mensile del centro di iniziativa democratica degli insegnanti il sommario - l'archivio - la redazione - gli abbonamenti
Dall’Europa della moneta all’Europa della conoscenza. La formazione per la qualità e la democrazia di ogni Paese a cura di Lina Grossi e Stefania Valentini A conclusione dei lavori del 26° Convegno Nazionale del Cidi su La scuola e le sfide del cambiamento e sulla base degli orientamenti emersi nei tre giorni di relazioni e dibattiti, si è tenuta a Montecatini Terme il 13 marzo scorso, una tavola rotonda sul tema indicato nel titolo. Vi hanno preso parte, Isidoro D. Mortellaro (docente di storia delle istituzioni politiche dell’Università di Bari), Edgar Morin (Centro studi interdisciplinari, sociologia, antropologia, storia, Parigi), Benedetto Vertecchi (presidente del Cede), Sergio Cofferati (Segretario generale Cgil), Tullio De Mauro (docente di filosofia del linguaggio, Università La Sapienza, Roma) di cui riportiamo, in sintesi, gli interventi insieme a quello, conclusivo, del ministro Luigi Berlinguer. Una diversa soggettività europea Isidoro D. Mortellaro, studioso dei temi dell’Europa e della globalizzazione, ha centrato il suo intervento sulla necessità della costruzione di un’Europa dei popoli, e della conoscenza in cui l’educazione e la formazione siano elementi di consolidamento di una diversa soggettività europea, partendo dalla sottolineatura di un’assenza: nei 367 articoli di Maastricht non ricorre mai il termine scuola e debole è anche la presenza di termini quali istruzione, cultura, formazione, utilizzati non in rapporto ad una politica comunitaria ma solo in relazione ai contributi previsti per la promozione di specifiche attività. Ricorrono invece innumerevoli volte i termini moneta, banca e, soprattutto, mercato. Se, come è vero, le parole seguono i nomi (la radice di nome, nomos significa regola, forma, quella che si imprime al mondo quando lo si nomina) e i trattati evidenziano le regole che tengono insieme i soggetti che li sottoscrivono, c’è qualcosa di strano se i nomi che designano due istituzioni come la scuola e la banca, così connaturate alla storia d’Europa da segnare in maniera profonda la civiltà occidentale, compaiono in modo tanto diverso nel testo di Maastricht: dell’uno, la scuola, non vi è traccia, dell’altro, la banca, viene fatto un uso sovrabbondante. Questo dato pone in rilievo la logica di sviluppo dell’Unione europea, così come si è configurata a partire dagli anni settanta: siamo nel cuore di un’Europa in cui è vincitore lo Stato che meglio aderisce ad una logica liberistica. Nel mondo ridisegnato dai flussi della globalizzazione non vi sono più alternative al formarsi di grandi soggettività sovranazionali. La scelta europea è obbligata, non sono però irrilevanti le regole di costruzione di questa nuova soggettività. L’Europa può contribuire ad umanizzare la globalizzazione, imboccando un diverso senso di marcia. Questa sfida si può affrontare solo con progetto condiviso: per fare una Costituzione c’è infatti bisogno di un popolo che condivida un progetto comune, per vincerla è indispensabile una Costituzione europea in cui compaia la parola "scuola". Un nuovo Rinascimento europeo Edgar Morin individua come fattore prioritario nella costruzione di un’Europa della conoscenza la capacità degli europei di raccogliere alcune sfide cognitive proprie della realtà contemporanea. Sfide che attengono: a) all’antinomia crescente tra un sapere sempre più specializzato, compartimentalizzato e la trasversalità e globalità dei problemi; b) alla dissociazione tra cultura umanistica, della riflessività e della problematizzazione e cultura scientifica, caratterizzata dall’organizzazione specialistica del sapere; c) alla persistenza di una finalità meramente informativa contro una finalità formativa, come capacità di selezionare e organizzare le conoscenze. Tale finalità formativa rende quanto mai attuale la massima di Montaigne: meglio una testa ben fatta che una testa ben piena. Tutte queste sfide possono essere raccolte e vinte. Oggi è possibile infatti: L’unico cammino per un’Europa della conoscenza è dunque la riforma del pensiero e questo non è solo un problema scolastico, né solo italiano. C’è