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Forum - Quale idea di scuola?

con Nadia Masini, Silvano Tagliagambe, Bruno Forte, Alberto Oliverio, Alba Sasso*

La prossima attuazione dell’autonomia scolastica, già al secondo anno di sperimentazione, l’approvazione di vari altri provvedimenti tra cui, fondamentale, la legge di riordino dei cicli scolastici, pongono il problema del significato complessivo del processo di trasformazione in corso. Nel momento in cui si apre la decisiva partita di quali contenuti riempire quella che per ora è solo la cornice del nuovo ordinamento, nasce prioritaria la domanda fondamentale: qual è l’idea di scuola che il processo di riforma sta delineando e a quali domande sociali intende rispondere? Abbiamo invitato a discuterne in redazione alcuni dei protagonisti del dibattito che si è aperto nel Paese.


Una scuola capace di dare a ciascuno molto, anche se in modo differenziato
Nadia Masini. L’idea alla base dell’intero processo riformatore è di creare un nuovo sistema di istruzione e formazione capace di corrispondere all’esigenza sia di estendere e qualificare l’offerta formativa per ciascuno nell’arco della vita, sia di assicurare a ciascuno il diritto al successo formativo. Quando negli anni sessanta con l’importante scelta della scuola media unica si è aperto il processo della scolarizzazione di massa che raccoglieva l’esigenza sociale di assicurare a tutti un livello più elevato e adeguato di istruzione, il problema emerso ma non affrontato, era come alla scuola di massa far corrispondere la qualità che consentisse a ciascuno di raggiungere il successo formativo. La scuola per tutti e per ciascuno è uno dei punti da affrontare nell’attuale processo di innovazione: pensiamo a una scuola che consenta, proprio perché scuola per ciascuno, di riconoscere la diversità di ciascuno. Infatti, è difficile poter assicurare a ciascuno il successo formativo se non si affronta il riconoscimento delle diversità. Questo richiede la rottura di una gestione (più che di un governo) uniforme che presuppone la stessa risposta a domande assolutamente diverse, e una scuola non eterodiretta che nello stesso tempo condivida e abbia come traguardo un’idea di eguaglianza di opportunità. Infatti, l’autonomia, volta a creare le condizioni in cui esercitare tale diritto, non può essere intesa come il “fai-da-te”: essa agisce in un quadro di regole che tengono insieme non solo il carattere nazionale del nostro sistema di formazione ma anche la possibilità di raggiungere obiettivi che siano comuni e condivisi. La riforma dei cicli - una riforma di ordinamento - dovrebbe consentire di creare la condizione per dare all’intero percorso formativo quel carattere di organicità di impianto che superi le attuali separatezze, le discontinuità, le varie “parti” riformate secondo principi e con criteri diversi, che sono alla base di molta parte degli attuali problemi. Ma è anche lo strumento che agisce in un quadro di altre scelte, già normate, volte ad allargare le opportunità formative secondo il principio di integrazione - per esempio, tra la scuola e gli altri luoghi di formazione -, tenuto conto che dopo l’innalzamento dell’obbligo di istruzione è previsto un obbligo formativo che si realizza in percorsi diversi ma con un tratto comune di formazione culturale.
Oggi ragioniamo quindi su una scuola che riconoscendo la diversità assume con molta più decisione alcune funzioni essenziali per garantire questo diritto, in particolare le funzioni forti di orientamento. Queste presuppongono una didattica che fin dalla scuola dell’infanzia aiuti a far emergere le vocazioni, le attitudini, i bisogni, le esigenze individuali. Il presupposto di tale innovazione è una scuola che abbia qualità, dalla qualità del personale che vi opera alle condizioni materiali nelle quali si svolge il percorso di apprendimento e insegnamento. Il tema dei diritti non è estraneo a questo obiettivo: se al centro c’è il soggetto di diritto della formazione, allora è quello il punto di riferimento, è il diritto all’apprendimento che deve orientare il tipo di insegnamento. La qualità è una condizione perché questi obiettivi, che ridefiniscono anche socialmente il senso della funzione della scuola, possano essere assicurati. Oggi, ancor più di ieri, la scuola è soggetto primario che deve riaffermare la funzione della formazione come centrale e discriminante rispetto sia all’esercizio dei diritti individuali, sia all’affermazione dei diritti generali. Cambia, quindi, la funzione della scuola oggi.

