il
sommario - l'archivio - la
redazione - gli abbonamenti
L'etica della responsabilità
di Sofia Toselli
Intervento
conclusivo del 30° Convegno nazionale del Cidi su "Il diritto
di tutti alla cultura", tenutosi a Pisa nei giorni 21-22-23 marzo
2002.
"Non è semplice concludere un convegno, ma la particolarità
di queste tre giornate di lavoro, forse proprio per il momento che viviamo,
è che tutti gli interventi, pur partendo da terreni diversi,
pur con angolazioni diverse, hanno ribadito gli stessi concetti e hanno
girato intorno agli stessi temi: quello dei diritti, delle libertà,
della democrazia, del ruolo e della funzione della scuola pubblica,
del ruolo e della funzione, nella società dell'informazione e
della comunicazione, della cultura e della formazione. Sono state utilizzate
le stesse parole-chiave: qualità dell'apprendere, buone pratiche
didattiche, curricolo, libertà di insegnamento, autonomia, protagonismo
dei docenti e di tutte le componenti della vita della scuola, compresi
gli Enti locali. È emersa la capacità, tipica dell'intellettuale
che lavora nella scuola, di tenere insieme gli aspetti più generali
delle questioni con quelli più concreti che, in ultima analisi,
sono i problemi legati al "fare scuola" quotidiano e di cui
anche i forum di discussione sono stati un interessante contenitore.
Cercherò allora, proprio a partire dai temi trattati e dalle
parole-chiave più evocate, di mettere insieme il filo del ragionamento
che si è svolto in questi giorni a Pisa.
Le ragioni di
una scuola pluralista, laica e democratica
Oggi la grande manifestazione a Roma: idealmente siamo lì a ribadire
i diritti fondamentali, le tutele a caro prezzo conquistate, le libertà
irrinunciabili.
Quando una parte del Paese sente il bisogno di manifestare per riaffermare
i diritti e la dignità di chi lavora, per ribadire l'autonomia
e l'indipendenza della giustizia o degli organi di informazione, per
sostenere il pluralismo culturale o il diritto di tutti alla cultura,
vuol dire che qualcosa di preoccupante si profila all'orizzonte, vuol
dire che si teme per la tenuta democratica del Paese.
Allora è nella durezza della sfida e della posta in gioco che
oggi dobbiamo ritrovare le ragioni di un lavoro come il nostro: nessuno
può sentirsi escluso o non coinvolto.
Di fronte ai nuovi scenari: alla complessità delle trasformazioni
in atto, ai cambiamenti sociali che si delineano, alla rottura di regole
democratiche che pensavamo acquisite e garantite dal patto costituzionale
o la scuola diventa lo strumento per disegnare un progetto più
evoluto e solidale di società o finirà con l'assecondare,
essa stessa, i gravi tentativi in corso per cambiare gli attuali rapporti
istituzionali e sociali: smantellando lo stato sociale, rompendo i patti
di solidarietà su cui è cresciuta la nostra democrazia.
Tutto ciò in nome di una modernizzazione priva però di
alcuni fondamentali contenuti: equità, solidarietà, sviluppo,
sostenibilità e progresso per tutti.
Certo - è stato detto molte volte - non è solo dalla scuola
che si può condizionare un modello di sviluppo sociale, ma sono
convinta che ci sia uno spazio di intervento tra questa consapevolezza
e la percezione che al disegno di scuola e di società che avanza
non si possa opporre niente.
Se ci convincessimo che non abbiamo alcuna possibilità di intervento
vorrebbe dire che ci rassegniamo all'idea che quel modello prenda corpo
e si sviluppi.
Le ragioni di una scuola pluralista, laica e democratica fanno parte
della nostra storia, individuale e professionale. Sono ragioni con cui
il progetto di riforma del ministro Moratti deve fare i conti. Come
deve farli con le politiche europee: la costruzione di un'Europa non
solo della moneta ma società di donne e uomini, richiede un investimento
massiccio in quello che è il patrimonio migliore di ogni Paese:
la cultura e i principi di civiltà.
La stessa coesione sociale fra i Paesi membri dipenderà dalla
capacità di ciascun governo di attivare politiche sulla scuola,
capaci di dare più istruzione e più apprendimento a tutti.
Perché non c'è progresso e non c'è modernizzazione
se non si alimentano i processi della conoscenza.
Certo c'è sempre in chi costruisce un'ipotesi di sistema di istruzione
una idea di società e di futuro: per questo la questione della
scuola rappresenta un problema che va al di là di fatti puramente
organizzativi e gestionali perché tocca i temi dell'inclusione
e dell'esclusione, dei diritti di cittadinanza, delle libertà,
delle garanzie costituzionali. Tocca il tema della democrazia.