oggi l’opportunità di un nuovo Rinascimento come sviluppo di una originalità europea, a condizione di educare ad una razionalità consapevole e riflessa attraverso l’integrazione delle due culture . I rischi di un sistema "bimodale" Benedetto Vertecchi inizia la sua argomentazione sottolineando l’andamento bimodale del sistema scolastico italiano, che fa registrare due opposte polarità: l’una molto positiva, che corrisponde ai livelli più elevati di qualità sul piano internazionale, l’altra che risente fortemente della crisi di sviluppo della scuola nel XX secolo. Ad uno sviluppo della scuola che ha fatto raggiungere l’obiettivo della piena scolarizzazione di quote di popolazione prima escluse, non corrisponde ancora un altrettanto adeguato livello qualitativo. Raggiunto dunque l’obiettivo della generalizzazione dell’istruzione, l’attenzione si è rivolta alla componente qualitativa ed è diventato perciò prioritario l’obiettivo della qualità dell’istruzione. Mentre in fase di espansione non occorre un modello, perché la fase espansiva è sostenuta da ragioni esterne (spinte sociali ecc.), una volta che tale fase si è realizzata, l’attenzione va spostata sugli elementi dinamici interni. Per raggiungere questo secondo obiettivo occorre una maggiore elaborazione e lo spostamento di elementi dinamici dall’esterno all’interno del sistema scolastico. La qualità della scuola nei Paesi industrializzati si misura oggi con la capacità dei sistemi scolastici di offrire motivazioni intrinseche che consentano il mantenimento dei livelli di scolarizzazione raggiunti. Un’analisi di qualità della scuola può essere effettuata sulla base di standard fissati a partire dalla cultura degli adulti: da questa possono venire le indicazioni più efficaci per la riforma della scuola. La cultura degli adulti è infatti un "insieme" che ha riflessi sulla cultura e sulla politica del Paese. Un’indicazione metodologica per definire la qualità della scuola può consistere dunque nel partire dal profilo della competenza degli adulti che dovrebbe corrispondere alle esigenze di un Paese democratico, evitando il rischio del doppio sistema: che si articoli in una parte, riferita alla maggior parte della popolazione, incentrata su obiettivi di omologazione a comportamenti diffusi, e in un’altra, minoritaria, volta ad un’educazione dell’intelligenza. La distanza tra questi due sistemi, entrambi definiti "di qualità", passa attraverso la diversa centralità riconosciuta al linguaggio, alle capacità inferenziali e di astrazione, caratteristiche proprie del profilo colto. Il mancato conseguimento di obiettivi di qualità è correlato oggi non più a condizioni economiche ma a condizioni culturali svantaggiate. Il condizionamento culturale è assunto come elemento predittivo del successo scolastico sostanziale, ossia di quel successo che si legge in tempi lunghi e che equivale alla qualità della cultura degli individui. Una sfida del Sistema Nazionale di valutazione dovrà consistere perciò nell’individuare ciò che sta nascendo e nell’anticipare nella rappresentazione collettiva ciò che è rilevante del comportamento colto della popolazione. Un sistema di valutazione dunque, oltre che rilevare i risultati della scuola, deve tenere sotto controllo i comportamenti dell’età adulta per offrire linee di intervento sulle scelte da operare in ambito formativo. Formare cittadini e non sudditi Tullio De Mauro nel sottolineare l’urgenza di una riforma del sistema scolastico nazionale ne indica due direzioni privilegiate: quella dell’istruzione permanente e ricorrente e quella della sapiente scelta dei nuovi contenuti del sapere scolastico. Una riforma della scuola capace di realizzare sia un sistema di istruzione per tutto l’arco della vita, quale garanzia di cittadinanza per tutti, sia una scuola efficiente e democratica che fornisca un’offerta formativa adeguata ai tempi, articolata e mirata. È la richiesta sempre più pressante della società attuale di livelli sempre più alti di conoscenza e di competenza relazionale (capacità di relazionarsi con le cose e con gli altri) che obbliga gli Stati, non solo quello italiano, a fronteggiare due compiti: Il primo compito richiama il problema della dispersione