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Lingua e letteratura: quale rapporto? - FORUM
con Mario Ambel, Silvana Ferreri, Maria Luisa Jori, Romano Luperini*
È da tempo aperta
la discussione su quale rapporto debba esserci nella scuola secondaria
tra insegnamenti della lingua e della letteratura. Abbiamo interpellato
due universitari, l’una studiosa di linguistica, l’altro di letteratura,
e due docenti di scuola, anch’essi diversamente orientati su ciascuno dei
due versanti culturali.
Queste le domande poste:
La lettura (analisi e
interpretazione) del testo letterario ha valore di formazione comune così
da dover far parte dell’esame finale di tutti gli indirizzi di scuola superiore?
Si è accentuato,
in particolare nel triennio, il problema dell’acquisizione di una competenza
linguistica “alta” per argomentare contenuti culturalmente complessi in
rapporto alle diverse discipline. Insegnare letteratura significa anche
insegnare a scrivere?
Queste le risposte degli
esperti. Segue sullo stesso argomento – a ribadire l’attualità del
problema – l’intervento di quindici insegnanti del Liceo scientifico “Giotto
Ulivi” di Borgo S. Lorenzo (Fi) che descrivono criticamente la situazione
e avanzano delle proposte.
Valore formativo
generale della letteratura
Luperini.
Alla prima domanda darei una risposta affermativa. Ovviamente lo spazio
da dare all’analisi formale, linguistica e storico-filologica varierà
a seconda degli indirizzi. Ritengo che lo spazio dedicato agli aspetti
tecnico-formali e storico-filologici e alla descrizione o commento del
testo dovrà essere più ristretto negli indirizzi tecnici
e più ampio in quelli umanistici. Negli indirizzi tecnici limiterei
l’analisi agli aspetti linguistici nell’intento (che chiarirò rispondendo
alla seconda domanda) di favorire un confronto fra linguaggio del passato
e quello del presente e fra lessico letterario e lessico comune e di allargare
l’abilità e le conoscenze linguistiche dei giovani; non mi addentrerei
invece negli aspetti tecnico-formali e retorici.
L’interpretazione del
testo: una competenza linguistica irrinunciabile
In ogni indirizzo ritengo
invece fondamentale il momento interpretativo o ermeneutico, che si presta
ad approfondimenti interdisciplinari e allo sviluppo delle capacità
dialogiche e dello spirito critico e problematico. Lo studio della letteratura
presuppone un approccio interdisciplinare (che ritengo preferibile a quello
semplicemente e spesso semplicisticamente multidisciplinare), utile sempre
e utilissimo soprattutto negli indirizzi tecnici per i suoi possibili nessi
con la storia, con la storia della scienza e della tecnologia, con il cinema
ecc. In questi casi i percorsi tematici, condotti a partire da una serie
di testi letterari italiani e stranieri, dovranno poi misurarsi con testi
e problemi di altre discipline. Proprio perché lo studio della letteratura
non è rigidamente monodisciplinare (non è chiuso nel rigore
astratto di un’unica disciplina, come è, per esempio, nella matematica),
ma apre sempre ad altri mondi, e l’interpretazione del testo è il
momento di tale allargamento interdisciplinare (e infatti l’interpretazione
implica l’uso di categorie culturali desunte da campi diversi, dalla storia
alla filosofia sino, anche, alle scienze della natura), la lettura delle
opere letterarie ha un valore formativo complessivo.
In conclusione. La letteratura
si fonda su una testualità data: dunque la sua comprensione presuppone
indubbiamente il possesso di alcune competenze specifiche strettamente
disciplinari; ma poi si presenta, nell’atto dell’interpretazione, come
punto d’incontro e di interferenza di una serie di elementi culturali diversi,
che implicano il mondo dell’esperienza esistenziale e quello dell’immaginario,
la storia materiale e le ideologie, il passato e il presente, una visione
nazionale e una sovranazionale. Essa comporta dunque per gli studenti la
capacità di acquisire tre grandi capacità: quella cognitiva
delle competenze specifiche, quella immaginativa collegata ai dati esistenziali
e al vissuto, quella critica sollecitata dalla complessità e della
problematicità del momento ermeneutico (un testo sopporta sempre
interpretazioni diverse: questa è la sua peculiarità).
Attraverso lo studio della
letteratura lo studente viene chiamato a confrontare interpretazioni diverse
e a collegare mondi diversi. Un approccio non dogmatico ma problematico
al testo abitua lo studente alla complessità e alla democrazia.
Ma proprio per questo lo studio della letteratura esprime e deve continuare
a esprimere un valore culturale complessivo e un valore formativo generale
(non ristretto, dunque, a un ambito rigidamente disciplinare) per tutti
gli indirizzi di scuola superiore. Si può imparare a scrivere anche
senza studiare la letteratura. Per studiare la grammatica e la sintassi
serve di più un editoriale del “Corriere della sera” che una poesia
di Montale. Ciò non toglie che lo studio della letteratura può
contribuire anche ad accrescere l’abilità linguistica. Anzitutto
la comprensione della semantica testuale può essere finalizzata,
oltre che all’interpretazione, al miglioramento delle conoscenze in campo
linguistico: se da un lato, infatti, una corretta lettura del senso materiale
del testo (della sua lettera) può garantire dai rischi dell’arbitrio
interpretativo, dall’altro il confronto fra il linguaggio del passato e
quello del presente e fra lessico letterario e lessico comune accresce
l’abilità linguistica e la capacità compositiva sul piano
sintattico e argomentativo, mentre allarga il patrimonio lessicale degli
studenti. In secondo luogo, soprattutto nel triennio, la pratica ermeneutica
può indubbiamente servire ad allargare e ad accrescere le capacità
linguistiche.
