il
sommario - l'archivio - la
redazione - gli abbonamenti
Il curricolo
di Lucio Guasti
Le
molteplici implicazioni contenute in una teoria del curricolo volta
a perseguire un'idea di uomo colto in una scuola democratica, per una
società aperta.
Il curricolo:
l'identità
Una fra le critiche che sono state rivolte alla proposta di curricolo
formulata, in modo particolare, nella seconda metà degli anni
novanta del secolo appena trascorso, riguarda il principio di identità
culturale. Si è osservato che la riforma proposta attingeva in
modo troppo vasto dalla cultura anglosassone e anche dalle nuove tendenze
dell'attuale "dirigenza politico-burocratica" europea, dimenticando
o trascurando la specificità della nostra tradizione. Ciò
che non è apparso chiaro o almeno tematizzato in modo sistematico
e convincente, è proprio l'esplicitazione del punto focale di
questa nostra tradizione culturale: la dimensione storica, quella filosofica,
quella artistica, quella letteraria o, più ampiamente, umanistica
rispetto a una cultura scientifico-tecnologica-tecnica che aveva le
sue radici soprattutto in altri ambienti e in altre culture nazionali.
Si possono formulare due ipotesi che interessano la riflessione sul
curricolo. La prima ha come oggetto la matrice cristiana della nostra
cultura, anche se si può rilevare che questa non solo non si
distingue da quella degli altri Paesi europei o da quelli anglosassoni,
semmai ne è la base comune. A meno che ciò non voglia
dire riferirsi a una matrice più strettamente cattolica della
nostra cultura, il che andrebbe più ampiamente argomentato soprattutto
per le sue supposte conseguenze sui fondamenti delle opzioni curricolari.
La seconda riguarda l'ipotesi di una matrice filosofica della nostra
cultura basata su radici metafisiche, storicistiche e idealistiche,
rispetto a una cultura del mondo anglosassone costruita su teorie empiriche,
esperienziali ed epistemologiche.
Potrebbe essere interessante comprendere meglio come da una stessa matrice
cristiana sia sorta una prevalente cultura empirica e liberal democratica
nei Paesi anglosassoni e, di contro, una altrettanto prevalente cultura
storicista e ideologico-autoritaria nelle nazioni europee.
Se questo approccio al problema non viene ritenuto legittimo, allora
occorre pensare che il riferimento è rivolto a un particolare
periodo storico ritenuto emblematico e caratterizzante la nostra storia.
In genere, si riconosce nella letteratura contemporanea che il contributo
che l'Italia ha dato al mondo si è particolarmente concentrato
nei secoli identificati con l'Umanesimo e il Rinascimento. Se l'attuale
dibattito sulla crisi e anche sulla fine della modernità ha un
senso, occorre allora stabilire una nuova connessione tra l'identità
del nostro vissuto e il periodo di maggior splendore della nostra tradizione.
Per quanto attiene al curricolo, questa pista di ricerca può
essere attentamente considerata quale progetto di lavoro per una riflessione
sulla teoria del curricolo che tenti di tracciare qualche elemento di
nuova intensità rispetto al curricolo corrente che sembra,
soprattutto per l'attuale generazione giovanile, poco coerente, poco
stimolante, poco costruttivo. Va preventivamente sottolineato che l'approccio
potrebbe portare forse troppo "lontano" dalla situazione attuale,
se dovessimo accettare la sintesi espressa da un eminente studioso italiano
di quel periodo, Eugenio Garin (Cfr. Garin E., a c. di, L'uomo del
Rinascimento, Laterza, Bari 1988). Due passaggi delle sue riflessioni
possono essere particolarmente significativi per affrontare altrettanti
aspetti fondamentali del curricolo, tradizionalmente ritenuti suoi punti
cardine: la verità e la visione dell'uomo. Nel primo si legge:
"La verità, insomma, ossia la filosofia (come la scienza),
non è qualcosa che si trova in un libro da commentare ex cathedra,
di cui successivamente si commenterà il commento (Averroè
e san Tommaso commentano Aristotele, Giovanni di Jandun e Tommaso de
Vio commentano Averroè e san Tommaso, e così di seguito).
Né la ricerca della verità è condizionata dal rapporto
con una 'rivelazione', poco importa se ebraica, o cristiana, o mussulmana.