scolastica e sottolinea come non possa essere considerato raggiunto l’obiettivo della generalizzazione dell’istruzione di base se metà della popolazione italiana adulta, oggi, non ha conseguito la licenza dell’obbligo. Metà della popolazione italiana adulta che, trovandosi di fatto a livelli di sostanziale analfabetismo, non è in grado di partecipare in modo attivo alla vita sociale. Per consentire a questa metà della popolazione italiana di contribuire allo sviluppo della nostra società è urgente sviluppare iniziative di educazione ricorrente e permanente. Sarebbe, a questo proposito, urgente che il Parlamento varasse l’art.16 della legge di Riforma dei cicli scolastici che prevede per le scuole autonome la possibilità di sviluppare un sistema di educazione degli adulti. Il secondo compito è reso ineludibile dalla necessità di fare della scuola un’occasione reale di crescita per tutti; di far corrispondere al conseguimento del titolo di studio lo sviluppo di reali competenze. Una scuola efficiente quindi, ma anche una scuola capace di raccogliere la sfida della crescita accelerata delle conoscenze in ogni ambito del sapere, che sappia accogliere le novità nel campo della società, della cultura umanistica e scientifica, della tecnologia, realizzando scelte sapienti. Solo un’opera di attenta selezione di contenuti, mezzi, strumenti, modalità organizzative, guidata dall’esigenza di formare cittadini e non sudditi, capaci di muoversi da persone libere nella complessità della società contemporanea, consentirà di avvicinare la scuola alla vita, realizzando una scuola democratica in cui il sapere e il saper fare si intrecciano con i valori della solidarietà e della collaborazione. Una nuova soggettività professionale Sergio Cofferati inizia il suo intervento con una premessa sulle ragioni che hanno mosso il sindacato a stimolare, alla fine con risultati positivi, il governo per trovare insieme le politiche migliori per rispondere alle esigenze che sono ormai prioritarie per milioni di persone e di famiglie italiane. Si tratta delle esigenze che riguardano l’occupazione, il lavoro e il reddito che dall’occupazione viene normalmente garantito. Per risolvere questa priorità il sindacato ha chiesto al governo di rendere disponibili risorse, ma soprattutto di scegliere le politiche più adeguate. Il problema fondamentale era quello di realizzare tutte le condizioni e le modalità per creare lavoro e occupazione. È stato chiesto al Governo in carica (come era stato fatto con il Governo precedente) di impegnare - cosa non semplice - risorse consistenti al fine di garantire al sistema scolastico le condizioni materiali. Al Governo è stato chiesto di impegnare quello che è stato chiamato - con un termine ad effetto ma efficace e significativo - il dividendo di Maastricht, in poche e precise direzioni: la scuola e le politiche espansive per il lavoro. L’autonomia e la riforma dei cicli scolastici, che sono il fondamento della riorganizzazione della scuola hanno infatti un costo, come tutte le riforme strutturali. Il risultato è stato positivo, per quanto le dimensioni quantitative fossero contenute. Su quella risposta si è basato il resto della discussione che ha portato successivamente al Patto siglato alla fine di gennaio. In quel Patto l’idea della riorganizzazionze dell’istruzione e, soprattutto, l’idea della definizione di un assetto della formazione adeguato ai processi di integrazione e rispondente anche alle esigenze di formazione di professioni, sono state risolte positivamente. Si è insistito molto in quella discussione - e sarà indispensabile tornare a farlo nella fase applicativa dell’accordo - perché si intreccino gli interventi tra l’istruzione e la formazione professionale. La risposta alla disoccupazione nel nostro Paese potrà arrivare solo se l’insieme del sistema produttivo crescerà. Avendo alle spalle oggi una fase importante di risanamento, esiste una condizione di base sulla quale è possibile innestare un’idea di competizione alta, una sfida che abbia come fondamento la qualità, che non si ottiene se le persone chiamate a lavorare non sono in grado di avere, da un lato, strumenti per potersi formare o aggiornare in maniera sistematica e non