Lingua e letteratura tra
biennio e triennio
Distinguerei comunque fra
biennio e triennio: nel biennio lo studio della lingua deve essere prevalente
su quello letterario (si punterà perciò molto, per esempio,
sulla parafrasi del testo), e si dovrà piuttosto sollecitare il
gusto e il piacere della lettura che la conoscenza della storia letteraria;
nel triennio si deve puntare invece sull’educazione letteraria e mirare
a un nesso più rigoroso fra commento e interpretazione, fra analisi
ed ermeneutica del testo, sviluppando entrambi questi momenti. Nel triennio,
in particolare, lo studente dovrà diventare capace di astrazione,
di articolazione scientifica e di argomentazione persuasiva nell’impiego
del linguaggio: dovrà imparare, insomma, a usarlo in senso culturale
e problematico.
Il momento dell’interpretazione
può rivelarsi a tal fine decisivo: esso infatti sollecita lo studente
ad articolare, difendere e sostenere la propria tesi, a confutare quella
degli altri, a impadronirsi di un linguaggio articolato in categorie culturali
complesse. Al giovane si chiederà perciò l’accesso non tanto
al linguaggio specialistico della filologia e della retorica quanto a quello
dell’argomentazione logica e della problematizzazione critica. In altri
termini: nel discorso parlato e nel discorso critico lo studente dovrà
dimostrare di essere in grado di far uso del linguaggio in modo astratto
e maturo più che in modo tecnico-specialistico (anche se, negli
indirizzi umanistici, quest’ultimo tipo di linguaggio troverà naturalmente
maggiore spazio). Credo meno, invece, alla necessità di stimolare
il momento creativo e poetico; ovviamente anche l’uso letterario del linguaggio
(ma quasi sempre sarà pseudoletterario!) può contribuire
ad accrescere la conoscenza degli strumenti linguistici. Ma – come avvertiva
Manzoni nella lettera a Marco Coen – il suo impiego è di fatto molto
limitato e spesso produce più illusioni e ambizioni che abilità
concrete e sicurezze operative. Nel triennio dovrà trovare certamente
spazio l’educazione linguistica, magari anche attraverso la sua distinzione,
nella pratica didattica, da quella letteraria. E tuttavia l’educazione
letteraria, che comunque nel triennio dovrà costituire uno specifico
e autonomo obiettivo formativo, è di per sé un notevole stimolo
alle conoscenze linguistiche: insegnare a commentare e a interpretare un
testo, a esporne (anche per scritto) l’analisi e l’interpretazione, è
anche insegnare a scrivere.
Per imparare a
scrivere non basta la letteratura
Ferreri.
Quasi non capisco il senso vero della prima domanda. C’è qualcuno
che afferma che «la lettura del testo letterario non ha valore di
formazione comune» per gli studenti di qualsivoglia indirizzo?
Non vi è tipo di
scuola superiore che in linea di principio possa escludere la lettura e
l’interpretazione dei testi anche letterari dal curricolo. I testi della
letteratura nazionale come i grandi classici stranieri, dal Don Chisciotte
all’Amleto, dal Faust alla Recherche, danno accesso a modi linguisticamente
e culturalmente determinati di rappresentare questioni inerenti all’essere
umano: privare classi di studenti delle esperienze di incontrare testi
letterari sarebbe insensato sotto ogni profilo, da quello delle conoscenze
di beni culturali a quello della esplorazione dei valori e degli acquisti
di conoscenza. La lettura dei testi letterari ha valore formativo nel senso
pieno del termine, come sviluppo delle capacità ermeneutiche e delle
capacità critiche e argomentative. L’analisi del testo letterario
può dunque essere a pieno titolo una delle prove dell’esame di Stato
(non l’unica) comune a tutti gli indirizzi.
Va aggiunto però
contestualmente che manca una “formazione comune” a tutti gli indirizzi
riguardo ai testi letterari.
L’accesso diretto ai testi
è pratica diffusa solo in alcune realtà; per il resto l’incontro
tra testo e studente-lettore è mediato (quando avviene) da antologie
e storie letterarie. Inoltre la massa di apparati, di cui si servono spesso
acriticamente molti insegnanti, lungi dall’essere chiave di accesso ai
testi diviene uno schermo tra il testo e la sua effettiva conoscenza e
analisi. Solo in alcune realtà i grandi testi vengono letti e riletti
nella loro interezza e si va oltre la comprensione puntuale verso le diverse
forme possibili di analisi e interpretazione solo come istanza necessaria
per fruire in modo non spontaneistico, ma meditato e riflesso dei testi.
