il sommario - l'archivio - la redazione - gli abbonamenti

La responsabilità e la scuola
di Marco Rossi Doria

Quella che segue è la sintesi - curata da Velia Di Pietra - di una memoria che l'autore ha inviato al ministro Moratti e al Gruppo di esperti, nominato dal ministro, per definire i criteri di un Codice deontologico del personale della scuola italiana, gruppo del quale Marco Rossi Doria faceva parte. L'intero documento è pubblicato in "Insegnare on line"; in forma ridotta esso è disponibile anche sul sito dell'Adi, inoltre la parte iniziale è pubblicata su "Cooperazione educativa". Marco Rossi Doria, insegnante, è coordinatore del progetto Chance-maestri di strada di Napoli.

Il mondo in cui era collocata la scuola nel secolo appena concluso è cambiato per sempre.
Possiamo avere nostalgia per quel mondo ma sarebbe insensato volerlo ricreare.
Dobbiamo pensare a come comportarci da educatori nel nostro tempo. Dobbiamo avere un'idea di scuola in mezzo a un mondo nuovo e difficile. E questa idea la si può costruire certamente in modi diversi e, tuttavia, ognuno deve riconoscere che la scuola è forse l'organizzazione sociale che ha, più di ogni altra (sì, anche più della sanità), al suo centro, il fattore umano poiché modi, strumenti e risultati dei processi che vi hanno luogo sono essenzialmente umani e relazionali.
È da qui che si deve partire ben prima che da un codice e collocare al centro della riflessione la relazione educativa così come essa vive nella scuola, tra slanci e crescenti difficoltà.
La scuola pubblica italiana, che nel corso della sua storia è stata, forse, il più potente fattore di promozione sociale che l'Italia abbia conosciuto, aveva intorno, fino a qualche lustro fa, una società stabile e ordinata secondo valori e modi educativi radicati.
Oggi è chiamata a nuove sfide.
Ogni giorno, in ogni angolo del Paese, si chiede ai docenti della scuola pubblica di sostenere un oneroso carico di lavoro per supplire ad alcune secche perdite di orizzonti educativi della società.
Appare, insomma, molto più complicata di un tempo, per i nostri ragazzi/e, la costruzione di identità attraverso la progressiva e guidata trasformazione del narcisismo in realistici progetti di vita.
È anche di fronte a questo che ci troviamo noi docenti.
La questione del come guidare le giovani generazioni è una delle decisive questioni che disegnano oggi il disagio della civiltà ed è questione che riguarda, da tempo, il mondo intero e segnatamente tutte le società sviluppate ma, nel nostro Paese, è relativamente recente.
Per quanto ci si rivolga alla famiglia, alle comunità religiose, all'esperienza sportiva ecc., la principale richiesta di tenuta del campo educativo complessivo viene rivolta alla scuola pubblica e ai suoi docenti.