più episodica - come è stato finora - e, dall’altro, una crescita qualitativa e quantitativa di quel sapere complessivo che viene offerto dal sistema formativo ad un Paese. La sfida della qualità ha una precondizione: che le persone coinvolte in questo processo siano adeguatamente partecipi e stimolate. Non esiste organizzazione della scuola che produca effetti positivi se i formatori non sono i soggetti sui quali si basa la trasformazione. Per fare questo il sindacato ha a disposizione uno strumento: il contratto. E il nuovo contratto contiene elementi di novità indubbi: accanto all’elemento retribuzione, sicuramente importante, è decisiva l’introduzione di strumenti che consentano un miglioramento, una crescita attraverso la disponibilità soggettiva della professionalità dei formatori, unica via per ottenere progressivamente un recupero della visibilità e del valore sociale delle persone che lavorano nella scuola, in primo luogo gli insegnanti. L’integrazione tra i sistemi dell’istruzione e della formazione professionale Luigi Berlinguer ribadisce, all’inizio del suo intervento, un elemento già presente in altri interventi: la scuola italiana si colloca nell’ambito europeo in una posizione positiva, come risulta dalle diverse rilevazioni dell’Ocse, del Cede, dello Iea e dello Iard. Il vero problema della scuola italiana è la dispersione, l’abbandono, il non completamento del ciclo di studi: da questo dato deve partire una corretta politica scolastica. Le ragioni di tale dispersione sono da ricercare solo in parte nei condizionamenti economici; gli elementi di maggiore incidenza sono infatti due: i condizionamenti culturali delle famiglie e la difficoltà della nostra scuola di adattarsi, per la sua rigidità strutturale, alle diverse vocazioni, aspettative, interessi, attitudini dei ragazzi. Negli ultimi anni si è cercato di correggere questa rigidità con interventi nelle direzioni dell’elevamento dell’obbligo scolastico, dell’introduzione del concetto di obbligo formativo, della centralità della formazione continua. Il secondo punto dell’intervento del ministro riguarda l’Europa. Se si è veramente convinti che dall’Euro bisogna passare all’Europa della conoscenza, è indispensabile, procedere risolutamente sulla strada della riduzione del peso nazionale dei diversi sistemi educativi tramite processi di integrazione strutturale. La base culturale comune dei diversi Paesi europei può facilitare questa integrazione. Il cantiere delle riforme deve essere mirato alla creazione di un’Europa della conoscenza anche per una ragione non culturale: occorre assicurare mobilità professionale sul territorio europeo e quindi condizioni di maggiore espansione del mercato del lavoro e migliori prospettive ai nostri ragazzi. Ciò è possibile attraverso il superamento, soprattutto, della rigidità dei profili professionali che derivano, direttamente o indirettamente, dai singoli sistemi formativi. Questa considerazione porta ad affrontare un terzo punto di nodale importanza: l’attenzione al lavoro. Finora la scuola è stata chiusa dentro la cultura dell’autoreferenzialità, della rarefazione astratta dei saperi e ha guardato con un certo aristocratico distacco alla formazione professionale. La politica fondamentale del sistema educativo del nostro Paese passa attraverso l’integrazione tra istruzione e formazione professionale. Non è però possibile riformare la scuola professionale se essa non dialoga con la scuola, con il sistema scolastico e non soltanto col sistema formativo; le diverse competenze devono restare allocate nello Stato, nelle Regioni, che non possono però considerarsi vasi chiusi. Una politica dell’integrazione significa che bisogna fare un passo avanti, che bisogna fare un’iniezione di cultura nella formazione professionale, che l’insegnamento della matematica, della lingua italiana, della lingua straniera e così via, devono avere un innalzamento della loro qualità che l’attuale sistema di formazione professionale non sa assicurare. La scuola si candida ad avere un ruolo in questa attività, con i suoi insegnanti, la sua cultura, la qualità che ha raggiunto in decenni di professionalità, in una interazione col sistema della formazione