L’analisi e il commento
del testo (scansioni previste dalla prova d’esame) vengono trattati nell’itinerario
formativo come parti disgiunte e separate: nella pratica didattica, l’una
induce a “guardare” i testi attraverso strumenti linguistici, l’altro rinvia
a modi espositivi più tradizionali, contravvenendo a tutto ciò
che linguisti e teorici della letteratura insegnano sulla stretta unione
delle due cose.
Lettura diretta dei testi
e interconnessione tra fase di scavo nelle forme del testo e fase di interpretazione
sono le premesse per una attribuzione di senso culturale a una prova d’esame.
Un curricolo di scrittura
non può coincidere con l’insegnamento della letteratura
Quanto alla seconda domanda
la risposta è sì, la letteratura può servire, ma non
ha senso proporre come unico riferimento per un buon controllo della scrittura
la lettura di testi letterari. L’Infinito non è stato scritto perché
imparassimo a controllare i diversi tipi di scrittura e non può,
non deve essere letto in questa chiave riduttivamente glottodidattica.
Per insegnare a scrivere
a livelli alti occorre un curricolo di scrittura che parta dai primi giorni
della scuola di base e prosegua negli anni fino all’esame di Stato e oltre,
fino all’università. Si devono perseguire obiettivi correlati a
contenuti via via più complessi culturalmente e linguisticamente,
forme di testo che richiedono sempre maggiore controllo di mezzi espressivi,
stilistici, retorici per adeguarli al variare dei contesti culturali. Il
curricolo di scrittura va ripensato dall’inizio della formazione come percorso
unitario, dalla scuola dell’infanzia o, se preferiamo, dalla scuola di
base fino alla fine dell’obbligo formativo (18 anni). In questo itinerario
devono offrirsi occasioni di lettura e scrittura per acquisire padronanza
delle varie forme e generi di testo, per scoprire la flessibilità
della lingua e la sua adattabilità alle situazioni comunicative,
agli usi sia funzionali sia poetici.
Testi funzionali e testi
poetici
L’insegnamento (e l’apprendimento)
linguistico si sviluppa come abilità e capacità di riflessione
metalinguistica agli snodi tra testi funzionali e testi letterari, là
dove la funzione poetica o estetica dei testi letterari prevale e attira
l’attenzione sulla configurazione formale. I testi letterari sfruttano
al limite anche estremo le proprietà della vaghezza, dell’indeterminatezza,
della plasticità del significato, dell’ambiguità lessicale
e sintattica; per contro i testi funzionali tendono a essere precisi, adottano
terminologie o commisurano le scelte lessicali ai destinatari, si adeguano
alla norma o alle norme. Dall’incontro e dal confronto con tutti i testi
si creano le condizioni per scrivere e riflettere sui processi e sulle
forme della scrittura, con un lavoro che dura per tutto il tempo della
formazione e oltre. Educazione linguistica e educazione letteraria si intrecciano
per tutto il tempo della formazione.
In atto l’educazione letteraria
assume come suo dominio il triennio della scuola secondaria superiore e
lascia all’educazione linguistica gli altri segmenti di scuola. L’educazione
letteraria si riserva il compito di fornire strumenti di analisi tali da
arricchire l’esperienza dei testi letterari e di costruire quadri concettuali
entro cui contestualizzare storicamente e culturalmente i testi letterari.
L’educazione linguistica ha il compito prioritario di sviluppare le abilità
e la riflessione linguistica, ma si fa carico di sviluppare un’educazione
letteraria di base, intesa come pratica non sistematica ma costante, ricettiva
(e produttiva?) di testi letterari, in cui si educa al senso estetico,
alla creatività, si sviluppa e si promuove l’immaginario, si esplorano
le potenzialità del mezzo linguistico. L’educazione linguistica
si fa anche educazione letteraria a cominciare dall’ingresso a scuola;
l’educazione letteraria ha difficoltà a scendere ai livelli più
bassi della formazione e quando prova a spendersi nei segmenti più
alti per lo sviluppo delle abilità sembra inseguire falsi obiettivi.
Insegnare letteratura è
insegnare a scrivere solo in un senso molto particolare, come indotto,
fino a che non si modificano la concezione stessa di due educazioni – linguistica
e letteraria – contrapposte, la loro distribuzione negli ordini di scuola
e il loro ordinamento gerarchico.
Si insegna ancora
troppo la storia letteraria
Jori.
La prima domanda è figlia del nostro tempo, in cui è emersa
con prepotenza la centralità della comunicazione: alla funzione
culturalmente educativa della letteratura si sta sostituendo la concezione
operativamente formativa della lettura, al concetto di opera (il prodotto
letterario considerato nelle sue molteplici relazioni con i vari aspetti
della cultura del proprio tempo) si sta preferendo quello di testo letterario
(produzione scritta intesa come una delle varietà linguistico-testuali,
cioè da leggersi esclusivamente sul piano linguistico-comunicativo),
alla conoscenza della memoria storica collettiva si contrappone, come necessità
del presente, la costruzione di competenze comunicative. Indubbiamente
nel mondo di oggi è divenuto particolarmente necessario saper interpretare
i messaggi e comunicare in situazioni diverse e con persone diverse nel
modo più adeguato per realizzare le proprie intenzioni economiche
e/o relazionali. Non si tratta allora esclusivamente di imparare delle
tecniche, anche se soprattutto linguistiche, bensì di apprendere
a pensare, a partire dalla conoscenza e cioè dall’esperienza di
se stessi, del proprio modo di interagire con il mondo esterno nell’ambito
del proprio mondo interno, emozionale.
