il sommario
- l'archivio
- la redazione
- gli abbonamenti
La riforma che non c'è di Dario Missaglia
Prime riflessioni sulle linee
di indirizzo della Commissione ministeriale presieduta dal professor Bertagna
per la revisione della legge 30/2000.
I tempi si fanno stretti,
annunciano le news vicine al ministro Moratti riferendosi ai lavori della
Commissione per la revisione della legge 30/2000; e in effetti se si legge
l’articolo del professor Bertagna pubblicato sulla rivista "Autonomia e
dirigenza" ( n. 7-8-9 ), le linee di indirizzo della Commissione iniziano
a prendere contorni definibili.
Il professor Bertagna è
uomo di studi; è stato membro della commissione per l’attuazione
della riforma dei cicli e dei curricoli al tempo del ministro De Mauro
e si ritrova ora a presiedere, con evidente comunità di intenti,
la commissione insediata per definire le linee della riforma Moratti o,
meglio, come egli stesso precisa, per "correggere" la legge 30.
Nulla di sorprendente, ovviamente.
Ogni persona ha la sua storia e le sue convinzioni. Trovo semmai sorprendente
che il professor Bertagna si affanni a più riprese ad argomentare
su un insieme di ragioni "tecniche" che avrebbero motivato la sospensione
prima e la revisione poi della legge 30. Come vedremo, queste ragioni tecniche
non esistono; le ragioni sono tutte politiche e averle evidenziate fino
in fondo avrebbe consentito un giudizio più esplicito di quanto
si possa fare ragionando "sull’implicito" che la nuova riforma porta con
sé. Ma procediamo con ordine.
Un’occasione mancata
Il professor Bertagna sostiene
che la riforma dei cicli «non è potuta partire» perché
«non si era affatto pronti tecnicamente a partire».
E aggiunge, per convincere
soprattutto se stesso, che quand’anche il Centrosinistra avesse vinto le
elezioni, uno dei primi provvedimenti sarebbe stato «quello di sospendere
la riforma almeno per un anno». È certamente vero che un organico
progetto attuativo della legge, con decorrenza 1 settembre 2001, non era
affatto pronto; tutti i sindacati, Cgil in primo luogo, ne avevano denunciato
il ritardo e i limiti, ma questo non giustifica la sospensione decisa dal
Governo.
Lo stesso Consiglio di Stato,
nel parere in cui stigmatizza l’operato del Cnpi, aveva messo in evidenza
come i mutamenti strutturali nei primi due anni del ciclo di base sarebbero
stati così tenui da non impedire, persino nelle condizioni date
(di organico e di orario), l’avvio della riforma, con l’ottica di perfezionarla
strada facendo secondo quel principio "autocorrettivo" insito nella stessa
legge 30.
È questa la strada
che il centrosinistra avrebbe ragionevolmente praticato, accentuando il
carattere di sperimentalità del percorso avviato anziché
il suo assetto "a regime". Ma anche il centrodestra avrebbe potuto praticare
un’altra possibilità. La scelta politicamente legittima di sospendere
la riforma (scelta maturata ben prima dei problemi "tecnici" di attuazione)
avrebbe potuto benissimo avvenire con altre modalità.
Il governo avrebbe potuto
prendersi tutto il tempo necessario per pensare la propria idea di riforma;
avrebbe potuto proporre la sospensione come atto insieme di realismo e
di riapertura del confronto con le opposizioni e il mondo della scuola
e procedere, nello stesso tempo, a una sperimentazione mirata della riforma
coinvolgendo quota parte degli Istituti comprensivi (che sono già
oggi oltre il 40% della scuola primaria) su ipotesi di curricolo verticale
anche differenziate (in 7 o 8 anni).
Le conseguenze non sarebbero
state irrilevanti.
La scuola italiana, pur
in presenza di orientamenti politici diversi, non sarebbe diventata luogo
di scontro; le riflessioni e il confronto sul futuro della riforma avrebbero
potuto svilupparsi tenendo conto delle esperienze reali nel frattempo realizzate
e valutate; gli insegnanti, soprattutto quelli che in questi anni si sono
misurati con la sfida dell’innovazione, non sarebbero stati ricacciati
in una passiva e demotivante condizione di attesa.