E tocca il ruolo dei poteri pubblici nell'essere garanti dell'equità
e della qualità della scuola. Per questo sono proprio inaccettabili
le modifiche apportate agli esami di Stato, con commissioni tutte interne:
altra manna per le scuole private, altro affondo per la scuola pubblica.
Due modelli di
scuola e di società
Oggi sono a confronto due modelli di scuola e due modelli di società:
da una parte un modello sociale che vuole imporre come un ricatto la
flessibilità senza regole, pena l'espulsione che si traduce in
precarietà, dove il fondamentalismo del mercato orienta la crescita
di un mondo sempre più globalizzato sul piano economico e finanziario,
ma dove la dimensione individualistica è sempre più il
tratto caratterizzante i rapporti fra le persone, i rapporti di lavoro,
e tutte le nuove forme organizzate di vita sociale. Dove diritti fondamentali,
come quelli alla salute e all'istruzione, diventano terreni di taglio
e di risparmio: non più diritti da garantire a tutti ma assistenza
caritatevole per chi non può pagare e prestazioni, anche eccellenti,
per chi se le può permettere.
Un modello sociale dove la deregolamentazione e la privatizzazione fanno
crescere, quella che Bauman chiama la corte dei pochi yesmen e tanti
sudditi che combattono per trovare forme di esistenza vivibili .
Dall'altra parte sta un modello sociale in cui il mercato non si giustifica
da sé ma solo in rapporto con le sicurezze materiali, i diritti
sociali, l'interesse generale, la democrazia. E dove la ricerca di senso,
di un senso autentico e profondo, capace di progettare un mondo migliore,
guarda alla dimensione solidale come al collante sociale del nuovo millennio.
Si intrecciano allora e si connettono ai due modelli di sviluppo, due
modelli di istruzione e formazione, insieme a tutti i temi che riguardano
le grandi trasformazioni del sapere, il rapporto fra istruzione e formazione,
fra formazione e sistema produttivo, fra l'apprendere a scuola e l'apprendimento
nel corso della vita.
Un'ipotetica
libertà di scelta
Noi oggi, ci troviamo di fronte ad un processo di ridefinizione del
ruolo della scuola: la scuola viene espropriata della sua funzione tradizionale
che è quella di creare inclusione, di rimuovere i condizionamenti
sociali, gli ostacoli all'uguaglianza, anzi le disuguaglianze di partenza
diventano il criterio con cui ripensare il nuovo modello di istruzione:
percorsi a più velocità nella scuola di base, e percorsi
rigidamente differenziati alla fine della scuola media, chi a scuola
e chi all'avviamento professionale.
Nascosta dietro a una ipotetica libertà di scelta, viene imposta
una scelta precoce fra due canali rigidamente separati, reintrodotto
un obbligo di istruzione di soli 8 anni, e abrogata non solo la legge
30/2000 ma anche la legge 9/1999, quella che sancisce un obbligo di
istruzione di 10 anni!
Eppure non è difficile capire che si è liberi di scegliere
fra diverse opportunità formative quando il ragazzo o la famiglia
possiedono strumenti culturali capaci di orientarli in tale scelta.
Per questa strada si trasforma un diritto di cittadinanza, che deve
essere garantito a tutti, in un bene da cui vengono esclusi i ragazzi
più deboli, quelli che la scuola da sempre rincorre, e rincorre
perché - lasciata sola - non è stata mai messa nelle condizioni
di poter rispondere a quello che ancora oggi, come ai tempi di don Milani,
è il vero problema: i ragazzi che perde.
Non è allora una soluzione quella di avviarli precocemente in
un canale di serie B. Non è una soluzione degna di un Paese civile:
questa idea contiene in sé una visione arretrata e remota del
mondo.
Eppure la storia di altri Paesi ci racconta che non funzionano quei
sistemi di istruzione assistenziali da una parte ed elitari dall'altra.
Così come non funzionano quei sistemi in cui gli Stati rinunciano
a definire un progetto pubblico e condiviso di istruzione, quasi fosse
impossibile conciliare le libertà individuali con le finalità
comuni di ogni società.
E guardando alla società americana Gardner scrive:
L'istruzione è per sua natura responsabilità pubblica.
Uno Stato democratico non può sottrarsi al dovere di educare
alla cittadinanza, di fornire buone scuole a tutti i bambini quale che
sia la loro estrazione sociale.
Dobbiamo renderci conto che ci serve un sistema scolastico pubblico
che dia più istruzione ai nostri figli.
Preoccupa perciò la semplificazione delle soluzioni proposte,
l'autoreferenzialità delle decisioni, la convinzione di poter
governare un sistema complesso come quello della scuola con miope logica
aziendalistica, di cui la proposta di riforma degli Organi collegiali
è il coerente tassello di un preciso disegno che, riproponendo
un nuovo centralismo burocratico, vuole ridimensionare l'autonomia delle
scuole, la professionalità dei docenti, il lavoro collegiale,
ma anche lo spazio conquistato dagli studenti con il loro statuto e
la partecipazione democratica dei genitori.
