trasversalità: le discipline
- queste invenzioni umane - sono strumenti per dialogare non per separare,
quindi c’è bisogno di riprofessionalizzare i docenti. Il docente
non può rappresentarsi come docente di una disciplina bensì
di un ambito disciplinare; questo vale per ogni ordine di scuola.
La seconda parola-chiave
è: trasferibilità. Proprio perché a scuola non dobbiamo
insegnare tutto, bisogna pensare alla trasferibilità delle padronanze,
delle competenze trasferibili in un’interazione.
Altra parola-chiave è:
generatività, cioè si deve puntare a delle competenze non
chiuse in se stesse ma dinamiche e generative. Questo elemento è
connesso alla significatività: non tutti i contenuti hanno lo stesso
significato né si possono scaricare sulla scuola tutte le emergenze
sociali. Un sostenitore dei limiti della scuola fu Illich, che non è
stato capito; dalla sua lezione dobbiamo partire per riscolarizzare la
scuola.
L’ultimo tema è quello
della rigidità organizzativa. Come diceva prima Silvano Tagliagambe,
bisogna realizzare dei percorsi flessibili e dinamici. Penso alle quote
annuali da spendere in progetti iscritti all’interno di una progettualità
di scuola. Ovviamente il superamento della rigidità organizzativa
richiede un cambiamento del modo di essere e di stare degli insegnanti
a scuola. Insomma va riprogettata tutta la vita scolastica, che non si
limita all’insegnamento, né all’apprendimento, ma fa della scuola
un luogo di vita.
Privilegiare alcuni temi irrinunciabili
e alcune strategie orientative per i giovani
Alberto
Oliverio. Sottolinerei un aspetto su cui ci siamo soffermati
in questa tavola rotonda: quello degli strumenti concettuali che la scuola
deve fornire. Riflettendo anche sulla mia esperienza di docente universitario,
ritengo che in un mondo giovanile sopraffatto dalla massa di informazioni
e da quella cultura simultanea di cui parla Simone, ci sia bisogno di strumenti
concettuali, cioè di capacità di orientarsi, di suggerimenti
su come esplorare, analizzare e valutare, in un’ottica, quindi, epistemologica.
Sin dai primi anni di scuola l’allievo va educato
all’analisi della natura, dell’ambiente, dell’altro, dell’immagine e così
via. Certamente ci sono conoscenze irrinunciabili che la scuola
deve trasmettere, altrimenti perderebbe la sua missione, però in
una prospettiva di educazione permanente è fondamentale la capacità
di autoformarsi, per cui diventa indispensabile che la scuola fornisca
un know-how di base su come orientarsi, come soffermarsi, come produrre
un’analisi, come valutare ecc.
Un secondo aspetto è
quello degli interessi individuali: è vero che partendo da questi
si corre il rischio di costruire delle enclaves - di interessi femminili
o maschili, di cultura cattolica o islamica -, tuttavia solo
tenendo conto degli interessi e problemi adolescenziali, e delle pulsioni
istintuali è possibile delineare percorsi individualizzati;
e in questa operazione, che ha al centro sempre l’ottica degli strumenti
concettuali, il ruolo dell’insegnante è fondamentale.
In una tavola rotonda tenuta
anni addietro dall’American Academy of Arts and Sciences, che pubblica
la rivista “Daedalus”, si affermò che la
scuola deve privilegiare alcuni temi irrinunciabili e soprattutto strategie
orientative per i giovani. Questa è la prospettiva in
cui muoversi, altrimenti si rischia che i giovani immersi in un bagno di
informazioni, immagini e dati tecnici non sappiano navigare, non tanto
in Internet ma nella cultura in cui viviamo.
Vanno definite le conoscenze fondamentali
(se le competenze sono intese come capacità di usare le conoscenze)
Alba
Sasso. È compito di un’associazione professionale come
il Cidi occuparsi dei saperi dai 3 ai 18 anni, perché alcune idee
come l’apprendimento per tutta la vita non avrebbero valore senza solide
conoscenze e competenze acquisite nella prima parte della vita. Parto dal
presupposto che a scuola non si può imparare tutto: come dice Morin
«meglio una testa ben fatta che una testa piena»; del resto
va riconosciuto che l’enciclopedismo non è stato una caratteristica
della nostra scuola che, invece, si è limitata a riprendere ciclicamente
gli stessi contenuti. Serve una sapere che definisca le competenze intese
come capacità di usare le conoscenze; ma quali sono queste conoscenze?