Scuole capaci di progettare e di lavorare in stretta connessione con il territorio
Silvano Tagliagambe. Anch’io credo che quello della domanda di istruzione personalizzata sia uno degli elementi qualificanti della domanda sociale alla quale la scuola deve rispondere. Accanto a questo però metterei come cardine del processo di riforma un altro elemento per me fondamentale: il passaggio a un’idea di scuola come progetto, inteso non come libertà incondizionata, forma di creatività assoluta ma come capacità di muoversi in modo coerente e organizzato all’interno di un insieme di vincoli chiari. Concepire la scuola come progetto significa che il centro deve trasmettere alla periferia esclusivamente questo sistema di vincoli, non più contenuti e programmi ma dei vincoli traducibili in obiettivi, intorno ai quali la scuola deve muoversi, definendo uno spazio ampio di libertà degli insegnanti per costruire il progetto formativo.
Questa concezione della scuola come progetto comporta automaticamente una ridefinizione organizzativa e didattica: gli insegnanti, che finora attraverso la mediazione dei programmi si sono rapportati al centro che emanava le direttive, devono sentirsi parte di una comunità in cui si lavori insieme sulla base di una conoscenza di sfondo condivisa e di obiettivi comuni.
Naturalmente la conoscenza condivisa e la comunità orientata sugli obiettivi non devono essere un modo per rinchiudersi all’interno di spazi ristretti; il pericolo insito nell’autonomia è, infatti, di venir intesa come localismo, che sarebbe la negazione delle spinte di apertura della scuola alle esigenze del mondo moderno. Devono invece essere coniugate con un processo di conoscenza e comunicazione estesa: la scuola, che lavora all’interno di una comunità locale e opera in stretta connessione con il territorio, per non essere rinchiusa all’interno di una logica puramente localistica deve disporre di strumenti, linguaggi, mezzi e capacità effettive per aprirsi al modo esterno e dialogare con un ambiente il più possibile esteso. Le nuove tecnologie e le reti sono il mezzo efficace e concreto che permette questo tipo di comunicazione; anzi, la collaborazione in rete è oggi l’unico strumento che ci consente di avviare la scuola verso quello che con un eufemismo brutto ma efficace si chiama processo di glocalizzazione, perché risponde all’esigenza di coniugare la componente di radicamento nel locale - senza la quale si perdono identità e capacità di azione effettiva - con la necessità di aprirsi alle istanze della globalità in uno scenario il più possibile vasto.
Quest’idea di scuola come progetto comporta un diverso rapporto tra docenti e una diversa gestione della didattica, una didattica che impari a misurarsi con i grandi temi e con la pluralità di prospettive e angolature che la loro trattazione richiede: temi come lo sviluppo sostenibile, la città, l’energia, le biotecnologie, la bioetica sono tutti esempi di temi che è impossibile affrontare se non si impara a instaurare un lavoro di cooperazione effettiva tra matrici disciplinari e competenze differenti.
Ma una scuola come comunità deve saper instaurare anche un diverso rapporto tra studenti e docenti, fatto di dialogo, all’interno del quale non vedo nessun pericolo nel fatto che gli studenti possano portare positivamente delle competenze e delle abilità rispetto alle quali siano in una posizione eventualmente di livello superiore rispetto a quelle degli stessi insegnanti. Mi riferisco all’agilità e alla prontezza maggiori che gli studenti hanno nella competenza informatica, da cui può derivare una nuova cooperazione con gli insegnanti.

Un diverso posizionamento tra idea di centro e di periferia
Bruno Forte. Una metafora ha guidato sin qui il cammino della scuola, la metafora del tempio che implicava ritualità, sacralità, quindi distanza dal mondo considerato profano. Questa metafora è ancora presente, anche se oggi viene sostituita un po’ meccanicisticamente con un’altra metafora, parimenti chiusa, quella del mercato implicante il consumo, quasi che la scuola possa rappresentarsi come una sorta di supermarket nel quale ciascuno individualmente consuma quello che vuole, prende quello che gli serve. Entrambe le metafore contengono un’idea individuale di scuola, mentre essa è per sua natura un luogo sociale, una comunità.
Una comunità di apprendimento corrisponde a questo: si impara insieme; la scuola è strutturalmente diversa dall’idea individuale, e ciò non significa che non debba puntare all’individualizzazione dell’insegnamento attraverso percorsi differenziati, ma questo avviene dentro una comunità sociale, dentro un tessuto, un “clima” sociale. Se la scuola è un sistema non esiste una periferia, ma tanti centri, è una realtà policentrica, che va opportunamente correlata e messa in rete in una logica forte di dialogicità, di confronto, di interazioni e relazioni di scambio. Allora vorrei proporre la metafora dell’organismo vivente che si inserisce all’interno di una geografia urbana o, meglio, di un’ecologia urbana. Il problema oggi è passare all’idea di una scuola istituente, cioè di una scuola che dal basso costruisce, istituisce se stessa, si dà un profilo, un’identità, perché la scuola fondamentalmente è un luogo di pratiche e di interazione tra pari, in cui i ragazzi sono fonte essi stessi del loro apprendimento e il profilo professionale dei docenti diventa il profilo di coloro che istituiscono la condizione di regia e quindi creano condizioni promettenti perché ciò possa avvenire; e imparano essi stessi, docenti, dalle pratiche: un’idea della pratica professionale come fonte di ricerca e di formazione per lo sviluppo. Nel ragionare poi intorno al tema scuola è importante posizionare un fatto: la scuola si colloca a un certo punto, cioè c’è qualcosa di fondamentale che avviene prima della scuola; non dimentichiamo mai che uno degli apprendimenti fondamentali, l’imparare a parlare, non avviene a scuola perché probabilmente se avvenisse a scuola non avverrebbe mai; il problema è che avviene all’interno di una forte dinamica di interazione, di immersione negli scambi che sono affettivi, emozionali, relazionali, informali. La scuola deve tener conto di tutto questo patrimonio elaborato prima di sé, fuori da sé; è un patrimonio che i ragazzi portano, quello che chiamiamo teorie ingenue sulla realtà, rappresentazioni su sé, degli altri e del mondo, e sono rappresentazioni da sistematizzare, problematizzare, far interagire in questo luogo plurale che è appunto la scuola. E, ancora, c’è una vita che continua durante la scuola, di cui essa non può non tener conto e sono gli apprendimenti in ambienti altri nei quali il bambino, il ragazzo, il giovane vivono e fanno esperienza: sono apprendimenti sicuramente maturativi e sta alla scuola dunque il compito di sistematizzare e problematizzare. Poi la scuola finisce, a un certo punto, grazie a Dio, ma continuano o dovrebbero continuare i suoi effetti positivi avendo sollecitato quella curiosità, quella voglia di continuare a imparare. Da ciò, direi che la scuola debba formare a un’idea parziale, non finita, di qualcosa che continua, all’esigenza di continuare a cercare, dando gli strumenti per saper cercare, sapersi orientare. Questo orientamento che continua finché uno vive, nelle diverse stagioni della vita meriterebbe un approfondimento.
C’è poi un problema del contesto in cui la scuola si trova ed è il contesto della città, del paesaggio urbano. La scuola sta dentro la città perché altrimenti non potrebbe sviluppare quei diritti e doveri di cittadinanza che sono fondamentali oggi: qui si gioca tutto il grande tema del successo delle persone, non solo successo scolastico ma personale, formativo, professionale, identitario come uomo/donna e cittadino. Allora, se il contesto fa testo, è sbagliato puntare tutto sulla sola scuola; la scuola va vista dentro le dinamiche sociali, culturali, civili, le dinamiche di una pedagogia della città, e sarà ricca o povera non soltanto se essa è buona o cattiva scuola, ma se è in grado di interagire con un contesto avvertito, attento, in grado di alimentare l’offerta formativa scolastica; nello stesso tempo l’offerta formativa scolastica potrà entrare in circolo e valorizzare tutta la città.