I rischi di un
arretramento
Quale sarà l'effetto per il nostro Paese? Certamente un arretramento
culturale e sociale.
Eppure, dicono i migliori economisti, la capacità intellettuale
crea nuove tecnologie ma sarà il lavoro qualificato la base che
consentirà di impiegare le nuove tecnologie nell'innovazione
di processo e di prodotto.
Dunque, più conoscenze e competenze in ogni posizione lavorativa
e più soldi pubblici e privati per la ricerca scientifica.
Invece in Italia la direzione che si segue è opposta.
Meno fondi e meno giovani per la ricerca - scriveva allarmato
Pietro Greco sulle pagine di un quotidiano - questo fatto sarà
un boomerang per il nostro Paese e concludeva chiedendosi se questa
sia la modernizzazione di cui dobbiamo andare fieri.
In verità, ci chiediamo anche noi: è una scuola più
moderna, capace di rispondere alle sfide del mondo contemporaneo quella
che oggi viene proposta? È la scuola delle tre I (inglese, internet,
impresa) quella che ci darà un futuro migliore, che salverà
i nostri figli dalla disoccupazione, che eleverà il livello culturale
del Paese?
Lo abbiamo detto tante volte: il punto non è internet, non sono
le nuove tecnologie, ma è la capacità d'uso della mente
su queste tecnologie. È questa capacità di usare la mente
che è fondamentale per il mantenimento di una collettività
che interpreta, che pensa, che progredisce sul piano economico e produttivo.
Anche la tanto evocata cultura di impresa non vuol dire nulla se dietro
non c'è una disciplina mentale sicura, un pensiero capace di
progetto e di iniziativa, una intelligenza che riconosce e risolve problemi.
Le élite imprenditoriali frequentano le migliori scuole del mondo!
E non solo per snobismo ma perché sanno che l'importante è
avere una solida istruzione, conoscenze che durano nel tempo, una cultura
ampia e completa.
L'inglese, certo, ma è centrale il possesso pieno della nostra
lingua - lingua che ci rende uguali e rende libero il pensiero.
I limiti della
"nuova" scuola
Insomma, è proprio a partire dal rifiuto di una visione solidale
e moderna di società che si sta costruendo la nuova scuola.
E sono convinta che sbaglino quei colleghi che pensano che, anche questa
volta, non ci sarà la riforma.
La legge delega del ministro Moratti è stata accolta dal Governo,
nonostante il parere negativo dei Comuni e di molte Regioni.
Al ministero sono già al lavoro sui piani di studio, sono al
lavoro sulle carriere, sull'orario, sulla valutazione delle scuole e
dei docenti.
Da tempo provvedimenti in atto ledono diritti acquisiti, sottraggono
responsabilità e spazio agli insegnanti, eliminano le condizioni
per l'esercizio dell'autonomia (i tagli, in finanziaria, dell'organico
funzionale, l'aumento delle ore di supplenza, l'aumentato rapporto alunni-insegnanti
per classe; i tagli previsti di tutto il personale della scuola).
Da tempo molte Regioni, attraverso la politica di devolution e del buono
scuola, finanziano le scuole private.
Da tempo è al lavoro una commissione che vuole definire, senza
alcun confronto con il mondo della scuola, un Codice deontologico per
gli insegnanti; senza capire che la deontologia non è declinabile
in un mansionario di diritti e di doveri scritto a tavolino, ma si fonda
su un delicato intreccio, sempre da ricercare e da ricostruire, tra
libertà, responsabilità, competenze e norme, Costituzione
compresa.
Ogni giorno sentiamo di qualche nuovo attacco alla libertà d'insegnamento
o alla buona gestione di quei dirigenti scolastici, considerati "orientati".
L'etica della
responsabilità
Come uscirne allora? Come contrastare questo disegno che mira a smantellare,
in una visione tutta economicistica e di basso profilo, il valore sociale
e inclusivo della scuola pubblica? E lo vuole fare attraverso lo strumento
della delega per sottrarre ogni discussione al Parlamento!
Io non so se ci sia altra strada se non quella di chiamare in causa
l'etica della responsabilità: oggi noi insegnanti abbiamo un
compito difficile, e se il mestiere di insegnare è sempre stato
faticoso, complesso, esigente, oggi lo è più che mai.
Certo, gli interrogativi intorno ai quali crescono le nostre incertezze
sono tanti: come garantire più apprendimento e più cultura
a tutti, quali conoscenze oggi sono più formative di altre, che
cosa è più utile e importante sapere.