Se si ritiene che servano delle conoscenze fondamentali, bisogna definirle.
Allora, oggi bisogna pensare
alle conoscenze come a una rete, a un labirinto; però dentro il
labirinto bisogna saper affrontare la complessità e la molteplicità.
Dove si costruisce il patrimonio di conoscenze
che permettono a ciascuno di vivere e governare intenzionalmente la propria
vita? Questa costruzione e questa scelta si devono affidare alla comunità
locale o c’è un’identità nazionale culturale storica sulla
quale dobbiamo convergere e trovarci d’accordo? Le discipline sono uno
strumento per arrivare all’unitarietà ma bisogna possederne la sintassi.
Dopo il riordino dei cicli
questi problemi vanno affrontati e va dato un messaggio semplice alla scuola,
altrimenti si rischia di dare indicazioni solo metodologiche: è
giusto affermare che i programmi non devono costituire vincoli rigidi ma
esiste un qualcosa a cui far riferimento. Anche nella scuola americana
si definì un syllabus dei saperi che faceva riferimento all’identità
e alla storia di quel Paese. Un ragionamento su
un patrimonio condiviso è necessario, ma la nostra intellettualità,
così brava a criticare, non ha l’abitudine di misurarsi su un terreno
positivo: ognuno è portato a difendere la propria storia, la propria
memoria, il proprio “particulare”.
La commissione Brocca si
sforzò di definire il corpo di conoscenze che ogni cittadino deve
possedere. Così anche oggi è necessario per questa operazione
definire una trama anche larga di questo patrimonio.
Tagliagambe.
Nel 1986 Doug Lenat ha dato avvio a un ambizioso programma di ricerca consistente
nell’elaborare quella che potrebbe essere definita un’enciclopedia delle
competenze e del senso comune, orientata a fornire non dati, informazioni,
conoscenze, ma piuttosto competenze, appunto, e in particolare le meta-capacità
senza le quali non si potrebbe neppure cominciare a leggere un’enciclopedia.
Si tratta, in sostanza, di riuscire, attraverso questo progetto, a “fissare”
le competenze di base, quelle necessarie per orientarsi nella vita quotidiana
e “sbrigare” le operazioni apparentemente più semplici e banali.
Si tratta di quel livello di abilità senza le quali non si può
sviluppare nessuna conoscenza specifica, tant’è vero che se ai sistemi
esperti, cioè a programmi e macchine artificiali, supposti in grado
di simulare le capacità di un esperto umano, non viene trasferito
questo sostrato di base, per lo più implicito, essi non sono in
grado di utilizzare convenientemente l’enorme mole di informazioni e di
cognizioni di livello superiore di cui vengono dotati.
Forte.
Tra l’altro la scuola formalizza l’informale...
Tagliagambe.
Appunto, il primo compito della scuola è di individuare questo sapere
implicito senza il quale non puoi far maturare alcuna conoscenza specialistica...
Oliverio.
È come la bioetica rispetto all’etica: attenzione a che questi ragazzi
non siano informati di bio senza saper nulla di etica...
Tagliagambe.
...se si deve insegnare a leggere, quali sono le competenze di base che
debbo dare? Cominciamo da qui: tante discussioni sulle sintassi delle discipline
cominceranno a essere mitigate, poiché queste sono competenze di
base che non appartengono a nessuna disciplina, sono le competenze senza
le quali non impari a leggere, a scrivere, a ragionare, ad apprendere.
A quali discipline appartengono queste competenze?
Forte.
Alle discipline del vivere...
Oliverio.
Non sarà facile...
Nota
1. Raffaele Simone, La
Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari, £.
22.000, pp. 146.
* Nadia Masini, sottosegretario
della Pubblica Istruzione, Silvano Tagliagambe, Filosofia della scienza
“La Sapienza” di Roma, Bruno Forte, presidente nazionale dell’Aimc (Associazione
italiana maestri cattolici), Alberto Oliverio, Psicobiologia “La Sapienza”
di Roma, Alba Sasso, presidente nazionale del Cidi.
Il forum si è svolto alla presenza di un ristretto gruppo di ascolto composto di docenti di
scuola e capi d’Istituto che a loro volta hanno sviluppato alcune
considerazioni in un successivo breve forum sui cui contenuti riferiremo
nel prossimo numero di “Insegnare”.
numero 4/2000
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