La scuola deve considerare il paesaggio culturale mutato per indicarne chiavi di lettura
Alberto Oliverio. L’età degli studenti rappresenta spesso un problema per gli insegnanti; nella fase preadolescenziale i progetti trovano una più facile implementazione, perché è in essa che nascono i problemi. Vado spesso in Istituti, anche tecnici, e mi rendo conto della difficoltà enorme che hanno i docenti nell’interagire con questi ragazzi. Ci può essere il progetto, ma la difficoltà poi di interrelarsi con gli studenti è notevole. A proposito del localismo, molti ragazzi sono delocalizzati, molte famiglie sono delocalizzate, le scuole sono plurietniche. Evocare la realtà locale non è un fatto semplice, le cose che possono aggregare i ragazzi sono, spesso, identità di tipo trasversale: il mercato, le passioni giovanili, le mode giovanili, il modo di parlare e così via... Un punto che viene spesso sollevato è la invasività delle forme di cultura e di intelligenza, che Raffaele Simone1 definisce simultanee, che rappresentano il concorrente numero uno della scuola. Ciò che i docenti devono fare è in qualche modo venire a patti con queste culture giovanili e con il modo di assorbire problemi o idee o mode. La scuola dovrebbe sollecitare i ragazzi ad analizzare l’ambiente in cui vivono, l’influenza dei media, di Internet, dei videoclip. Sviluppare, tutto sommato, un’analisi della cultura simultanea è un aspetto da considerare. Noi cerchiamo di potenziare la sequenzialità, la logica, l’analisi e non di competere con la concorrenza fortissima anche esterna che è quella del bagno della cultura olistica. Se dovessi dare un’indicazione sarebbe quella di cercare di coniugare l’analisi di questa cultura olistica, simultanea, con l’approccio interdisciplinare che spesso è stato sottolineato; varie competenze nell’ambito della scuola potrebbero soffermarsi su questi aspetti che sono cari ai ragazzi e che costituiranno sempre di più il collante interetnico. Nel nostro Paese non siamo stati ancora investiti in maniera massiccia da questo aspetto della scuola, cioè da culture, religioni, etnie diverse; in Paesi come l’Inghilterra e più di recente la Francia, questo rappresenta un problema prevalente: trovare un collante tra ragazzi con tradizioni familiari completamente diverse che non hanno radici locali e vogliono asserire i loro valori, diventa un problema notevole. Già nella scuola di base si presentano le richieste di etnie diverse e anche di religioni diverse, contestazioni rispetto a culture dominanti o ai problemi dominanti che vengono insegnati. Uno degli aspetti che deve considerare la scuola è il paesaggio mutato, non per battere la strada in concorrenza della simultaneità, dei nuovi media e così via, ma per indicarne una chiave di lettura.