Ha ragione Luperini quando
afferma che lo studio della letteratura presuppone un approccio interdisciplinare,
perché la comprensione dell’opera letteraria si avvale delle conoscenze
di qualsiasi ambito culturale, compresi quelli scientifici, universalizzando
ogni esperienza e ogni sapere nelle dimensioni del simbolico e dell’immaginario.
Si tratta quindi di valutare se e fino a che punto è da ritenersi
ancora utile alla formazione dei giovani questo specifico accesso al sapere,
che – come giustamente dice Luperini – permette di coniugare le capacità
cognitive con quelle immaginative e critiche. Ma attenzione: si insegna
ancora troppo la storia letteraria (a volte non solo nel triennio, ma anche
nel biennio o perfino nella scuola media), nonostante i numerosi dibattiti,
il rinnovamento dei libri di testo e le sperimentazioni degli ultimi trent’anni
verso un’educazione letteraria, cioè la lettura diretta dei testi
della letteratura. Solo quest’ultima infatti, attraverso la rappresentazione
di mondi diversi, alternativi a quelli delle conoscenze empiriche, agisce
sull’immaginario del giovane in modo da influire sui processi autoriflessivi
e, in ultima analisi, sulla capacità di pensare. Gli studenti infatti
preferiscono le letture integrali delle opere letterarie, perché
riescono meglio a entrare nei mondi che esse rappresentano. Anche di questo
si deve tenere conto.
La letteratura per una
formazione comune a tutti
Dunque proprio questo aspetto
specifico della formazione di un certo modo di conoscere e di pensare per
immedesimazione, attraverso la conoscenza indiretta delle emozioni, offerto
dalla letteratura, può costituire una necessità per tutti
i giovani, in qualsiasi curriculum degli studi. Per dare all’insegnamento
della letteratura la funzione formativa comune a tutti gli studenti di
scuole diverse non sono necessari programmi con le stesse letture, ma piuttosto
criteri analoghi di scelta e di metodo, di finalità e obiettivi.
L’esame finale potrà così basarsi su prove comuni, purché
queste ultime siano scelte e formulate nel modo più aperto e flessibile,
tale da permettere analisi e interpretazioni di tipo diverso, adeguate
a ogni tipo di curriculum (e qui mi riferisco alle indicazioni di Luperini
sui diversi livelli di approccio al testo letterario a seconda degli indirizzi).
Gli aspetti artistici del
testo letterario stimolano senza dubbio la scrittura, ma non la insegnano,
principalmente per due motivi:
-
linguisticamente le opere dei
classici non possono costituire un modello, perché per lo più
lontane dalla lingua attuale della comunicazione;
-
le produzioni letterarie sono
distanti non dalla ricezione emotiva, ma dallo sviluppo psicologico, inventivo,
dell’età degli studenti sia nei contenuti, relativi a riflessioni
e immaginari di e per adulti, sia negli aspetti formali d’arte, basati
sullo scarto dalla norma. In quanto tali le opere della letteratura sono
fruibili, ma inimitabili da parte dei ragazzi.
Condivido le osservazioni di
chi afferma che la scrittura si impara soprattutto attraverso l’operatività
e i modelli offerti dai testi non letterari del mondo della comunicazione
contemporaneo.
Tornando però all’affermazione
di Luperini sull’approccio interdisciplinare presupposto dallo studio della
letteratura, non è difficile intravedere i collegamenti che la didattica
può stabilire tra letture letterarie e altri tipi di testi, più
o meno lontani e differenti.
Scrivere per alimentare
il pensiero
Per insegnare a scrivere
bisogna insegnare a pensare, non solo a usare correttamente il codice linguistico.
Proprio le alte competenze di scrittura richieste dal nuovo esame di Stato
richiedono ben più della semplice correttezza grammaticale: articolo
e saggio implicano produzione e articolazione originali e coerenti del
pensiero. La letteratura può dunque servire a esercitare queste
competenze riflessive e creative di riflesso, non in sé, ma facendo
entrare e uscire dai suoi testi l’immaginario degli studenti, attraverso
l’apporto (per analogia o contrasto) di altri tipi di testi e di esperienze,
come articoli o saggi o interviste su argomenti analoghi a quelli incontrati
in opere letterarie, oppure con l’esercizio ludico di ricontestualizzazione
di contenuti narrativi classici nella riscrittura creativa dei testi letti.
Per alimentare il pensiero – e quindi la scrittura – dei giovani oggi è
più che mai indispensabile infatti far uscire gli studenti dalle
routine scolastiche rigidamente disciplinari, offrendo loro da una parte
i modelli delle comunicazioni reali, dall’altra il gioco della fantasia
rielaborativa, soprattutto l’incontro più vario possibile con le
idee, ricavate da ambiti e testi diversi.
Privilegiare il
rapporto tra lettore e testo letterario
Ambel.