La verità è una risposta da cercare nell'esperienza delle
cose e nella storia degli uomini, e da mettere, certo, a confronto anche
con i loro libri, ma solo perché anch'essi, documenti dei loro
tentativi, e quindi da valutare razionalmente. Col Rinascimento si chiudeva
un ciclo e, come diceva Machiavelli, si tornava alle origini".(181)
Nel secondo si precisa:
"L'uomo universale del Rinascimento è soprattutto colui
che ha smarrito i confini dei vari campi del sapere e del fare, che
in un dipinto scrive un saggio di pensiero politico o, come Raffaello,
illustra Diogene Laerzio e le vite dei filosofi; che in una lirica compendia
un saggio di morale; che in un trattato di architettura scrive un libro
sullo Stato; che in un'opera sulla pittura condensa ora una dissertazione
di filosofia, e ora i principi di un trattato di perspectiva.(
)".(182)
È questo l'ideale dell'uomo colto che oggi si vorrebbe ricreare?
È questo ciò che il periodo di istruzione obbligatoria
dovrebbe indurre positivamente nella psicologia dei giovani? È
questo oggi un ideale realmente possibile? Qualche autorevole sollecitazione
sembra volere ricondurre la formazione contemporanea a qualcosa di simile.
Si prenda una delle ultime riflessioni di un cultore delle scienze contemporanee
come Edgar Morin:
"A dispetto dunque di una scienza dell'uomo che coordini e interconnetta
le scienze dell'uomo (o piuttosto a dispetto dell'ignoranza dei lavori
compiuti in questo senso), l'insegnamento può efficacemente tentare
di far convergere le scienze naturali, le scienze umane, la cultura
umanistica e la filosofia nello studio della condizione umana. Allora
si potrebbe giungere a una presa di coscienza della comunità
di destino propria della nostra condizione planetaria, in cui tutti
gli uomini sono messi a confronto con gli stessi problemi vitali e morali".
(Cfr. Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma
del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p.44).
Recentemente anche un filosofo come Stefhen Toulmin (Cfr. Toulmin St.,
Cosmopolis. La nascita, la crisi e il futuro della modernità,
Rizzoli, Milano 1991, p. 224) ha insistito sulla crisi della modernità
e sulla necessità - che si sta già manifestando - di ricupero
di valori propri del Rinascimento:
"La seconda guerra mondiale è stata il culmine dei processi
sociali e storici che hanno avuto inizio negli anni cinquanta del Seicento,
con l'inizio dell'Europa moderna: vale a dire del mondo, dello stato
e del pensiero "moderni". In quanto tale, questo è
stato l'ultimo caso in cui i popoli d'Europa hanno potuto sostenere
e mettere in pratica gli ideali e le ambizioni della Modernità
in una maniera totalmente inconsapevole. Negli anni venti del Novecento
autori come Oswald Spengler avevano affermato che la dominazione mondiale
dell'Europa era giunta al capolinea; ma che la Modernità fosse
"morta e sepolta" è stato dichiarato solo dopo il 1945".
Ma se quella di Toulmin appare oggi come una posizione ampiamente condivisa,
ciò che appare invece rilevante per il nostro discorso riguarda
la sua osservazione sull'eredità della cultura umanistica. Tale
eredità può essere rappresentata nella cultura contemporanea
dall'accettazione di due parametri, quello ecosistemico e quello
dell'adattabilità. Essere umanisti oggi vuol dire
inserirsi in questo tipo di orientamento culturale, mentre coloro che
pensano alla razionalità come stabilità e prevedibilità
vanno annoverati tra i modernisti:
"La nostalgia della Cosmopolis moderna ci espone alla fragilità
dell'immagine della natura su cui essa si basa: un sistema stabile di
corpi fisici che si muovono in orbite fisse intorno a una singola fonte
di potere centrale - il Sole e i pianeti come modello per i re e i sudditi.