Tener conto di quanto nella scuola si è elaborato e sperimentato in questi anni
Alba Sasso. Le cose che diceva Nadia Masini rimandano a un’idea di scuola sulla quale bisogna ancora lavorare: una scuola come strumento di decondizionamento sociale, come strumento per il successo formativo, che riesca a coniugare democrazia e qualità, una scuola insieme di massa e di qualità. Perché ritorno a questa questione? Perché oggi, in questo paesaggio mutato di cui parlava Oliverio, bisogna vedere come la scuola si rapporta a questo mutamento. A che cosa serve oggi la scuola? Serve a piegarsi a quelle che sono le culture nuove? A rincorrere gli altri luoghi della formazione? A riprodurre il suo modo di essere, le sue consuetudini ecc.? Qui il problema è molto delicato; un elemento di conservatorismo - mi rendo conto che dico una cosa in controtendenza - nel processo di formazione deve esserci conservazione degli aspetti più rilevanti e significativi del patrimonio culturale e di valori che hanno contribuito a dare identità al nostro Paese. Molte volte mi interrogo - come penso facciano tanti - sul perché delle riforme: perché dobbiamo cambiare la scuola? Miglioriamo gli ingranaggi, facciamo funzionare meglio quello che abbiamo e poi sia quello che deve essere. Certo, so che non ci possiamo accontentare di questo. È indubbio che ci troviamo di fronte a un crocevia difficile: per parlare di che cos’è la scuola oggi, bisogna ragionare di che cos’è la scuola rispetto a un sistema produttivo, a come cambiano i lavori, all’innovazione tecnologica, a una riflessione culturale che oggi non c’è a sufficienza. Dove sono i luoghi della riflessione culturale? E l’università? Il sapere della scuola dove si costruisce? In rapporto a quale elaborazione del sapere? Rispetto a quale sistema di valori? Qual è l’identità che deve, oggi, costruire la scuola? E allora è necessario fare uno sforzo per capire intanto che cosa ha fatto la scuola in questi anni. A queste domande, che noi oggi ci poniamo, in qualche modo la scuola ha già risposto: male, bene, comunque scegliendo sempre... (c’è una metafora che noi usavamo al Cidi: gli insegnanti hanno proceduto come le talpe, scavando silenziosamente nuovi cunicoli...). Rispetto a ogni bisogno si è cercato di capire, di elaborare nuove strategie didattiche, si sono fatte delle scelte, si sono seguite alcune strade. Adesso è il momento di ragionare su queste elaborazioni, su che cosa hanno prodotto, per esempio, i programmi della media, gli orientamenti della materna, la riforma dell’elementare, le sperimentazioni della superiore, insomma in che modo tutte queste questioni si sono confrontate anche con soggetti, bambini e ragazzi del mondo di oggi, profondamente mutati; perché ha ragione Simone quando dice che è cambiata la loro intelligenza. Nel momento in cui vogliamo ridefinire il ruolo della scuola e il suo sapere dobbiamo fare i conti con questo serbatoio di pensiero, di operatività, di scelte, di modo di lavorare che la scuola ha prodotto, perché altrimenti corriamo il rischio di andare verso un “nuovo” rispetto al quale i soggetti che devono portare avanti le riforme non sono in grado di farlo. Con una cosa occorre fare i conti e cioè con la sostenibilità da parte dei docenti del processo di riforma. In altre parole è necessario capire fin dove e in che modo l’innovazione possa essere sostenuta, anche rispetto a una cultura della scuola che bene o male è andata avanti. Bisogna, insomma, tener conto della cultura degli insegnanti, di quello che è stato prodotto, del loro modo di lavorare. È da qui che bisogna partire con una riflessione ampia, dentro e fuori la scuola.