La prima domanda sembra proporre un dato di fatto da tempo scontato: l’Italiano
è una delle poche materie comuni a tutti i trienni di scuola superiore
e, da tempo, all’esame di Stato viene proposto a tutti lo stesso tema storico-letterario,
ora opportunamente trasformato in analisi e commento di testo letterario.
In realtà ciò
non significa – lo sappiamo bene – che a tutti sia proposto un itinerario
di «formazione comune» fondato sulla «lettura, l’analisi
e l’interpretazione». Ancora troppo spesso le ore di Italiano nel
triennio delle scuole superiori si riducono allo “studio” della letteratura
(ovvero, di fatto, della storia della letteratura) e non possono essere
identificate né con la frequentazione dei testi letterari né,
tanto meno, con finalità quali la formazione di un lettore abituale,
consapevole, dotato di strumenti conoscitivi adeguati.
Tra i nuovi diritti di
cittadinanza anche la fruizione di messaggi estetici
Si tratta, allora, non tanto
di rivendicare uno spazio orario, quanto di legittimare in modi nuovi le
finalità formative di quel particolare campo di sapere e di esperienza
(culturale ed estetica) rappresentato dalla frequentazione intelligente
e riflessa dei testi letterari. Ciò significa affermare che il diritto
all’immaginario e alla fruizione non solo consumistica dei messaggi estetici
fa parte dei nuovi diritti di cittadinanza, è una componente essenziale
dei percorsi di attribuzione di senso e di ricostruzione di identità
individuali e collettive, è un’abitudine culturale che la scuola
offre come opportunità e orientamento alle donne a agli uomini di
domani.
Per farlo, la letteratura
dovrà inevitabilmente confrontarsi con la necessità di creare
opportune correlazioni con altri campi di esperienza conoscitiva ed estetica
(l’arte, la musica, il teatro, il cinema) e rivendicare al contempo una
specificità che è anzitutto linguistica e simbolica, ma che
riguarda anche la sua tenuta storica, il fatto che da secoli costituisce
una forma di rappresentazione della realtà interiore e sociale e
che secoli di riuso di alcuni testi letterari hanno sedimentato attorno
a essi una porzione significativa (e spesso gratificante) dell’evoluzione
culturale della nostra specie.
Si è detto e fatto
molto, negli ultimi decenni, per impostare in questi termini la didattica
della letteratura, ma non abbastanza da farne una consapevolezza e soprattutto
una pratica diffuse. Del resto, lo scarto proposto da questa prospettiva
non è di poco conto e coinvolge anche i problemi sollevati dalla
seconda domanda.
Al centro di una rinnovata
concezione dell’insegnare (con la) letteratura è stato posto il
rapporto (emozionale, cognitivo, linguistico-testuale, culturale) fra lettore
e testo letterario e non più, come avveniva in passato, la storia,
la genesi culturale, la collocazione storico-filosofica degli autori e
dei loro testi, né soltanto, com’è avvenuto in tempi più
recenti, la specificità linguistico-testuale, strutturale, semiotica
e simbolica del testo letterario. Questi sono e restano gli strumenti essenziali
e gli orizzonti culturali di una fertile esperienza conoscitiva proposta
allo studente-lettore-interprete, ma non sono più i fini dell’apprendimento,
che sono invece diventati le prassi cognitive e linguistiche, gli atteggiamenti
e le abitudini culturali, le scelte consapevoli che alimentano quel rapporto
fra sé, i testi e, quindi, la loro natura intrinseca e la loro storia
sociale.
Quale operatività
con il testo letterario
Ciò significa ripensare
e rivalutare, anzitutto dal punto di vista formativo, le operazioni (cognitive,
linguistiche, culturali) che il lettore compie a contatto con il testo
letterario: la fruizione, la risposta soggettiva, la comprensione, l’analisi,
l’interpretazione, la storicizzazione. Questa operatività deve salvaguardare
sia le componenti più soggettive e intimistiche sia quelle comunicative
e sociali della frequentazione dei testi letterari, ma deve soprattutto
essere orientata ai bisogni, alle identità, ma anche alle prospettive
e opportunità di crescita del soggetto che apprende, anche nel triennio.
Questa operatività
si esercita attraverso la produzione di testi, orali ma soprattutto scritti.
Il resoconto della comprensione, la parafrasi, l’analisi del testo, il
commento, il confronto fra testi, la collocazione storica, ma anche, eventualmente,
la parodia, l’imitazione, la trasposizione ambientale… sono atti di pensiero
e di parola, che si compiono parlando e soprattutto scrivendo.
Perciò fare letteratura
è, anche (ma intrinsecamente) insegnare/imparare a scrivere. La
componente di educazione linguistica (se vogliamo usare questa definizione
che proporrei invece di sfumare poiché alla sua carica innovativa
si sono sostituite incrostazioni inutilmente polemiche e fuorvianti) non
è un di più, un aspetto complementare dell’educazione letteraria,
una sorta di malsopportato tributo a ordini di scuola precedenti e a torto
considerati inadempienti. è invece parte intrinseca e sostanziale
dell’agire degli allievi e dei loro apprendimenti dentro e con la letteratura.