Questo schema ha avuto una sua utilità costruttiva nel Seicento,
ma la rigidità che ha imposto alla pratica razionale in un mondo
di agenti indipendenti e separati non è più appropriata
al tardo ventesimo secolo: in un'epoca di crescente interdipendenza,
di diversità culturale e di mutamento storico. Modelli sociali
e intellettuali che in precedenza avevano la virtù della stabilità
e della prevedibilità oggi rivelano i vizi dello stereotipo e
dell'inadattabilità. Continuando a imporre al pensiero e all'azione
tutte le pretese della Modernità tradizionale - il rigore, l'esattezza
e la sistematicità - rischiamo di rendere le nostre idee e le
nostre istituzioni non tanto stabili, quanto sclerotiche, e di trovarci
nell'incapacità di modificarle ragionevolmente secondo le richieste
nuove di situazioni nuove". (257)
Chi ha ereditato la cultura umanistica? Certamente non i filosofi della
modernità:
"Se l'umanizzazione della Modernità nelle scienze naturali
ha annullato gli effetti del rigetto seicentesco dell'Umanesimo, la
stessa opzione è ora disponibile per la filosofia. Dopo il 1630
i filosofi hanno ignorato le questioni concrete e si sono concentrati
su problemi astratti, atemporali e universali (vale a dire teorici).
Oggi questo programma teorico ha esaurito il suo fascino e le questioni
filosofiche pratiche stanno tornando al centro dell'attenzione".(260)
Il dibattito ha diviso in due parti i contendenti. Dall'una, i sostenitori
dell'eccellenza, i difensori del corpo di conoscenze acquisite basate
sul "valore delle discipline affermate", semmai integrate
dai nuovi processi, dall'altra i sostenitori del principio di rilevanza
che ritenevano che non valesse la pena di avere una conoscenza "ben
oliata, ben pulita e ben affilata, per poi non usarla; era molto più
importante trovare modi per utilizzarla al servizio dell'uomo".
Gli uomini della rilevanza avevano tutta la consapevolezza del valore
della conoscenza, per questo non intendevano lasciarla nelle mani dei
soli eruditi.
Così, usando la rilevanza contro l'eccellenza, il dibattito ha
imposto "di indirizzare l'attenzione su quelle questioni pratiche,
locali, transitorie e legate al contesto, molto care agli umanisti del
Cinquecento, ma trascurate dai razionalisti del secolo successivo in
favore delle questioni astratte, atemporali, universali e sciolte dal
contesto. Ai nostri giorni - conclude Toulmin - la razionalità
formale e calcolativa non può essere l'unico metro dell'adeguatezza
intellettuale: bisogna anche valutare tutte le questioni pratiche nella
loro "ragionevolezza" umana". (258)
Così la posizione del nostro Autore - assunta nel nostro discorso
solo come linea emblematica di un orientamento e di un dibattito in
corso - affida alla filosofia della rilevanza il merito di collocarsi
come continuatrice della razionalità umanistica del nostro Rinascimento.
Il curricolo:
la certezza
Uno dei parametri della modernità è certamente quello
della certezza e filosofica e scientifica. La conseguenza di
questo atteggiamento culturale nell'elaborazione del curricolo e dei
conseguenti comportamenti organizzativi e formali è stata assai
alta.
Da una parte essa pare avere incentivato il campo delle definizioni
- essenziali o convenzionali -, dall'altro quello della rigorosità
delle procedure metodologiche ossia dell'aumento dello spessore contenutistico
ed epistemologico del metodo e, infine, l'enfasi e lo sviluppo di una
diffusa teoria dei controlli.
Quest'ultimo esito sembra in questo momento quello socialmente più
rilevante, intorno al quale si sta manifestando un consenso generalizzato
e una letteratura in fase di ulteriore espansione. La teoria dei controlli
per quanto attiene al curricolo è ormai composta di una serie
di voci che stanno dando corpo a una letteratura specifica e specializzata
e a conseguenti operazioni di riflessività e di sperimentazione.
La speranza implicita, ma anche esplicita, di ogni democrazia nascente
è legata alla convinzione che questa possa reggere al suo stesso
dinamico sviluppo soltanto se il principio di autocontrollo diventa
un carattere fondativo di ogni individuo che voglia vivere i valori
della "cittadinanza" - come oggi si sottolinea. La società
delle democrazie liberali è correlata allo sviluppo delle forme
di autocontrollo da parte di tutti i suoi protagonisti. La forma inversa
e perdente della democrazia è rappresentata dall'eterocontrollo,
cioè dal controllo esterno, istituzionale o sociale di tutte
le operazioni condotte dall'individuo o meglio dalla singola persona.