Assicurare, attraverso alcuni saperi, le competenze che aiutino ciascuno a scegliere
Nadia Masini. È bene sottolineare un dato che è emerso anche negli interventi: se è sempre più lontana l’idea di una scuola come luogo di trasmissione di un sapere che è dato e non viene rinnovato e se è vero che dall’altra parte c’è una società che è in un’evoluzione certamente molto più veloce, che ha caratteri di cambiamento forte, allora la questione dei contenuti e dei saperi diventa una questione discriminante. La scuola non può essere il luogo di trasmissione di un sapere che è astratto perché non guarda alla realtà nella quale ciascuno di noi si pone. Il tema dell’autonomia e il cambiamento dell’ordinamento, fermo restando la necessità di raggiungere e innalzare il livello culturale, hanno sollecitato la riflessione su come privilegiare, rispetto all’obiettivo del “sapere tanto”, quello delle “competenze forti”; se per competenze intendiamo, la capacità di utilizzare le conoscenze, questo oggi riconiuga diversamente il rapporto tra le varie forme del sapere: saper essere, saper fare, saper scegliere ecc.. Questo tocca indubbiamente l’assetto epistemologico della nostra scuola; non si tratta di un’innovazione di qualche parte del programma ma di ripensare a quali siano le conoscenze che sono irrinunciabili in quanto devono essere patrimonio di ciascuno. Il concetto di diversità non è un concetto di riduzione. Se assumessimo il concetto di diversità come fissazione dell’esistente allora manterremmo alla scuola una funzione di classificazione sociale: si continua a mantenere costante il rapporto tra l’appartenenza sociale, il tipo di percorso scolastico e il tipo di scelte successive. Ma se noi vogliamo alimentare lo sviluppo di una società democratica, il primo presupposto è offrire opportunità, e pari opportunità. La funzione della scuola non è quella di insegnare tutto ma di assicurare, attraverso un possesso forte di alcuni saperi, quelle competenze che poi aiutano ciascuno a scegliere. Collegato a questo poi c’è anche un altro problema che vorrei fosse considerato e che in qualche modo sta venendo fuori dalle analisi che sono state compiute, la velocità con la quale, per esempio, si ricrea una specie di analfabetismo di ritorno; occorre ragionare su delle strutture portanti che siano molto più forti di quelle del passato. C’è bisogno di una formazione per tutto l’arco della vita, questo presuppone che ciascuno abbia gli strumenti per questa formazione permanente... e allora il ragionare per obiettivi, il ragionare sulle competenze, il ragionare su quali sono i nuclei fondanti e le conoscenze irrinunciabili ed essenziali è il modo attraverso il quale poi si capisce qual è la funzione che oggi va riassegnata alla scuola; la trasversalità delle competenze non è una questione da convegno, diventa un elemento assolutamente importante rispetto agli obiettivi e rispetto al rapporto con le forme del sapere, con le conoscenze, con quei linguaggi che tradizionalmente si alimentavano fuori dalla scuola e che oggi essa deve reinterpretare e scegliere di porre al proprio interno. La formazione non può essere solo una cosa che riguarda la scuola, se assumiamo il principio che i luoghi della formazione sono diversi, è bene rafforzarli tutti quanti, altrimenti non vinciamo la sfida di assicurare a ciascuno le pari opportunità. Alle domande: quali scelte culturali? quali saperi in una scuola rinnovata? La risposta sta esattamente nel ragionamento appena fatto. Seconda questione: superare le ripetitività. È uno dei nodi che tocca la riforma dei cicli e che va completamente declinato; non nasce da un’esigenza di semplificazione ma dipende da come riaffrontiamo l’intero percorso formativo, con una diversa scansione degli obiettivi e quindi dei contenuti. La scuola è un soggetto attivo in un contesto sociale di cambiamento complesso, globalizzato, diversificato; deve svolgere una funzione anche di interpretazione, possibilmente di governo, dello sviluppo di processi, non deve subirli e poi rincorrerli.
Nel dare senso e contenuto agli strumenti dell’autonomia, oltre che evidentemente al nuovo assetto ordinamentale, si rompe il principio dell’egualitarismo, anche dei programmi. Programmi uguali per tutti? Questo cozza esattamente con quello che abbiamo detto fino a ora; nel momento in cui stabilisco la base fondante di alcuni contenuti irrinunciabili ed essenziali ho bisogno di creare dei percorsi, ecco allora che l’autonomia diventa una condizione necessaria perché dà libertà e responsabilità alle scuole, e quindi a chi vi opera, di scegliere intenzionalmente in rapporto a un’attenta lettura dei bisogni ma anche a obiettivi che devono essere comuni; perciò la scuola dell’autonomia, la scuola della libertà è la scuola della responsabilità. È importante per coloro che vi operano avere una conoscenza precisa di quello che sta accadendo, a questo proposito diventa un elemento importante la valutazione. Non sarà un caso che non si sia mai tentato di valutare ciò che avviene nel nostro sistema formativo, ma perché probabilmente non si è mai pensato di chiarire dove si vuole andare, quale nuova funzione assegnare alla formazione; non si realizzano degli obiettivi senza intenzionalità, la responsabilità non è un concetto etico astratto, è una questione molto concreta, per essere accettata ha bisogno di condizioni, di strumenti, di condivisione di obiettivi, di valutazione, di conoscenza. Ecco, questo è uno dei terreni fondamentali sui quali ragionare... e poi scegliere.