Tra difficoltà tecniche
dell’attuazione della riforma e la sospensione della stessa non c’è
dunque nessuna automaticità ma solo il peso di una scelta politica
che il governo ha voluto perseguire contro la riforma Berlinguer-De Mauro.
Che questa scelta sia stata poi contestuale a una campagna di pieno appoggio
alle politiche del buono scuola praticate da alcune Regioni e di attacco
al ruolo e alla natura della scuola pubblica chiarisce fino in fondo la
distanza politica e non tecnica delle proposte in campo.
La scuola dell’infanzia
e il ritorno della scuola elementare e media
Il colpo a sorpresa sta
nella lunga e insistente apologia della scuola dell’infanzia, che occupa
ben i due terzi delle riflessioni che investono l’intero ciclo di base.
Che succede?
Gli apprezzamenti sulla
scuola dell’infanzia sono certamente tutti condivisibili e forse il professor
Bertagna avrebbe potuto in tal caso riconoscere i meriti di chi in questi
anni ha concorso fortemente a realizzare questi risultati. La scuola dell’infanzia
ha visto riformati i propri Orientamenti pedagogici, i modelli organizzativi,
l’aggiornamento e la formazione iniziale degli insegnanti. La legge 30
ne ha riconosciuto a pieno titolo la cittadinanza nel sistema di istruzione
e formazione vincolando il governo a una generalizzazione che aveva già
preso le prime mosse. Se il ministro Moratti vorrà ulteriormente
valorizzare la scuola dell’infanzia, ben venga. E non importa se a tutto
ciò il professor Bertagna collega una finestra per decantare il
sistema pubblico-privato come regno della libertà di scelta delle
famiglie.
Sorprende invece che fra
tante lodi alla scuola dell’infanzia resti l’assoluto silenzio sulla reiterata
richiesta che all’unanimità il Cnpi ha rivolto al ministro per sbloccare
una sperimentazione che aveva già trovato ampia condivisione nelle
stesse scuole, finalizzata alla definizione di standard di qualità
validi per tutto il settore e bloccata per decreto dal ministro Moratti.
Una contraddizione che stride duramente con tanta attenzione.
Quel che è certo
è che il nuovo impulso alla valorizzazione della scuola dell’infanzia
consentirebbe la realizzazione delle condizioni per riconoscere come "credito"
la frequenza dei tre anni di scuola dell’infanzia.
L’idea è interessante
e sembra, nelle intenzioni del professor Bertagna, funzionale a confermare
la durata del percorso di istruzione a 12 anni. Ma il modo con cui ciò
potrebbe avvenire resta oscuro.
Se preso alla lettera, il
ragionamento porta dritto alla tesi Berlinguer dove la generalizzazione
della scuola dell’infanzia apriva le porte a un ciclo di base unitario
e della durata di 7 anni. Ma la scelta è sospesa in nome di un generico
diritto al credito che potrebbe essere esercitato in maniera "flessibile"
lungo l’intero percorso dell’obbligo. Come ciò si concili con l’organizzazione
scolastica, gli organici, i curricoli e anche la tutela stessa del soggetto
che apprende resta un mistero.
E il mistero resta per la
semplice ragione che non volendo riaprire conflitti sul versante della
scuola di base, si delinea una sostanziale riconferma dell’attuale assetto
scuola elementare e media (5+3), ovviamente con tanto di nuovi "programmi"
(la parola è testuale), organizzazione, orari e processi di continuità.
Scompaiono così d’incanto i nodi più spinosi che non sono
né l’onda anomala (risolvibile in tanti modi), né l’edilizia
scolastica (che resta già oggi un drammatico problema per la scuola
italiana cui vanno destinate risorse che non c’entrano nulla con le risorse
per il personale), ma i veri conflitti, che il governo vuole rimuovere:
la difesa a oltranza degli ordini e gradi di scuola, la differenziazione
tra maestri e professori, l’introduzione di nuove figure e nuovi modelli
organizzativi. Problemi sui quali il professor Bertagna non esprime una
sola considerazione. Neppure quelle, "tecnicamente" ineccepibili, che in
tutta Europa hanno consolidato un ciclo unitario di base (al di là
delle diverse articolazioni interne) funzionale ad assicurare la personalizzazione
dei percorsi formativi.