La proposta avanzata nella Costituzione italiana di una democrazia personalista,
non individualistica, è basata sulla fiducia nella possibilità
da parte delle diverse istituzioni sociali: famiglia, scuola ecc. di
avere criteri e orientamenti di autocontrollo fattibili e possibili.
La mediazione tra autocontrollo ed eterocontrollo deve essere un oggetto
di costante attenzione e riflessione in una società democratica.
Per questo, il dibattito sulle forme di controllo proposte nelle organizzazioni
formative e sociali rappresenta un importante nodo culturale. Per il
curricolo non è indifferente una scelta o un'altra rispetto al
sistema dei controlli sia esso correlato agli aspetti istituzionali
sia legato alle dinamiche del sapere o della conoscenza.
Da diversi anni è in corso una pressione culturale che sta incentivando
l'espansione e la generalizzazione del controllo applicabile a tutte
le operazioni visibili sul piano sociale ma anche a quelle meno visibili.
Il controllo si sta espandendo nel curricolo sia ai diversi aspetti
dell'apprendimento, sia all'insegnamento, sia ai programmi, sia all'organizzazione,
sia ai ruoli e alle persone che li incarnano ecc. Ma occorre ricordare
che la stessa teoria della valutazione indica nel principio che "non
si può valutare tutto" un particolare discrimine rispetto
a tale orientamento.
Non va comunque confusa la teoria dei controlli con la formazione alla
capacità valutativa da parte dei diversi soggetti. Così
ammoniva già negli anni sessanta del secolo appena trascorso,
un filosofo quale Habram Heschel che, preoccupandosi dell'uomo futuro,
sosteneva che "il genere umano non morirà per mancanza di
informazione, ma può invece perire per mancanza di valutazione"
(Heschel H., Chi è l'uomo?, Rusconi, Milano 1965, p.116)
.
Il curricolo:
l'universalità
Tali orientamenti sono in grado di indurre più di un'osservazione;
per il momento vale la pena di soffermarsi su un terzo punto, riprendendo
il concetto di centralità della condizione umana, nel suo particolare
versante di "comunità di destino".
L'attuale curricolo è ormai attaccato da due versanti: il particolare
e il generale. Tradotto in termini diversi si può rilevare
facilmente che oggi il curricolo è sottoposto a due richiami
forti: il locale e il globale. Da una parte, è stata avanzata
alla scuola la richiesta di un maggior investimento nella cultura locale
considerando tale orientamento come condizione fondamentale dello sviluppo
del curricolo. Il rapporto della scuola con il suo territorio e con
le sue espressioni culturali, complessivamente prese, è stato
assunto come asse metodologico forte, fino a ipotizzare integrazioni
linguistiche, attenzioni al tessuto produttivo, orientamenti di politica
culturale locale o regionale. D'altra parte, la tensione mondiale induce
a considerare tendenze completamente diverse riguardanti i grandi processi,
la maggiore vicinanza delle persone nell'ambiente mondo, la contestualizzazione,
l'interdipendenza dei fatti ecc. La scuola appare pertanto sollecitata
da una quantità di messaggi che la proiettano verso il globale,
verso il tentativo della comprensione del tutto e, all'interno di questa
pressione, induce riflessioni su ciò che unisce o divide le culture,
i sistemi, le persone. Inoltre, nell'attuale contingenza storica, la
dimensione politica dell'Europa rappresenta un richiamo a uno sforzo
intermedio di identificazione con culture tradizionalmente "amiche
e nemiche" tese verso uno sforzo di integrazione e di scambio,
nonché di responsabilizzazione comune.
L'ipotesi di curricolo che si può esprimere in questa situazione
sembra assai vicina alla teoria dell'elastico che viene tirato nella
direzione di chi ha maggiore forza di attrazione. Si ripropone in modo
più forte rispetto al passato l'idea del "globale"
ma, nello stesso tempo, aumenta la propensione verso la valorizzazione
del "locale". Così l'ipotesi, assai "pragmatica",
di percentualizzare i rapporti tra locale e nazionale o tra locale,
regionale e nazionale, nasconde soltanto l'impotenza di una strategia
di sviluppo del curricolo che risulta prigioniera di schemi di ripartizione
del potere su singoli segmenti dell'istruzione o della formazione con
un'improbabile accentuazione del protagonismo locale.