Dotare la scuola di capacità “selettiva”, come “circuito esperto”
Silvano Tagliagambe. Vorrei tornare sul tema “locale-globale”. La nostra società si sta ristrutturando sotto forma di ologramma in cui ogni contesto locale tende sempre più a riprodurre la complessità del globale, come diceva Alberto Oliverio; proprio per questo, vale la pena di cominciare a lavorare sul locale non per costruire forme di identità e di appartenenza facili e immediate, ma per creare opportunità nuove: la formazione di categorie e modalità di orientamento diverse.
Tuttavia, nonostante la complessità del locale, si deve fare un’ operazione di fuoriuscita anche dal contesto di più immediato riferimento; in questa direzione la costruzione di reti ci può aiutare.
L’altro aspetto su cui riflettere è quello - sollevato da Nadia Masini - della necessità di passare dall’idea della scuola come accumulazione, in gran parte anche indiscriminata, a un’idea - sostenuta già da Postman - della funzione della scuola e dei centri formativi come selezione: la sfida, cioè, che la scuola deve vincere è quella di riuscire a dotare sia gli insegnanti che gli studenti di capacità selettive; però bisogna capire che la selezione è sempre più un aspetto collegato all’organizzazione. Accogliendo la metafora di Bruno Forte della scuola come organismo vivente, vorrei sottolineare che uno degli aspetti evidenziati nello studio degli organismi viventi è che essi hanno capacità selettiva proprio perché hanno un’organizzazione forte; anzi, la caratteristica fondamentale degli organismi viventi è appunto l’autopoiesi, cioè la capacità di conservare e riprodurre la loro organizzazione, ed è questa capacità che dà loro la capacità di selezionare i dati, la materia, i flussi informativi ecc. Sottolineare questo aspetto è fondamentale perché quando si critica l’idea dell’autoreferenzialità della scuola non ci si rende conto che l’autoreferenzialità - come tutte le parole che si riferiscono ai valori - ha una doppia connotazione assiologica: negativa se viene interpretata come chiusura, positiva se viene considerata invece come richiamo alla struttura intrinseca specifica che deve caratterizzare la scuola rispetto a ogni altra agenzia formativa. La scuola non è un’agenzia formativa qualunque, ha una sua missione, un suo profilo, una sua identità, una sua organizzazione precisa, e proprio in funzione di quest’identità, di questa missione, di quest’organizzazione va individuata la capacità selettiva; essa, infatti, non esiste in astratto, ma è sempre collegata a modalità di organizzazione, quindi sono le modalità di organizzazione intrinseche della scuola che debbono individuare e indicare quali siano le specificità della selezione che essa deve operare rispetto alla accumulazione indiscriminata cui sembrava essere condannata.
È necessario un passaggio dalla scuola come “spugna” che deve assorbire indiscriminatamente esigenze sociali e contenuti senza nessun riguardo per la sua specifica missione e per il suo specifico profilo organizzativo, a una scuola come “sistema autopoietico”, che proprio perché ha un’identità e una struttura molto forte riesce a selezionare i propri contenuti in vista di obiettivi chiaramente precisati.
La scuola dovrebbe rompere il circuito perverso: editore-autore-insegnante, all’interno del quale l’insegnante è visto sempre come il terminale di informazioni che vanno semplicemente trasmesse agli studenti tramite la mediazione di un libro di testo pensato e confezionato altrove. Sarebbe opportuno che esso si trasformasse in un circuito “esperto” che produce non dei libri di testo ma dei semilavorati, dei frames molto generali attorno ai quali ci si possa muovere. Per definizione i frames sono dei copioni, degli scenari che danno luogo a opzioni e possibilità realizzative diverse; a realizzare questo passaggio (dal frame al copione specifico) dovrebbe essere l’insegnante nel rapporto con gli studenti. Ovviamente il “copione” non può non avere forme di collegamento con lo scenario che viene realizzato nel lavoro didattico; per questo c’è bisogno di un’interazione tra chi aveva in testa una certa idea di materiale didattico e chi poi riesce ad approfondirla, a confezionarla, a portarla a compimento nel lavoro didattico effettivo. Attraverso le reti è possibile costruire una forma di organizzazione, meno episodica e casuale, tra l’esperto che confeziona il copione e l’insegnante che ne realizza l’applicazione nella classe. Da questo punto di vista il lavoro in rete può costituire un’utile forma di ripensamento del rapporto tra insegnanti ed esperti, tra scuola e centri di ricerca, università, case editrici. La posta elettronica, per esempio, è uno strumento di interazione rapida, snella, molto informale che dà anche luogo a forme di linguaggio misto tra il verbale e lo scritto.
Per quanto riguarda il discorso che Simone sviluppa nel suo recente libro, va ripresa l’idea di utilizzare quei linguaggi che mettono gli studenti anche in condizione di “essere capaci di”, essere in grado di fare delle cose e non solo di sapere. Del resto già Kierkegaard ai suoi tempi parlava della differenza tra la comunicazione di “sapere”, che era trasmessa attraverso linguaggi verbali, e la comunicazione di “potere”, inteso come poter fare, che era basata sul mostrare, sull’immergersi nei contesti.