Per una didattica del
testo e attorno al testo
Del resto, non si capisce
che cosa possano fare gli allievi, dopo aver letto testi letterari, se
non… pensare, parlare e scrivere. A meno che non si voglia – come suggeriva
un fortunato film di qualche anno fa – diffondere l’idea che, dopo aver
letto testi letterari, ci si mette in cerchio attorno all’oggetto sacrale
della nostra emozione, si riscopre l’identità massonica del gruppo
dei pari, si frequentano caverne, magari ci si suicida poiché la
frequentazione della letteratura è entrata in irresolubile conflitto
con un padre gretto e militarista e alla fine si sale sui banchi per rendere
omaggio all’insegnante-guru, incompreso e ingiustamente vilipeso da quella
società materialista nella quale ci si affretterà a immergersi,
appena scesi dal banco. Senza più sentire il bisogno di leggere,
ovviamente.
Semmai, anche qui è
interessante notare come si affermi un principio per certi versi radicalmente
nuovo: non sarebbero più soltanto i testi letterari a insegnare
a scrivere, ma le operazioni che il soggetto compie attorno, su, dentro
e con i testi. Non è questione da poco: è come dire che,
rispetto alla formazione linguistica degli allievi, al contributo implicito
e indiretto fornito dalla lettura dei testi (dalla loro natura linguistico-testuale
che, tra l’altro, se sono letterari, è sempre un po’ troppo innovativa
rispetto alla lingua comune coeva…) si aggiunge il contributo esplicito
e diretto che deve essere rappresentato dalla didattica dei testi che si
producono attorno ai testi letterari (non a caso, poi, richiesti nella
prova d’esame).
Salvaguardare
il rigore storico e filologico
Luperini.
Mi pare che Maria Luisa Jori insista giustamente sulla centralità
della lettura e dunque del rapporto diretto fra studente e testo letterario.
La postmodernità inclina a fornire solo competenze comunicative
e infatti nelle scuole superiori in Usa non si insegna più letteratura
ma communications. Questa tendenza, attiva anche nel nostro Paese, va contrastata.
Dunque, d’accordo sulla centralità della lettura, che rende protagonisti,
a un tempo, sia il lettore che l’opera, cambiando entrambi nell’atto vivo
di un’esperienza: quella, appunto, del leggere (anche il testo cambia:
a ogni nuova lettura lo scopriamo infatti nuovo). Occorre superare qualsiasi
forma di approccio passivo o dogmatico o normativo; e sempre partire dall’individualità
concreta del testo, non da formule di storia letteraria. E tuttavia poi
alla storia (e anche alla storia della letteratura) bisognerà riferirsi
per rendere più varia e ricca l’interpretazione del testo (la quale
implica, per esempio, anche la sua storicizzazione). Da questo punto di
vista metterei in guardia contro ogni facile ipertestualismo: dire «basta
che leggano» (gli studenti, s’intende); «basta con i commenti»
ecc., può essere pericoloso non solo perché può incoraggiare
il soggettivismo (con il conseguente venir meno di qualsiasi rigore storico
e filologico), ma anche perché colpisce a morte la ricchezza del
momento ermeneutico che deve sostanziarsi anche di analisi testuali e storiche
(con rinvii alla situazione concreta, alle poetiche, ai movimenti letterari
ecc.). La stessa intertestualità di cui ho parlato nel primo intervento
deve ancorarsi a un acquisito impianto storico, altrimenti può facilmente
degenerare in chiacchiera o in tuttologia.
Collocare la scrittura
in un contesto di “concretezza pragmatica”
Sono d’accordo anche con
Ambel che nota l’affermarsi di un principio nuovo, per il quale non sono
più soltanto i testi letterari a insegnare a scrivere, ma le operazioni
che il soggetto compie «attorno, su, dentro e con i testi».
Nel triennio l’intreccio fra insegnamento linguistico e insegnamento letterario
può realizzarsi proficuamente proprio nel pieno del momento ermeneutico
quando lo studente dovrà argomentare una tesi interpretativa intorno
al testo e su una sua porzione o su uno spunto attualizzante che esso offre.
Allora, nel vivo di un dialogo e di una pragmatica, dovrà articolare
per via orale e per via scritta la propria posizione. La letteratura di
per sé può insegnare poco o nulla a scrivere, anche per la
distanza, sottolineata in vari interventi, fra i modelli di scrittura del
passato e quelli del presente e fra connotatività del letterario
e denotatività del linguaggio comune; invece interpretare un testo
letterario e comunicare la propria opinione su di esso possono contribuire
in modo decisivo ad apprendere le logiche argomentative e a impadronirsi
di un linguaggio culturale maturo e problematico. Trasformare la classe
in una comunità attraversata da un fecondo conflitto interpretativo
è già un primo passo anche per insegnare forme di scrittura
complesse e articolate. Collegare la scrittura a un’esigenza suasoria e
dialogica, e cioè collocata in un contesto di concretezza pragmatica,
è forse più produttivo che sottoporre gli studenti a schemi
comunicativi astratti e/o virtuali. In fondo, già nel comune medievale,
le arti della retorica espositiva erano strettamente collegate a compiti
civili e a esperienze collettive.
Non basta leggere
per imparare a scrivere
Jori.
