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L'autonomia negata
e la vittoria dei poteri forti
di Beatrice Mezzina
La proposta
del ministro Moratti, che a prima vista può apparire come una
"non riforma", in realtà si configura come un pesante
ridimensionamento di quanto di più significativo negli ultimi
anni era venuto affermandosi nella scuola.
Il disegno di legge
delega di riforma della scuola approvato dal Consiglio dei ministri
il 1° febbraio scorso sembra a prima vista una non riforma. Sentimento
diffuso, a un primo approccio, è che in fondo non cambi molto
il quadro generale della scuola e che, nel tentativo di contentare tutti
i partner governativi dopo la bruciatura della sospensione del progetto
da parte della maggioranza stessa, il ministro abbia annacquato le proposte
originarie nel disegno di legge delega.
Difatti sembra proprio così; rimane la struttura della scuola
italiana: infanzia, elementari, medie e superiori; niente collegamenti
tra i tre percorsi per le pressioni dei centristi che hanno voluto mantenere
separati i vari gradi di scuola, stroncando i bienni di raccordo; l'ingresso
anticipato a scuola fa contente le famiglie e abbassa un po' l'età
di uscita dalla scuola, visto che non si è riusciti a ridurre
di un anno il percorso scolastico; non è previsto un anticipo
consistente per non scontentare la parte di maggioranza cui stanno a
cuore le primine private; la scuola superiore resta di cinque anni,
per far contenti altri alleati che ne richiedevano la conservazione.
Resta il canale separato della formazione professionale da scegliere
a quattordici anni che è sembrato interessasse poco tutti i partiti
della coalizione, tanto non tocca i figli di quelli che discutono di
scuola.
C'è chi
vince e c'è chi perde
Invece non è così. Sotto l'apparente linea soft c'è
una forte virata conservatrice e una netta vittoria dei poteri forti:
c'è chi vince e c'è chi perde in questa proposta. Perde
la scuola, senza dubbio, perde l'avvio difficile dell'autonomia e vincono
i poteri forti.
Vince Bossi, innanzitutto, con il passaggio alle Regioni dell'istruzione
e della formazione professionale e con la cancellazione dell'autonomia
scolastica nella sua parte più qualificante. Viene meno infatti
quanto previsto dal Dpr n.275/98 e considerato uno degli effetti più
importanti dell'autonomia scolastica per cui una parte del curricolo
obbligatorio, fino al 20% nelle superiori, poteva essere definito dalle
singole scuole. L'autonomia di ricerca e sperimentazione immetteva così
le scuole in un circuito virtuoso di responsabilità nella elaborazione
dei programmi, tenuto conto delle esigenze degli studenti e delle necessità
del territorio. Ora, invece, una parte del curricolo è riservata
alle Regioni a cui lo Stato garantisce competenze non solo nell'ambito
dell'istruzione e della formazione professionale ma anche su parte dei
curricoli. È stravolta la logica dell'autonomia delle scuole.
Già vi sono le file per le interviste sui giornali di chi si
candida meglio per incarnare lo spirito della Regione e per entrare
nei programmi scolastici; associazioni turistiche e commerciali, di
arte e cucina, tutti a reclamare una materia stabilita a livello regionale.
Un processo di regionalizzazione che rischia di parcellizzare valori
e contenuti culturali, di favorire appartenenze e identità chiuse
impoverendo le esigenze di confronto e dialogo proprie di una società
complessa come quella contemporanea.
Per non parlare degli Istituti professionali che passerebbero alle Regioni
non si sa con quali garanzie, con quali ipotesi di modifica, con quali
ingerenze nei programmi e nella organizzazione.