Una scuola secondo Costituzione fondata su significati comuni e condivisi
Bruno Forte. Tra le tante sollecitazioni riprendo una suggestione di Alba molto interessante, cioè l’idea che c’è un patrimonio culturale umano e professionale che la scuola ha sviluppato e che, non essendoci un apparato di documentazione, non si riesce a sistematizzare, a veicolare, a comunicare in modo significativo. Questo problema riguarda anche noi come associazioni professionali. Noi non siamo in grado oggi di imparare dalle scuole; riteniamo di dover inventare - nel senso di rinvenire - dei saperi sulla scuola o per la scuola, dimenticando che la scuola stessa è fonte, che in essa esistono patrimoni di esperienza, di costruzione di percorsi, di iniziative, di capacità creativa. Occorre sperimentare una narrazione scolastica iscritta all’interno della più ampia narrazione comunitaria.
L’altro tema che vorrei riprendere è quello dell’uomo “locale” e dell’uomo “planetario”. Non c’è contrasto tra le due dimensioni: occorre formare un uomo “situato”, cioè un soggetto che sta in una situazione caratterizzata nel suo microcosmo da dati e indici di pluralità, di complessità ecc. e nel contempo, attraverso una sistematizzazione di questi dati, portarlo alla dimensione di uomo planetario. Mi piacerebbe pensare alla scuola come unione nella quale si costruiscono legami inter e intra.
Vorrei sollevare il problema dei significati. Noi oggi viviamo nel nostro contesto una sfida etica che attraversa tutti i mondi, tutte le esperienze, tutte le situazioni umane. E la scuola non può non affrontare questo problema: c’è un problema di scienza e c’è un problema di coscienza, cioè di scienza costruita insieme, di significati negoziati nella realtà che diventino patrimonio comune. Questo rimanda al senso dello stare a scuola, del mandare i figli a scuola, dell’insegnare nella scuola, al problema della motivazione che riguarda i professionisti per un verso, gli studenti per un altro. Il fenomeno della dispersione ricca, per esempio, è legato al tema della motivazione.
Ma il problema dei significati umani rimanda a quello dell’etica, della responsabilità; dall’etica della obbedienza, che è un’etica dell’uniformità, - vorrei dire con Don Milani che l’obbedienza non è più una virtù - bisogna passare all’etica della responsabilità, adulta, professionale, genitoriale, sociale, degli stessi ragazzi. La scuola deve sviluppare quest’etica della responsabilità che è un’etica plurale.
Per che cosa formare? Abbiamo in mente un modello sociale di tolleranza, di neutralità etica, in cui qualunque punto di vista e comportamento viene accettato purché non dia fastidio all’altro - come, per esempio, il modello olandese - oppure abbiamo in mente un modello di convivenza democratica - così come profilato nella nostra Carta costituzionale? Se segue il dettato costituzionale la nostra scuola deve promuovere un’interazione su significati comuni e condivisi che vanno riproposti, reinterpretati e anche rivissuti all’interno del percorso scolastico, perché diventino contenuti, stili, modi, apprendimento cooperativo.
Un altro nodo dell’etica della responsabilità è il rapporto tra passato presente e futuro. La scuola non può non essere un luogo di memoria, altrimenti non educherebbe alla riscoperta dei significati, al senso di appartenenza alla famiglia umana; senza la memoria la scuola non potrebbe fare i conti con il presente di cui i ragazzi, ma anche gli insegnanti, sono portatori. Il presente va visto in modo promettente: un presente da decostruire, da ricomporre, da risignificare pensando al futuro in termini di progetto collettivo nel quale si incontrano realtà, speranze e utopie.
E qui vorrei introdurre il tema della politicità; è giunto il tempo di rompere questo tabù di una scuola apolitica, perché la scuola è portatrice di una responsabilità del futuro, che è appunto una responsabilità politica.
Rispetto al tema dei saperi segnalo delle parole-chiave indicative. La trasversalità: le discipline - queste invenzioni umane - sono strumenti per dialogare non per separare, quindi c’è bisogno di riprofessionalizzare i docenti. Il docente non può rappresentarsi come docente di una disciplina bensì di un ambito disciplinare; questo vale per ogni ordine di scuola.
La seconda parola-chiave è: trasferibilità. Proprio perché a scuola non dobbiamo insegnare tutto, bisogna pensare alla trasferibilità delle padronanze, delle competenze trasferibili in un’interazione.
Altra parola-chiave è: generatività, cioè si deve puntare a delle competenze non chiuse in se stesse ma dinamiche e generative. Questo elemento è connesso alla significatività: non tutti i contenuti hanno lo stesso significato né si possono scaricare sulla scuola tutte le emergenze sociali. Un sostenitore dei limiti della scuola fu Illich, che non è stato capito; dalla sua lezione dobbiamo partire per riscolarizzare la scuola.
L’ultimo tema è quello della rigidità organizzativa. Come diceva prima Silvano Tagliagambe, bisogna realizzare dei percorsi flessibili e dinamici. Penso alle quote annuali da spendere in progetti iscritti all’interno di una progettualità di scuola. Ovviamente il superamento della rigidità organizzativa richiede un cambiamento del modo di essere e di stare degli insegnanti a scuola. Insomma va riprogettata tutta la vita scolastica, che non si limita all’insegnamento, né all’apprendimento, ma fa della scuola un luogo di vita.

Privilegiare alcuni temi irrinunciabili e alcune strategie orientative per i giovani
Alberto Oliverio. Sottolinerei un aspetto su cui ci siamo soffermati in questa tavola rotonda: quello degli strumenti concettuali che la scuola deve fornire. Riflettendo anche sulla mia esperienza di docente universitario, ritengo che in un mondo giovanile sopraffatto dalla massa di informazioni e da quella cultura simultanea di cui parla Simone, ci sia bisogno di strumenti concettuali, cioè di capacità di orientarsi, di suggerimenti su come esplorare, analizzare e valutare, in un’ottica, quindi, epistemologica. Sin dai primi anni di scuola l’allievo va educato all’analisi della natura, dell’ambiente, dell’altro, dell’immagine e così via. Certamente ci sono conoscenze irrinunciabili che la scuola deve trasmettere, altrimenti perderebbe la sua missione, però in una prospettiva di educazione permanente è fondamentale la capacità di autoformarsi, per cui diventa indispensabile che la scuola fornisca un know-how di base su come orientarsi, come soffermarsi, come produrre un’analisi, come valutare ecc.
Un secondo aspetto è quello degli interessi individuali: è vero che partendo da questi si corre il rischio di costruire delle enclaves - di interessi femminili o maschili, di cultura cattolica o islamica -, tuttavia solo tenendo conto degli interessi e problemi adolescenziali, e delle pulsioni istintuali è possibile delineare percorsi individualizzati; e in questa operazione, che ha al centro sempre l’ottica degli strumenti concettuali, il ruolo dell’insegnante è fondamentale.
In una tavola rotonda tenuta anni addietro dall’American Academy of Arts and Sciences, che pubblica la rivista “Daedalus”, si affermò che la scuola deve privilegiare alcuni temi irrinunciabili e soprattutto strategie orientative per i giovani. Questa è la prospettiva in cui muoversi, altrimenti si rischia che i giovani immersi in un bagno di informazioni, immagini e dati tecnici non sappiano navigare, non tanto in Internet ma nella cultura in cui viviamo.