È in questo processo,
denso di implicazioni pedagogiche e didattiche, che si costruiscono le
attenzioni verso le differenze tra preadolescenti e adolescenti che non
c’entrano nulla con il permanere delle barriere tra ordini di scuola.
Il ciclo secondario
In realtà tanta conservazione
dell’esistente è funzionale a introdurre il pezzo forte della riforma
a venire: il nuovo assetto del ciclo secondario. È qui che si consuma
la rottura radicale, profonda, con il disegno delineato dalla riforma dei
cicli.
Intendiamoci, il disegno
"tecnico" non è affatto chiaro. Molto si dice sui limiti e le carenze
della formazione professionale ma neppure una parola sugli impegni concreti
che il ministro già oggi può assumere per sviluppare la riforma
della legge 196, per incrementare gli Ifts (Istituti di formazione tecnica
superiore), l’educazione degli adulti in forte crescita, le nuove esperienze
di apprendistato. E nulla si dice neppure della istruzione professionale,
forse perché già assegnata implicitamente alle Regioni nell’ottica
della devolution.
Quel che è certo
è l’ipotesi di un sistema duale secco che inizierebbe a 14 anni,
destinando una parte degli studenti verso i Licei (vero canale di eccellenza
della scuola) e una parte verso una formazione professionale a più
livelli nettamente distinta dal canale scolastico (ed è davvero
platonico il formale richiamo a collegamenti e integrazioni con il mondo
della scuola e del lavoro). Non a caso l’obbligo scolastico verrebbe annullato
nell’obbligo formativo a 18 anni, mettendo i ragazzi nella condizione di
scegliere a 14 anni il loro percorso di studi.
Si comprendono in tal modo
due conseguenze importanti di questa scelta. Il famoso diritto al credito
(maturato con la frequenza della scuola dell’infanzia) altro non è
che il diritto ad abbreviare il proprio percorso di scolarità (che
infatti a 14 anni obbliga a scegliere tra istruzione e formazione privando
le fasce più deboli di un anno di scolarità di base). E la
scuola superiore verrebbe ridotta a 4 anni con conseguenze evidenti non
solo sul terreno degli organici ma sullo stesso profilo del ciclo secondario,
assai più selettivo, non avendo più quella funzione inclusiva
e orientativa propria degli ultimi anni dell’obbligo scolastico per tutti
inserito nel ciclo secondario.
Una prospettiva che non
ha riscontri in Europa e che misura la differenza politica e culturale
con la legge 30.
In quella legge istruzione
e formazione rappresentano un percorso unitario e integrato funzionale
ad assicurare a ciascuno il successo formativo. Il principio dell’integrazione
non è solo garanzia per chi apprende in termini di reversibilità
delle scelte, di opportunità. È anche principio culturale
ed educativo. È la fine del modello gentiliano e delle sue gerarchie
culturali e sociali che qui invece si riaffacciano con virulenza nella
precocità di scelte che porteranno con sé il peso dei contesti
sociali di provenienza dei ragazzi. Una prospettiva in cui una malintesa
concezione del "sapere disinteressato" rischia di negare la fecondità
che in questi anni si è espressa nella integrazione tra saperi diversi
e forme di apprendimento diverse. Rischia di riprodurre una idea di lavoro
e di cultura del lavoro separata e distante da una cultura umanistica;
un’idea vecchia travolta dai processi di cambiamento di questi anni e contestata
duramente nello stesso mondo del lavoro e delle imprese.
Ma è proprio qui
che il Governo mostra la sua identità e i suoi modelli sociali di
riferimento. Perché non è casuale che questa idea di riforma
avanzi nello stesso momento in cui il Governo presenta un "Libro Bianco"
in cui Istruzione, Formazione, Università e Ricerca non sono più
i cardini portanti di un modello di sviluppo che hanno segnato in questi
anni le politiche generali.
È una scelta regressiva
e classista, che va contrastata innanzitutto valorizzando e recuperando
il valore del lavoro e delle esperienze che sono state realizzate in questi
anni con un’ampia partecipazione di tanti e diversi soggetti.
numero 12/2001
|