Non mi resta che “parafrasare” quanto ha precisato Luperini a proposito
della necessità di evitare l’impoverimento o addirittura l’annientamento
della letteratura in una didattica della centralità del testo limitata
a una fruizione edonistica e soggettivistica della lettura: lo farò
da insegnante, in base alla mia esperienza didattica e alla mia attuale
osservazione dell’insegnamento della letteratura attraverso il tirocinio
degli specializzandi della SIS (Scuola Interateneo di Specializzazione
per l’insegnamento) di Torino, di cui sono supervisore. Le valenze formative
specifiche della letteratura (implicite nello stesso statuto epistemologico
della disciplina), che come tali devono democraticamente essere rese comuni
a tutti gli indirizzi, possono essere riassunte in due aspetti complementari:
-
l’educazione a un’etica laica,
sia per l’esperienza di punti di vista diversi nel tempo e nello spazio,
che possono essere assunti dal lettore con l’immedesimazione emozionale
e riconosciuti attraverso la distanza critica, sia attraverso il rispetto
del vero, esercitato dal rigore storico e filologico nei confronti dei
testi;
-
la conoscenza dei sistemi di
circolazione delle idee nella storia, delle relazioni di reciprocità
che si creano sempre, sia orizzontalmente sia verticalmente, cioè
nel tempo, tra pensiero creativo individuale e contesto storico-culturale
e socio-politico.
Se la letteratura dunque insegna
a pensare e a vivere civilmente il proprio tempo, arricchisce certamente
anche la scrittura dei giovani, ma non in modo tecnicamente più
specifico rispetto ai contributi forniti dalle altre discipline. Infatti
l’educazione linguistica, com’è noto, è trasversale: anche
la prima prova del nuovo esame di Stato lo ha stabilito una volta per tutte,
offrendo vari ambiti, tutt’altro che letterari, almeno per la scrittura
documentata (socio-economico, storico, scientifico). D’altra parte oggi
l’oralità si è sviluppata e si sviluppa in modo così
più rapido rispetto al passato, da allontanarsi linguisticamente
dai modelli della comunicazione scritta, per sua natura più legata
a codici e forme testuali della tradizione, a tal punto da rendere necessario
un insegnamento specifico della scrittura. Per imparare a scrivere quindi
non basta più leggere, ma diventa necessaria l’istruzione pratica
del laboratorio.
Saper capire,
pensare e agire linguisticamente
Ambel.
Mi sembra che le opinioni espresse nei diversi interventi mettano in evidenza
alcuni sostanziali e significativi punti di convergenza, in particolare
sulle questioni poste dal rapporto fra scrittura ed educazione letteraria.
C’è sostanziale accordo
attorno al fatto che una componente importante del curricolo di scrittura
dai tre ai diciotto anni e oltre, la cui esigenza è ben evidenziata
da Ferreri, finisce con coincidere con le operazioni sui testi che stanno
al centro dell’educazione letteraria (anche se non ne esauriscono ovviamente
le finalità). Sarà però necessario, come giustamente
raccomanda Luperini, evitare il rischio di insegnare solo communications.
Ed è un rischio che non riguarda solo il rapporto fra competenze
linguistiche e letteratura, ma più in generale il rapporto fra l’acquisizione
e il rinforzo delle competenze linguistiche più elaborate e tutte
le tematiche disciplinari attorno alle quali esse vengono esercitate nel
triennio.
La via per garantire le
strutture logiche e discorsive necessarie a esprimere in modo coerente
e adeguato tematiche complesse, mi sembra ben sintetizzata nella convinzione
di Jori che «per insegnare a scrivere bisogna insegnare a pensare,
non solo a usare correttamente il codice linguistico». Questo è
un compito che attraversa tutti i contesti tematici e culturali di apprendimento
e che non a caso trova conferma nelle prove d’esame, che sono tutte squisitamente
“disciplinari”. A quei contesti disciplinari, e non solo all’educazione
linguistica, tocca il compito, soprattutto nel triennio, di saldare capacità
di capire, pensare e agire linguisticamente su tematiche complesse.
Importanza di una formazione
comune
Più articolate, nonostante
tutto, mi sembrano invece le questioni legate alla prima domanda. Dagli
interventi emerge una sostanziale convergenza attorno a un’idea di educazione
letteraria che ha come fondamento comune il «momento interpretativo
o ermeneutico, che si presta ad approfondimenti interdisciplinari e allo
sviluppo delle capacità dialogiche e dello spirito critico e problematico»
(Luperini). Jori evidenzia gli spostamenti di centralità di questa
prospettiva e anch’io concordo sui rischi di una “centralità del
testo” esasperata a svantaggio della centralità dell’incontro fra
i soggetti che apprendono e il patrimonio di lingua, cultura, problematicità
e storia veicolato dai testi letterari.
Non sono così scontati,
però, gli aspetti di questo impianto formativo che devono riguardare
la “formazione comune” e quelli che devono appartenere alle aree di indirizzo
delle future articolazioni della scuola superiore post-riordino. Detto
in estrema sintesi, penso che si debba ancora lavorare attorno all’idea
che a tutti gli allievi, alla fine della scuola superiore, indipendentemente
dal tipo di scuola frequentata, si debba chiedere lo stesso tipo di commento
(lo stesso livello di esercizio ermeneutico) attorno allo stesso testo
letterario.