Come costruire il pensiero critico, l'identità pubblica, la sfera
della cittadinanza.
Come costruire un curricolo significativo che accompagni l'allievo dalla
scuola dell'infanzia alla conclusione del ciclo scolastico e come fare
dell'aula un ambiente di apprendimento che motivi, che incuriosisca,
che dia spazio e centralità a ogni bambino e bambina, che coltivi
le diverse intelligenze, costruisca relazioni, prenda con sé
interessi ed emozioni.
Ma anche, come rapportarsi agli eventi recenti: il Genoa Social Forum,
Porto Alegre, il crollo delle torri a NewYork, la guerra in Afghanistan,
la lotta al terrorismo, la guerra in Medio Oriente. Eventi che lasciano
tracce in ciascuno di noi, che riconvertono il nostro modo di vivere
e di pensare, che disorientano ma che chiedono di essere affrontati,
discussi, approfonditi. Come dare allora strumenti di riflessione e
di conoscenza senza apparire di parte?
Gli interrogativi sono tanti e per nessuno è semplice ridisegnare
continuamente le proprie coordinate mentali, fare appello soltanto alle
proprie forze.
Ma se a tutto questo si oppone il silenzio, il disincanto, il lavoro
nel chiuso di un'aula in qualche modo, noi stessi assecondiamo il modello
di scuola che avanza.
Del resto nonostante i dubbi e le incertezze abbiamo la responsabilità
di dare a ciascun bambino e bambina, a ciascun ragazzo e ragazza, ogni
giorno, apprendimento e cura. Abbiamo la responsabilità di indicare
la strada a ciascuno di loro.
Non rinunciamo perciò.
Ci sono norme importanti, ancora in vigore, facciamole funzionare. C'è
il decreto interministeriale 234/2000, c'è il Regolamento dell'autonomia,
in particolare l'art. 6, quello che definisce l'autonomia di ricerca,
sperimentazione, sviluppo. Ci sono le Indicazioni per i curricoli nazionali
- i curricoli De Mauro - che rimangono un quadro di riferimento importante,
elaborazione seria e culturalmente fondata per le scuole dell'obbligo
che volessero utilizzarle.
Soprattutto teniamo saldo il principio dell'autonomia.
Fateci caso: un pesante attacco attraverso vari provvedimenti contenuti
nella legge finanziaria, nel disegno di legge sugli Organi collegiali
di Istituto, nel progetto di riforma del ministro Moratti, tocca il
cuore stesso dell'autonomia: tocca i docenti in quanto comunità
che pensa, che agisce, che sceglie autonomamente e liberamente. In quanto
comunità competente e responsabile. L'autonomia, infatti, anche
se in fase di avvio, ha evidenziato due aspetti del nostro mestiere:
un alto grado di responsabilità progettuale e la dimensione collaborativa
del lavoro a scuola. Perciò il tentativo in corso è quello
di dividere e di gerarchizzare (le discipline, gli insegnanti, i vari
ordini di scuola), di ricondurre i docenti sulla strada di un lavoro
impiegatizio e burocratico, di ricollocarli in un ruolo di esecutori
di decisioni prese da altri: pensiamo alla prima formazione e alla formazione
in servizio che si vorrebbero affidare esclusivamente all'Università.
Mentre le pratiche didattiche migliori e più efficaci sono state
sempre introdotte e diffuse da quegli insegnanti che hanno svolto, con
competenza e responsabilità, un ruolo attivo dentro la scuola.
Allora, se forti sono gli attacchi all'autonomia, noi costruiamo rapporti
più stretti con i colleghi, con gli studenti, con i genitori.
Quello che conta sono le buone pratiche, le relazioni, la nostra capacità,
unita a quella dei colleghi, di creare ambienti scolastici che siano
davvero luogo di vita e di apprendimento per ogni ragazzo. Con tutte
le difficoltà che incontreremo, consapevoli che il senso del
nostro lavoro sta proprio in questa continua e faticosa ricerca. Ed
è a partire da qui, dalla nostra paziente, tenace e sapiente
azione quotidiana, che possiamo contrastare un disegno di scuola arretrato
e autoritario che non ci piace e non vogliamo.
E costruiamo rapporti fuori della scuola: con gli Enti locali - dove
è possibile - con l'associazionismo professionale, con i sindacati,
con il mondo della cultura e della ricerca, con la società civile.
Sono sicura che la scuola non starà a guardare: gli insegnanti
sono consapevoli del ruolo e della funzione che svolgono, e se, in questo
difficile passaggio, sapranno con responsabilità e competenza
utilizzare tutte le loro risorse, rimarranno ben radicati i valori della
scuola secondo Costituzione e il principio, questo sì modernissimo,
del diritto di tutti alla cultura".
numero 6-7/2002
|