L'esperienza del Gruppo di lavoro del Miur
Ho esercitato il mestiere di maestro elementare per venticinque anni e faccio oggi parte di un gruppo docente sperimentale - è il progetto Chance dei "maestri di strada" di Napoli - che lavora, nella scuola pubblica, al recupero di adolescenti che hanno lasciato la scuola e che noi cerchiamo di riconquistare a un percorso che è impegnato a ricostruire la possibilità di una istruzione per persone che prematuramente non vivono più questa occasione, questo evento prolungato che è cardine, nel nostro tempo, per ogni crescita personale, umana, professionale, civile.
Sono stato chiamato in questo Gruppo del ministero "per contribuire a indicare i criteri della professionalità docente e di un codice deontologico"; ma io posso riconoscere la mia professione e la passione che la anima principalmente attraverso il lavoro quotidiano insieme agli altri - un lavoro fatto di pazienza, di ascolto, di costruzione comune non facile, come è ogni impresa professionale dedicata alla cura delle persone quando è fatta seriamente. È un artigianato costruito in comune.
Il nostro è il punto di osservazione che parte da una relazione educativa faticosa perché ben poco protetta, influenzata prepotentemente dalla relazione quotidiana con chi è fuori dal cerchio protetto della nostra società, una condizione professionale che è fatta di cose molto dure e complicate e di un impegno oneroso per i docenti che la sostengono ma anche, necessariamente, di un linguaggio molto diretto.
Quello che impariamo ogni giorno dalla relazione educativa con i ragazzi e le ragazze e, poi, gli uni dagli altri - tra noi docenti, con i nostri dirigenti scolastici, con gli operatori sociali, con gli psicologi che fanno da sostegno al nostro lavoro di cura e relazione e con le altre figure di formatori con cui lavoriamo gomito a gomito - rappresenta il sangue e i nervi della nostra azione: il nostro sapere professionale deriva e ha senso in questa fatica che è, insieme, per ciascuno di noi, educare e apprendere a nostra volta.
E non credo di sbagliare se affermo che così è in qualsiasi ambiente educativo che funziona.
In campo educativo questa prospettiva riporta tutto, inevitabilmente, non già a una serie di precetti fissati una volta per sempre, fondati su una scienza normativa, quale quella di un "ente che sia perfetto", come suggeriva Rosmini, bensì a un comportamento, da scoprire e re-inventare ogni volta, che vada verso la difficile ricomposizione del conflitto tra interesse individuale e collettivo e verso la costruzione di identità individuale e collettiva, un comportamento in cui la forza della presa in carico adulta si deve misurare, ogni volta e ogni giorno, con la difficoltà del compito educativo di fronte al quale ci si trova.
È un compito per il quale un'intera comunità di pratiche deve saper utilizzare, in modo integrato: competenze disciplinari aggiornate, costanza della mediazione comunicativa e culturale gestita in molte direzioni, competenze psico-pedagogiche e relazionali, competenze organizzative e di costruzione di impresa pedagogica attenta a processi e prodotti.
Ed è entro questo moto complesso - e non a partire da un insieme di precetti fermi - che l'educatore, nel concreto della sua azione a scuola, deve e può trovare il tempo, la curiosità etica, l'ambizione fattiva, l'intelligenza di darsi delle regole.
È quanto meno discutibile, dunque, che il lavoro di un Gruppo sulla deontologia a scuola si possa concentrare prioritariamente intorno a temi giuridici, possa indagare soprattutto su come costruire norma in modo stabile, lasciando, così, sullo sfondo la relazione educativa per come essa si manifesta, nei fatti, entro il lavoro vivo del fare scuola.
Tutta la materia richiama, invece, un'opera aperta, incerta, ogni volta arrischiata, un'opera creata a più mani.
Trovare un codice che fermi questa ben più ampia opera mi sembra un compito irrealizzabile e anche una riduzione, falsamente rassicurante, del mestiere di educare. Per chi sta in mezzo al lavoro educativo appare qualcosa che serve per lenire il senso di difficoltà, buona per salvarsi l'anima, non per rimboccarsi le maniche.
Sarebbe oggi utile, invece, pensare a un sistema di patti più leggeri - ma non per questo meno impegnativi - a un esercizio condiviso e costante di costruzione progressiva della responsabilità nella scuola.
La scuola pubblica potrebbe agire anziché per codici, per spore, attraverso la diffusione di buone pratiche il cui innesto entro il corpo della scuola dovrebbe essere favorito grazie a un'intelaiatura di supporto, uno scaffolding di sostegno che ne curi la ricettività, replicabilità e modellizzazione entro nuovi contesti.
In ogni caso, non è facile immaginare uno Stato liberale e fondato sul consenso che abbia la scuola retta da docenti che seguono un codice fisso, magari stabilito altrove rispetto a dove essi operano e assumono responsabilità concrete.
Bisogna accettare il rischio della costruzione progressiva di responsabilità, che possa partire su principi di civiltà che sappiano fondarsi innanzitutto sulla legge non scritta, sull'accordo informale ma forte tra chi vive insieme gli spazi educativi della scuola e della città..
È probabile che a rafforzare questi percorsi, impegnativi ma aperti, di costruzione della responsabilità educativa possano venire - come già accade - i contributi delle associazioni dei docenti, le riflessioni dei gruppi più avvertiti e, soprattutto, un auspicabile moltiplicarsi di intese inter-istituzionali tra i diversi attori della scuola dell'autonomia e, insieme, del federalismo a cui vengono oggi riconosciute sempre più ampie competenze in campo educativo: consorzi tra scuole e tra scuole e altre agenzie educative, Comuni, Province, Regioni.
Una cosa è certa: non si può dire, a parole, "federalismo" e contemporaneamente aspirare a un unico, centralistico regolatore educativo.

Lo scandalo di quelli che la scuola perde
Dentro la scuola gli studenti spesso hanno la sensazione di non potere nulla, ma ci passano una parte rilevante degli anni cruciali per la loro crescita. In questo senso la scuola ora spesso non favorisce la libertà, anche la libertà di godere dei piaceri estetici del sapere e sapere apprendere e sapere produrre.
Eppure, nel nostro Paese, un rinnovamento è da tempo in atto. Anzi, ogni volta che si costruiscono opportunità ben strutturate di valutazione dei percorsi e di messa in discussione reciproca e di osservazione e modificazione del proprio operare pedagogico, si ottengono risultati incoraggianti in tempo relativamente breve.
Del resto, da molti lustri, c'è una esperienza ricca di scuola viva, in cui è piacevole imparare e insegnare, che crea modelli pedagogici alti, capace, da sola, di costanza nell'innovazione.
Ma c'è uno scandalo da cui non è ammissibile prescindere.
È noto che nel nostro Paese gli adolescenti esclusi dalla scuola sono moltissimi, tra gli 80.000 e i 100.000 ogni anno.
Questo scandalo è spesso richiamato nei dispositivi di legge, nelle memorie degli Uffici centrali e periferici, nei documenti sindacali, della Confindustria, delle associazioni di categoria, della Chiesa, dell'Osservatorio nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, prendendo nomi che cambiano nel tempo: abbandono, disattesa o dispersione scolastica, fallimento formativo….
La nostra esperienza e osservazione ci dicono che la deontologia del sistema-scuola e, insieme, di tutte le professioni legate all'educazione ha a che vedere direttamente con questo scandalo.
Quando i ragazzi e le ragazze ci chiedono conto di queste cose, a cui è faticoso ma possibile dare soluzione, e non genericamente del mondo imperfetto in cui viviamo, come rispondiamo noi tutti, con quale onore deontologico?
Per il rispetto che porto alle Istituzioni voglio dirlo con assoluta sincerità: aldilà della opportunità o meno di un codice deontologico, che io non considero una buona soluzione per le ragioni che ho qui espresso, ragionare della professionalità docente in modo neutro, separato o esterno rispetto allo scandalo del fallimento formativo di massa, per me non ha alcun senso.
In un sistema di patti, ci vuole un patto d'onore del sistema-scuola intorno a questa battaglia - che abbia il segno della First Priority - che dia nuovo senso alla stessa parola professionalità.

numero 6-7/2002


inizio pagina