professionale, arricchendosi nel rapporto col mondo del lavoro. Questa apertura significa anche allargare lo sguardo non soltanto fino all’età di diciotto anni, ed è questa la novità rappresentata dalla formazione tecnico-professionale superiore; nel passato c’era un solo canale post-secondario, costituito dall’Università, mentre oggi siamo in grado di aprire una nuova filiera formativa. Tutto questo è possibile oggi con la scuola dell’autonomia, capace di superare la rigidità di una scuola centralistica. L’autonomia è stata certamente uno strumento, ma uno strumento indispensabile per creare una scuola aperta. La scuola dell’autonomia è certamente una sfida che non costituisce automaticamente equità, però è una condizione di equità, soprattutto per una ragione, perché significa adattare il sistema formativo alle diversità dei bambini e dei ragazzi, perché consente di valorizzare i talenti e di sostenere i ritardi. L’autonomia costituisce una riforma profonda che valorizza la creatività e l’assunzione di responsabilità, valorizza i protagonisti della scuola e la professione docente e offre alla scuola la possibilità di aprirsi al potere locale, alla comunità circostante, con tutte le difficoltà e le resistenze che tale apertura comporta. L’autonomia significa anche creare le premesse di reti di scuole, di interscambio, di crescita nel confronto tra i diversi modi di operare e questo diventa un arricchimento di tutto il sistema scolastico. Dall’alto, sottolinea il ministro, non deve calare niente , tranne le direttive e gli indirizzi generali, i punti di riferimento comuni di una cultura che resta, prima di tutto, nazionale. Quale allora il nuovo profilo culturale? La strada da imboccare, una strada ricca di potenzialità, è quella della interculturalità, della coniugazione tra passato e futuro, del rapporto tra scienze umane e tecnologia, tra conoscenze e competenze. La letteratura scientifica da tempo si cimenta su questo argomento: si tratta ora di farlo acquisire dal corpo intero della scuola. La sfida culturale consiste, nel superamento della politica dell’insaccato, ossia nell’aggiungere un’ora in più per ogni nuova disciplina, continuando a premere sulla testa del ragazzo come se fosse, appunto, un insaccato. È necessario selezionare le conoscenze e questo comporta l’arduo compito di disegnare un equilibrio tra i saperi ma non abolendo le discipline. Chi non ha nozioni è un ignorante e senza nozioni non si ha cultura ma non si possono avere solo nozioni e non ci si può limitare soltanto all’apprendimento disciplinare che, pure, ha una parte fondamentale. Bisogna riuscire a coniugare conoscenze e competenze, intrecciando il possesso delle conoscenze con la loro capacità d’uso, usando cioè funzionalmente quanto si è appreso. In tempi brevi verrà riaperta la discussione sui saperi , ferma in attesa di conoscere le idee maturate in Parlamento su cicli scolastici: non è infatti possibile completare la prima senza conoscere la struttura in cui tali saperi si collocheranno. Ora la riforma dei cicli scolastici è diventata urgente e non è più possibile rimandarne l’approvazione in Parlamento. Infine il contratto di lavoro e il concorso. Con questo nuovo contratto, grazie soprattutto al contributo sindacale, si è riusciti a fare un’operazione che fa giustizia della professione docente, rispetto al complesso del pubblico impiego. Prevedere momenti nei quali viene riconosciuto chi si impegna di più significa anche aumentare la credibilità sociale complessiva del corpo docente, rispondendo ad un’esigenza ampiamente diffusa nella società. Il nuovo concorso consentirà a molti giovani di entrare nella scuola. Un problema importante - ma non il solo - rimane la questione della scuola non statale, che va risolta perché tutti in Europa lo hanno fatto, cercando un punto di equilibrio tra le forze politiche all’interno della maggioranza di Governo e stando attenti al fatto che ogni volta che si alza la temperatura sulla scuola statale e non statale le riforme si fermano. La scuola dunque sta camminando e i docenti, dei quali il Governo è impegnato a riconoscere lo status come funzione essenziale di questa società, costituiscono i protagonisti principali del cambiamento. |