Il curricolo:
l'uguaglianza
Negli anni sessanta fu presentato al pubblico in Italia un altro autore
americano di particolare fama quale era Mortimer Adler - recentemente
scomparso. Mentre la casa editrice La Nuova Italia pubblicava e diffondeva
le opere di John Dewey, la casa editrice Armando provò, senza
successo, a diffondere la teoria pedagogica di Adler centrata sul "Progetto
Paideia". La matrice aristotelica e anche tomista dell'autore -
pur distante dalla tradizione scolastica cattolica - probabilmente ha
impedito che in una cultura "classica" ma sostanzialmente
spiritualistico-idealista tale autore venisse preso seriamente in considerazione.
Il richiamo ad Adler ha qui solo lo scopo di introdurre un'argomentazione
fondamentale per il curricolo riportando il dibattito quasi alle sue
prime diffuse origini. L'Autore contesta al sistema statunitense di
non essere riuscito o di non volere realizzare quel principio di uguaglianza
che è invece una condizione fondamentale della filosofia democratica
di matrice realista. Il giudizio negativo è rivolto al cosiddetto
Tracking System che riguarda la pratica di raggruppare studenti
in canali separati, soprattutto dal sedicesimo al diciottesimo anno
in vista della preparazione alla scelta universitaria, tecnica o professionale.
Pur essendo strutturata ormai secondo il modello "comprehensive",
la scuola statunitense, secondo Adler, conserva ancora aspetti di eccessiva
divisione in classi nell'ultima parte del suo percorso formativo. In
una scuola obbligatoria e per tutti fino al diciottesimo anno, questa
scelta è contraria a una visione egualitaria della democrazia.
Per Adler i ragazzi sono certamente "educabili in vari gradi, ma
la variazione del grado deve essere dello stesso tipo e qualità
d'educazione", il che significa che il grado può essere
diverso ma il genere no. La qualità della razionalità
umana è basata sulla comunanza di genere e come tale essa garantisce
la qualità per tutti. Per il nostro Autore, infatti, tutti hanno
potenzialmente la capacità di essere razionalmente educati, se
ciò non avviene dipende dalle circostanze e dalle incapacità
dell'ambiente, ma tutti lo possono essere allo stesso modo: "Nel
cuore di un sistema della scuola pubblica multi-track giace un'abominevole
discriminazione". Gli obiettivi che un sistema ugualitario deve
perseguire sono sostanzialmente tre: il self-improvement mentale,
morale e spirituale; la responsibility of citizenship; "the
basic skills that are common to all works in a society such as ours".
Per Adler una scuola pubblica deve essere generale e liberale, formare
al lavoro senza entrare nel merito di specializzazioni e di professionalizzazioni
anticipate, vale a dire fino al diciottesimo anno. Nel sistema europeo
la specializzazione è anticipata e interessa tutta la secondarietà.
Se l'orientamento culturale oltre alle canalizzazioni attuali dovesse
ulteriormente separare la formazione scolastica da quella professionale,
invece di tendere verso una cultura di base per tutti, allora il ritorno
a una matrice idealistica e antidemocratica sarebbe ancora più
forte ed evidente.
Il curricolo:
la didattica
Com'è avvenuto per la valutazione che è diventata un campo
specialistico e che oggi si presenta come un settore specifico di competenze,
anche professionali, capaci d'organizzazione e di produttività
economica, così sta avvenendo per altri campi tradizionali del
curricolo. L'esperienza e la ricerca hanno aumentato in questi ultimi
tempi il loro potenziale e la loro stessa qualificazione. L'espansione
delle conoscenze è ormai esponenziale al punto che diverse discipline
di studio subiscono separazioni interne e successive moltiplicazioni
e anche là dove la denominazione resta identica è solo
l'apparenza terminologica che la rende tale. La matematica, le scienze,
la tecnologia ecc. sono soltanto denominazioni di campo, di settori,
non possono essere considerate oggetti specifici di studio. Diventa
sempre più necessario per il curricolo elaborare criteri per
la scelta dei campi e dei contenuti piuttosto che elencare tutti i possibili
contenuti che devono essere appresi.
Accanto al tema dei criteri che possiede già una certa letteratura,
almeno com'espressione di un'esigenza avvertita, ci sono altri due argomenti
che dovranno essere considerati oggetto di riflessione per le prossime
operazioni culturali: il contenuto e l'insegnamento.