Molto utili sono al riguardo
le concrete indicazioni contenute nel primo intervento di Luperini sulle
differenze di approccio fra i diversi indirizzi di scuola superiore. Senza
nulla togliere al valore formativo “comune” della letteratura, penso che
faremo bene alla stessa letteratura – e soprattutto agli allievi – se,
anziché darla per scontata, proveremo a ridisegnarne una nuova,
più articolata e più essenziale legittimità.
Che cosa è essenziale?
Su questo terreno, abbiamo
l’opportunità e l’esigenza di… dare il buon esempio: nessuno vuol
rinunciare a porzioni della propria “essenzialità” nel formare il
pensiero critico dei cittadini di domani, ma non è facile conciliare
la pluralità degli approcci a una realtà sempre più
globale e complessa con un tempo scuola che tende necessariamente a ridursi.
Non possiamo limitarci a difendere la legittimità e la priorità
del nostro sguardo sul mondo, né possiamo negare la valenza formativa
“comune” di altri percorsi conoscitivi e di altre aree di sapere. Ma non
possiamo neppure rispondere alla complessità del mondo con una perenne
sommatoria di… essenzialità, a danno delle possibilità di
tenuta degli allievi. Sono proprio gli allievi e le loro esigenze e le
loro incrementabili potenzialità di apprendimento il criterio che
dovremo congiuntamente tenere presente, e non solo e non tanto la valenza
che ciascuna disciplina attribuisce a se stessa. In fondo è questo
uno dei compiti non facili che spetta a chi dovrà ripensare ai curricoli
della scuola che uscirà dal riordino dei cicli.
Un’educazione
linguistica utile per tutti i settori della conoscenza
Ferreri.
Mi pare che negli interventi di Ambel, Jori, Luperini si ritrovino aspetti
ineludibili di una educazione linguistica e letteraria: valore della formazione
letteraria per tutti gli indirizzi; lettura diretta dei testi letterari
come approccio da privilegiare; contestualizzazione e interpretazione come
operazioni da costruire in classe in modo attivo; centralità del
testo intesa come costellazione di rapporti che ne permettono la collocazione
storica e l’interpretazione (per mezzo di raffronti con altri testi dello
stesso autore, altri testi di altri autori, altre epoche storiche, altre
letterature); uso della scrittura per argomentare un’interpretazione. Tutto
questo deve esserci nella scuola rinnovata, e ci deve essere ancora altro
per consolidare un’educazione letteraria che si fa sì conoscenza
storico-culturale ma anche coscienza del patrimonio letterario italiano.
Tuttavia l’educazione letteraria non basta a saturare nel triennio le esigenze
di una formazione linguistica alta che permetta l’accesso a tutti i settori
della conoscenza.
Ciò che poteva essere
sufficiente per una élite di studenti che fondava le conoscenze
letterarie su una solida base linguistica e culturale familiare, appare
riduttivo per la massa di ragazzi (75%, ma la percentuale andrà
ad aumentare) che ogni anno si presenta all’esame di Stato. Per loro, per
tutti loro compreso il segmento elitario, è necessaria un’educazione
linguistica che continui nel triennio ad insegnare e a far riflettere sulle
modalità dell’espressione orale e scritta.
La lettura e lo studio delle
rigorose forme linguistiche della prosa scientifica, la scrittura di un
saggio sulla base di documenti da comprendere e valutare, l’elaborazione
di una relazione su un esperimento o un’esperienza, l’esposizione ordinata
di dati o fatti, l’argomentare che sostiene o ricusa una tesi offrendo
garanzie e qualificando, il dialogare che provoca l’altro a esporre una
posizione o un punto di vista nel rispetto di cittadinanza di tutte le
idee... fanno parte di un’educazione linguistica intesa in modo non riduttivamente
comunicativo.
Queste attività di
lingua sono anzitutto pratiche conoscitive che innestano processi di riflessione
sui contenuti, compresi quelli linguistici, in un continuo lavoro di ampliamento
e rafforzamento delle conoscenze e della metaconoscenza. Le attività
linguistiche riflessive devono avere terreno elettivo e non esclusivo nell’educazione
linguistica; esse devono trovare inoltre elementi di raccordo con tutti
gli altri campi disciplinari che concorrono alla costruzione di abilità
linguistiche complesse. Se è vero che «per insegnare a scrivere
[ma anche a parlare] bisogna insegnare a pensare, non solo a usare correttamente
il codice linguistico», è vero altresì che per insegnare
a pensare si passa attraverso una lingua, duttile per tutti gli usi, da
quelli più bassamente strumentali (ma vitali) a quelli più
altamente poetici o astratti e altrettanto vitali, che bisogna imparare
a conoscere e a usare.
* Mario
Ambel è docente di Lettere alla scuola media statale “P.
Gobetti” di Rivoli (To) ed è presidente dell’Irrsae Piemonte;
Silvana Ferreri è professore associato di Linguistica generale
presso l’Università della Tuscia (Vt);
Maria Luisa Jori è docente di Lettere all’Itc “Santorre di
Santarosa” di Torino;
Romano Luperini è professore ordinario di Letteratura italiana
all’Università di Siena.
numero 9/2000
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