Vince Tremonti. È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il
decreto che definisce la consistenza del personale scolastico e che
attua le misure di riduzione del personale previste dalla legge finanziaria:
taglia 8.500 cattedre nel 2002, fino a 36.000 nel triennio, disapplica
la sperimentazione dell'organico funzionale che aveva dato avvio a esperienze
interessantissime nelle scuole, rimodula i posti sul numero degli alunni,
togliendo di fatto risorse alle scuole che lavorano in un tentativo
di riorganizzazione di quelle disponibili per superare la rigidità
delle classi, per modificare tempi e spazi di attività formativa
al di là della lezione frontale,
per far meglio scuola,
quindi.
E la Confindustria? Subito dopo gli Stati Generali, da parte confindustriale,
sulle colonne del "Sole 24 ore" e per bocca di Guido Barilla,
responsabile scuola della Confindustria, si era sostenuta la necessità
di un percorso formativo comune fino a 16 anni, con forti perplessità
sul doppio canale con netta differenziazione dopo i 14 anni; ora la
posizione sembra essere molto più possibilista e sul medesimo
giornale, lo stesso Barilla loda i percorsi in alternanza scuola lavoro,
fiutando il business che sempre accompagna le massicce promozioni di
un raccordo tra scuole e aziende che contrattano sempre bene i loro
interventi, come sanno gli Istituti tecnici e professionali che non
trovano sempre aziende disinteressate ad accogliere i propri alunni.
Vince l'Università, cui viene affidata in esclusiva la formazione
iniziale degli insegnanti e quella in servizio, senza che in questo
progetto si parli di valorizzazione dei tanti insegnanti e delle attività
di ricerca nella scuola, sempre in condizione di minorità rispetto
all'Università. Insegnanti che hanno fatto ricerca ed esperienze
nelle scuole e nelle loro associazioni professionali, che hanno pubblicato
libri e hanno costruito la ricerca didattica non sembrano trovare spazi
non residuali e di pari dignità nel sistema di formazione affidato
alle università.
Perdono studenti
e insegnanti
Perde naturalmente la scuola.
Perdono poi gli studenti. Maltrattati insieme con gli insegnanti quando
si abolisce di fatto l'esame di Stato finale con un articolo della legge
finanziaria, senza un dibattito e una consultazione preventiva, aprendo
la strada allo svilimento del valore legale del titolo di studio.
Perdono gli studenti più deboli di cui non si parla nel progetto
di riforma. Si prospetta solo la canalizzazione precoce che recepisce
di fatto le differenziazioni sociali e culturali di partenza. Non serve
affermare la pari dignità dei due canali e la possibilità
di passaggi come garanzia di modificabilità della scelta. Sappiamo
bene che chi a 14 anni sceglie un canale di formazione professionale
non lo fa perché folgorato dalla vocazione per il lavoro ma perché
ha difficoltà con la scuola e sappiamo che i passaggi, soprattutto
quelli da percorsi formativi meno elitari a quelli più elevati,
sono rari. Questo determinismo dell'orientamento selettivo precoce,
nella sua semplificazione, si scontra proprio con la complessità
della società e con le sollecitazioni degli organismi europei
che propongono ben altri livelli di complessità di approccio
ai problemi.
Perdono gli insegnanti quando, invece di trovare la strada per una valorizzazione
di precise responsabilità nella gestione della scuola, si parla
di Organi collegiali rinnovati in cui un Consiglio di amministrazione
con esterni deciderà non solo del danaro da amministrare ma delle
scelte culturali della scuola, con un preside licenziabile e che, a
sua volta, assume e licenzia, non si sa con quali criteri di efficacia
e di efficienza, che mistificano spesso principi di appartenenza e di
gregarietà.
Chiediamo rispetto, il coinvolgimento e la consultazione di chi opera
per una scuola che migliori in qualità ma che non venga snaturata
nei suoi valori tradizionali e nell'educazione dei giovani alla cittadinanza,
che si sforzi di garantire i diritti di ciascuno e della collettività.
La scuola pubblica ha svolto nell'età repubblicana un grande
compito, nonostante i difetti e le contraddizioni.
Vogliamo continuare a esserne protagonisti.
numero 4/2002
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