Vanno definite le conoscenze fondamentali (se le competenze sono intese come capacità di usare le conoscenze)
Alba Sasso. È compito di un’associazione professionale come il Cidi occuparsi dei saperi dai 3 ai 18 anni, perché alcune idee come l’apprendimento per tutta la vita non avrebbero valore senza solide conoscenze e competenze acquisite nella prima parte della vita. Parto dal presupposto che a scuola non si può imparare tutto: come dice Morin «meglio una testa ben fatta che una testa piena»; del resto va riconosciuto che l’enciclopedismo non è stato una caratteristica della nostra scuola che, invece, si è limitata a riprendere ciclicamente gli stessi contenuti. Serve una sapere che definisca le competenze intese come capacità di usare le conoscenze; ma quali sono queste conoscenze? Se si ritiene che servano delle conoscenze fondamentali, bisogna definirle.
Allora, oggi bisogna pensare alle conoscenze come a una rete, a un labirinto; però dentro il labirinto bisogna saper affrontare la complessità e la molteplicità. Dove si costruisce il patrimonio di conoscenze che permettono a ciascuno di vivere e governare intenzionalmente la propria vita? Questa costruzione e questa scelta si devono affidare alla comunità locale o c’è un’identità nazionale culturale storica sulla quale dobbiamo convergere e trovarci d’accordo? Le discipline sono uno strumento per arrivare all’unitarietà ma bisogna possederne la sintassi.
Dopo il riordino dei cicli questi problemi vanno affrontati e va dato un messaggio semplice alla scuola, altrimenti si rischia di dare indicazioni solo metodologiche: è giusto affermare che i programmi non devono costituire vincoli rigidi ma esiste un qualcosa a cui far riferimento. Anche nella scuola americana si definì un syllabus dei saperi che faceva riferimento all’identità e alla storia di quel Paese. Un ragionamento su un patrimonio condiviso è necessario, ma la nostra intellettualità, così brava a criticare, non ha l’abitudine di misurarsi su un terreno positivo: ognuno è portato a difendere la propria storia, la propria memoria, il proprio “particulare”.
La commissione Brocca si sforzò di definire il corpo di conoscenze che ogni cittadino deve possedere. Così anche oggi è necessario per questa operazione definire una trama anche larga di questo patrimonio.

Tagliagambe. Nel 1986 Doug Lenat ha dato avvio a un ambizioso programma di ricerca consistente nell’elaborare quella che potrebbe essere definita un’enciclopedia delle competenze e del senso comune, orientata a fornire non dati, informazioni, conoscenze, ma piuttosto competenze, appunto, e in particolare le meta-capacità senza le quali non si potrebbe neppure cominciare a leggere un’enciclopedia. Si tratta, in sostanza, di riuscire, attraverso questo progetto, a “fissare” le competenze di base, quelle necessarie per orientarsi nella vita quotidiana e “sbrigare” le operazioni apparentemente più semplici e banali. Si tratta di quel livello di abilità senza le quali non si può sviluppare nessuna conoscenza specifica, tant’è vero che se ai sistemi esperti, cioè a programmi e macchine artificiali, supposti in grado di simulare le capacità di un esperto umano, non viene trasferito questo sostrato di base, per lo più implicito, essi non sono in grado di utilizzare convenientemente l’enorme mole di informazioni e di cognizioni di livello superiore di cui vengono dotati.
Forte. Tra l’altro la scuola formalizza l’informale...
Tagliagambe. Appunto, il primo compito della scuola è di individuare questo sapere implicito senza il quale non puoi far maturare alcuna conoscenza specialistica...
Oliverio. È come la bioetica rispetto all’etica: attenzione a che questi ragazzi non siano informati di bio senza saper nulla di etica...
Tagliagambe. ...se si deve insegnare a leggere, quali sono le competenze di base che debbo dare? Cominciamo da qui: tante discussioni sulle sintassi delle discipline cominceranno a essere mitigate, poiché queste sono competenze di base che non appartengono a nessuna disciplina, sono le competenze senza le quali non impari a leggere, a scrivere, a ragionare, ad apprendere. A quali discipline appartengono queste competenze?
Forte. Alle discipline del vivere...
Oliverio. Non sarà facile...


Nota
1. Raffaele Simone, La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari, £. 22.000, pp. 146.

* Nadia Masini, sottosegretario della Pubblica Istruzione, Silvano Tagliagambe, Filosofia della scienza “La Sapienza” di Roma, Bruno Forte, presidente nazionale dell’Aimc (Associazione italiana maestri cattolici), Alberto Oliverio, Psicobiologia “La Sapienza” di Roma, Alba Sasso, presidente nazionale del Cidi.
Il forum si è svolto alla presenza di un ristretto gruppo di ascolto composto di docenti di scuola e capi d’Istituto che a loro volta hanno sviluppato alcune considerazioni in un successivo breve forum sui cui contenuti riferiremo nel prossimo numero di “Insegnare”.

numero 4/2000


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