Nella nostra tradizione i corsi di studio rappresentano ciò che
oggi è definito curricolo, anche se ci sono non poche differenze
tra i due aspetti. I corsi di studio sono costituiti da un gruppo di
conoscenze definiti contenuti. Tutto questo appare normale e consolidato,
ma ci sono molti elementi che oggi inducono a riflettere su ciò
che normalmente s'intende per contenuto da acquisire e se questo è
veramente efficace per l'apprendimento.
Allo stesso modo occorre riprendere la riflessione sull'insegnamento.
La società contemporanea ha ormai professionalizzato l'insegnamento
in modo molto diffuso, ma proprio l'ipotesi corrente di una società
che intende essere caratterizzata dalla centralità dell'apprendimento,
pone nuovi problemi all'insegnamento. E questi nuovi interrogativi non
appaiono tanto difficoltà di realizzazione dell'insegnamento
stesso, quanto problemi legati alla sua stessa natura. Sembra di essere
alla presenza di una crisi epistemica dell'insegnamento piuttosto che
di fronte ad alcune sue difficoltà.
Il curricolo:
lo spirituale
Questo è uno degli aspetti più critici del curricolo.
La contestazione all'ultima riforma della scuola presentata dal precedente
governo si era concentrata, al di là di aspetti d'ingegneria
istituzionale, intorno al concetto di funzionalismo. La cultura che
la riforma esprimeva appariva piegata alle esigenze del mondo produttivo
e, quindi, era accusata di funzionalismo economicistico. Si addebitava
alla riforma una tendenza eccessiva verso gli apparati procedurali della
conoscenza: le competenze, con un'enfasi sul concetto di formazione,
la cui semantica era collocata totalmente nel versante professionale.
Il principio dell'integrazione tra i due mondi, quello dello studio
e quello del lavoro era vissuto come un "cedimento" della
tradizione propria della scuola alla dinamica del lavoro.
Si è forse lasciato intendere che una riforma del curricolo non
doveva essere funzionale al mondo della produzione o non doveva essere
funzionale a nessun altro potere forte della cultura o della società?
Un progetto di riforma del curricolo se non può e non deve essere
funzionale a nessun altro sistema, deve possedere un'autonoma identità
in grado di potersi relazionare con gli altri sistemi culturali presenti.
Se il curricolo può non essere funzionale al sistema economico
o al sistema politico o al sistema religioso o ad altri sistemi sociali,
questo non significa che non abbia relazioni, anche forti con tali sistemi.
Ma il sistema scuola è veramente un sistema ed è veramente
dotato d'autonomia rispetto agli altri sistemi? In particolare, quale
autonomia ha dal sistema politico? Perché appare più rischioso
il funzionalismo al sistema economico rispetto a quello nei confronti
del sistema politico quando la storia del Novecento pare che abbia dimostrato
esattamente il contrario?
Ma dopo questo necessario chiarimento propedeutico resta ancora un problema:
come qualificare il nuovo curricolo, o il curricolo dei prossimi decenni
o del nuovo secolo?
È il termine "spirituale" che può compattare
l'icona del nuovo e autonomo orientamento curricolare? Sono diversi
gli autori che richiamano i valori dello spirituale come necessari per
assegnare un compito significativo al curricolo e per provare a individuare
strade più interessanti e motivanti per le giovani e non giovani
generazioni. Ma sorge ancora una domanda: può un corso di studi
avere una natura spirituale ed essere nello stesso tempo per tutti senza
cadere nelle correnti del neoidealismo imperante o in forme di confessionalismo
etico o religioso? Un altro filosofo, Hanan Alexander, ha tentato una
prima risposta (Cfr. Alexander H.A., Reclaiming Goodness. Education
and Spiritual Quest, University of Notre Dame Press, Indiana 2001)
a quest'interrogativo, ma è evidente che si è solo agli
inizi della riflessione. La ricerca in corso ha ormai deciso di abbandonare
le "certezze della modernità" per approdare a nuove
ipotesi, ma il percorso appare ancora quello della compattezza del modello
ereditato dal secolo scorso basato sulla razionalità istituzionalmente
organizzata.
numero 6-7/2002
|